Il nocciolo della gara stava nel creare, insieme ad un'altra autrice abbinata dalla sorte, due storie indipendenti che avessero qualcosa che le unisse...
La mia partner è stata Marge86, che ringrazio per la velocità con cui ha concluso la sua. Siamo state le prime a consegnare... spero ci porti bene.
Ora vi lascio alla lettura, sperando che la gradiate e che mi facciate sapere cosa ne pensate.
Un abbraccio forte,
Teresa.
P.S: il banner è mio. Adoro la grafica e se volete vedere le altre mie produzioni, vi basta visitare la mia pagina personale.
Ero certa che
dentro ci fossero loro:
i documenti relativi al mio trasferimento in Brasile.
Il cuore mi
batteva tanto forte, che
sembra volermi uscire dal petto. Con le dita tremanti, avevo stracciato
la
linguetta laterale, ed estratto un plico compatto di fogli, su cui
spiccava la
classica custodia rettangolare contenente un biglietto aereo. Di sola
andata.
Mancavano
quindici giorni alla
partenza. Avevo letto la data stampata sopra per pura
formalità, in quanto avevo
scelto io di partire il 10 novembre, in una giornata del giugno scorso
in cui
mi ero sentita traboccante d’ottimismo. Di quel periodo ricordo
anche il giorno,
forse di un paio di settimane precedenti, in cui ero stata chiamata
nell’ufficio del Direttore e mi era stato offerto il ruolo di
responsabile
tecnico nella nostra sede di San Paolo. Del Brasile, naturalmente.
Lì
per lì non avevo saputo cosa
rispondere, se non un “devo prima parlarne in
famiglia…”. Ma una volta superato
lo sbalordimento, mi ero lasciata cullare dal lusingante discorso su quanto fossi perfetta per quel ruolo, e
su quanto questa proposta fosse
importante per la mia carriera, tanto da valutare sul serio
la proposta. Mentre
me ne tornavo a casa, dopo un pomeriggio in cui avevo faticosamente
finto di
lavorare, perché troppo frastornata da ciò che mi
era stato detto, mi ero
preparata il discorso da fare a mio marito, ripercorrendo mentalmente
gli
elementi cardine del colloquio.
Punto primo: la
succursale brasiliana
dell’azienda farmaceutica in cui lavoravo aveva bisogno di
una persona di larga
esperienza per coordinare la produzione di un nuovo farmaco appena
messo in
commercio.
Questo era
chiaro.
Punto secondo:
dato che il personale
locale era di nuova assunzione, la direzione aveva pensato di
trasferire per
l’occasione una figura di rilievo del nostro laboratorio, che
avesse le
competenze e l’esperienza sufficiente a coordinare persone e
ricerca.
Anche su questo
non c’era niente da controbattere.
Punto terzo: il
Direttore era
convinto che io, alla soglia dei cinquant’anni, quasi
metà dei quali trascorsi
all’interno del settore e con due figlie ormai grandi, fossi
la candidata
perfetta.
Una parte di me,
la più orgogliosa,
ne era convinta; l’altra, la più realista, era
perplessa.
«Marco, ho una
cosa veramente importante da dirti». Avevo esordito
con mio marito mentre controllavo la cottura
delle zucchine per la cena. Stavo aspettando con trepidazione il suo
rientro cercando
di trattenere, con estrema fatica, il sorriso che involontariamente
continuava
a stirarmi le labbra.
«Ok,
ma prima mangiamo», aveva risposto lui,
appoggiando nell’ingresso la borsa dell’ufficio.
Avevo annuito,
quasi sollevata di poter
posticipare di un po' la discussione.
Dopo aver
sparecchiato la tavola, avevo
iniziato il racconto, mentre
ancora
scuotevo la tovaglia dalle briciole del pane, con la voce che mi
tremava e la
sensazione che ciò che ascoltavo uscire dalle labbra fosse incredibile alle mie
stesse orecchie. Marco,
come suo solito, non aveva fatto una piega. Se era rimasto turbato
dalle mie
parole, non lo aveva dato sicuramente a vedere.
«Allora,
cosa ne dici?» Gli avevo chiesto in
preda all’ansia. «Sembra quasi incredibile, vero?
Non che io abbia deciso di accettare,
ma mi sembra un’occasione piuttosto unica. E poi sarebbe solo
per un anno…»
avevo continuato parlando a raffica.
«Il
Brasile è dall’altra parte del mondo,
Luisa, te ne rendi conto?» Aveva pronunciato. «Ma
lo dico per te, sai? Perché
io ce la posso fare, le ragazze sono autonome qui, a casa, problemi non
ce ne
sarebbero.»
«Certo
che lo so. Ma anche rifiutare, solo per
questo, mi sembra un peccato.»
Avevo
obiettato.
«Sono
sicurissimo che sei adatta per quel
posto. Per me puoi andare.» Aveva replicato con un sospiro.
Ecco,
l’ostacolo più duro era stato superato.
Un leggero capogiro seguito da una fastidiosa sensazione di sollievo e
di
tristezza insieme, avevano seguito la fine della discussione. Ma
più ci avevo
pensato, nei mesi a seguire, più la tristezza per il fatto
che Marco non avesse
fatto nulla per trattenermi, aveva prevalso. A mitigare
l’amara sensazione, era
arrivata la consapevolezza che in fondo lui non avrebbe, in ogni caso,
potuto
far nulla per fermarmi. Perché io, davanti ad un suo
categorico rifiuto a
lasciarmi partire, magari facendomi una scenata -che tra
l’altro non rientrava
nel suo stile- mi sarei intestardita ancora di più e avrei
accettato l’offerta
solo per ripicca. Il risultato, quindi, è che non
c’era assolutamente alternativa,
io avrei fatto di testa mia e mi sarei trasferita in ogni caso. E
questo lui,
probabilmente, lo sapeva.
Per quanto
riguardava le due figlie, Carlotta
di diciotto anni e Fulvia di quasi venti, che io da sempre chiamavo
“le
gemelle”, sia per la somiglianza, sia per i soli 15 mesi di
differenza
anagrafica, avevo scoperto che erano stupidamente entusiaste del mio
viaggio.
Ero sicurissima che non si rendessero conto che sarei stata via per
molto
tempo, erano convinte che fosse l’occasione
per conoscere il mondo e si erano procurate subito il
passaporto, per
poter trascorrere il Natale, da me, in Brasile. E così era
stato, che avevo
accettato il trasferimento.
Dopo quella
prima chiacchierata in giugno,
Marco, non aveva più sollevato il discorso,
e mi aveva aiutato a organizzare documenti e bagagli come
se stessi programmando
una gita. Ogni tanto accennava a cose pratiche, come il fatto che mi
sarei
dovuta aprire un conto corrente in una banca locale, o di
accertarmi se avessi dovuto pagare di tasca mia le utenze
dell’appartamento che
mi sarebbe stato assegnato a San Paolo.
Ero arrivata,
quindi, in un lampo al momento
della partenza, e il panico mi divorava.
Nei mesi
precedenti avevo alternato momenti di
euforia, che condividevo con colleghi e amici, a momenti di intimo
sconforto
all’idea di lasciare la famiglia, la casa,
l’Italia, per un paese così lontano,
di cui non conoscevo neppure la lingua. Insieme alle
“gemelle” avevo trascorso
l’estate a studiarne la geografia, gli usi e i costumi,
per scoprire con stupore loro, e sollievo mio, che mi stavo per
trasferire
nella città più multietnica del Brasile, in cui
l’immigrazione italiana era la
più forte.
Avevo
controllato, i dati scritti sul biglietto.
Sarei partita con un volo dell’Alitalia,
dall’aeroporto di Fiumicino alle 15.30
di domenica 10 novembre per arrivare a San Paolo Guarulhos alle 2.00
del giorno
dopo. Un viaggio di dodici ore e venti minuti. Tutto da sola.
Un paio di volte
alla settimana mi collegavo
via Skype con Hilario, collega di San Paolo, che era stato incaricato
di farmi
da tutor durante la mia trasferta. Essendo spagnolo era la persona con
la quale
avevo maggiori speranze di capirmi. Auguri.
«Hola
chica, que ya ha preparado su equipaje?»
Mi aveva detto ridendo allegramente poco prima della partenza.
“Equipaje”…
stava parlando delle valigie,
avevo dedotto.
«Sì,
tre valigie, belle grosse.» Gli avevo risposto
agitando le braccia davanti allo schermo, mimando le dimensioni
esorbitanti dei
miei bagagli. I programmi aziendali erano che rimanessi a San Paolo un
anno, ma
non mi sembrava delicato chiedere, ancor prima di partire, quando avrei
potuto ottenere
qualche settimana di ferie per tornare in Italia. E quindi, anche se
durante le
mie ricerche avevo scoperto che sarei andata a vivere in una specie di
paradiso
climatico, dove non esistevano estati torride né inverni
gelidi, mi ero
preparata capi adatti ad ogni
evenienza.
«Tres
maletas? Caramba, Luissa. Te espero en
el aeropuerto con una camioneta…»
«Procurati
quello che ti pare, solo che mi
vieni a prendere…» gli avevo risposto salutandolo.
Hilario era un
altro argomento che io e Marco
non trattavamo. Lui sapeva che mi collegavo spesso con il brioso
trentacinquenne
spagnolo, e sapeva pure che mi sentivo rincuorata
dal fatto che mi stesse aspettando. Ma non riuscivo a capire cosa
stesse
pensando realmente: avevo la sensazione che avrebbe preferito che il
mio tutor
fosse stato una donna. Non lo aveva, però, mai detto
chiaramente ed io, a rigor
del vero, non gliel’avevo chiesto.
La casa, di quei
giorni, era tristemente
spoglia dei miei oggetti più cari: la foto delle gemelle che
si abbracciavano
felici, la boccetta di profumo che era sempre stata nel bagno sulla
mensola del
lavandino, la raccolta di cd di musica classica… Al loro
posto, stavano in un
angolo del soggiorno tre enormi trolley scuri che mi ricordavano in
continuazione lo scorrere inesorabile del tempo.
La fatidica
domenica era arrivata insieme ad una
grossa perturbazione che, da giorni, sovrastava l’intero
paese. Dal
telegiornale arrivavano notizie di spaventose inondazioni, di trombe
d’aria e
nubifragi: sembrava che il tempo riflettesse il mio umore di questi
ultimi
giorni. Dire che ero spaventata dall’imminente cambio di vita
era poco.
Marco mi
guardava e taceva, anche se nei suoi
occhi riuscivo a leggere un malcelato disaccordo verso la mia scelta.
«C’è
un tempo veramente schifoso» aveva
bofonchiato la sera precedente la partenza ascoltando
l’ennesima notizia sul
maltempo. «Vuoi che ti accompagni fino a Roma?»
La sua offerta
avrebbe potuto sembrare
premurosa, se la sua espressione non
fosse stata discordante. Dai suoi modi, capivo, che dovevo cominciare
ad
arrangiarmi per conto mio, da subito.
«Non
ce n’è bisogno, grazie. E’ sufficiente
che mi accompagni in stazione. I treni sono mezzi sicuri, non
c’è nulla da
preoccuparsi.»
Per essere certa
di arrivare in tempo
all’aeroporto di Roma, avevo prenotato un posto sulla Freccia
Argento delle 8.43,
che in sole due ore mi avrebbe
portato alla Stazione Termini, dove avrei preso il treno navetta verso
Fiumicino. Avevo deciso di partire da Bologna con buon anticipo e il
tempaccio
che imperversava da ormai troppo tempo, sembrava darmi ragione.
Dopo mesi di
cielo sereno, il destino aveva
deciso di giocarmi questo brutto scherzo. Quella domenica mattina, Il
vento
forte scuoteva i rami degli alberi facendoli vibrare come
stuzzicadenti. Le
foglie morte saettavano da una parte all’altra della strada
impazzite, per poi
radunarsi in mucchietti fradici sul ciglio dei marciapiedi.
Durante il
tragitto verso la stazione Centrale
aveva ricominciato
a piovere: grossi
goccioloni freddi, che in principio cadevano radi, si erano
trasformati, via
via, in una cascata d’acqua così fitta ed
insistente che i tergicristalli
dell’auto faticavano a domarla. Marco imprecava sottovoce. Ce
l’aveva con il
tempo, con il fatto che le enormi valigie lo avevano costretto ad
assurde
manovre sotto la pioggia per scastrarle dall’abitacolo, e con
me che ero la
causa di tutto questo. Eravamo arrivati sul binario fradici ed esausti.
Il
treno era sopraggiunto, per fortuna, dopo pochi minuti.
L’attesa era stata
imbarazzante, le valigie tra di noi, formavano un muro invalicabile,
sembravamo
due estranei. Gli occhi mi pizzicavano di frustrazione, avrei avuto
voglia di
sciogliermi in un pianto liberatorio. Marco mi aveva aiutato a caricare
le
valigie sul treno: eravamo solo noi, le ragazze le avevo salutate a
casa.
«Fai
buon viaggio e chiama quando arrivi
all’aeroporto.»
Aveva
accompagnato l’augurio con
un leggero sfioro di labbra. Fugace, come un
saluto tra amici. Gli avevo risposto di sì col groppo in
gola.
Ero arrivata a
Roma pressoché in orario.
Durante il tragitto, però, il tempo era andato peggiorando.
Nel cielo plumbeo, che
ricordava più l’imbrunire che la metà
mattina, ogni tanto vedevo saettare lampi
che si scaricavano all’orizzonte. Alla stazione avevo saputo
che il treno
navetta per l’aeroporto era fermo a causa di un albero caduto
sui binari.
Dovevo mantenere la calma ed aspettare il mio turno in coda in attesa
di un
taxi. Mi ero già amaramente pentita di essermi portata tutti
quei bagagli e
sotto sotto anche di essere partita, ma cercavo di convergere il mio
malumore
solo sul primo dettaglio. Il viaggio sull’elegante auto
pubblica bianca, mi era
sembrato eccessivamente lungo. Quasi un’ora. Forse il doppio
del solito, da
quello che avevo capito dai commenti caustici del conducente, che
imperterrito,
continuava a spazzolare coi tergicristalli impazziti il vetro anteriore
dell’auto, senza che il fiume d’acqua sembrasse
diminuire. Il traffico era come
paralizzato. Ferma ai semafori, mi passavo il tempo guardando le sagome
indistinte dei mezzi che scorrevano davanti a me. Gli autobus, entrando
nelle
pozzanghere, producevano onde d’acqua alte un metro: per
fortuna non c’erano
pedoni in transito e le rare moto si erano spostate nel centro della
strada. Un
carro funebre transitava, lento, senza che riuscissi a capire se avesse
o no,
un corteo di auto al seguito. Sembrava una città vista da un
miope senza
occhiali. Il riflesso rosso degli stop delle auto davanti a noi, era
l’unico
colore tra tante sfumature di grigio.
Mi ero sentita
quasi felice una volta arrivata
all’aeroporto. Felice di essermi lasciata alle spalle tanta
tristezza.
Sono
all’aeroporto. Tutto bene. Ci sentiamo quando atterro. Avevo scritto
in un sms a Marco.
Il decollo era
da sempre, per me, la parte
peggiore del volo. Mentre l’aereo rullava sulla pista
prendendo velocità, avrei
avuto bisogno di poter condividere con qualcuno il panico che, come
solito,
cercava di sopraffarmi. Con lo stomaco in subbuglio e le dita ancora
arpionate
ai braccioli, invece, mi ero accorta che ancora una volta ero
sopravvissuta all’esperienza.
Chissà se potevo considerarlo un segnale di buon auspicio
per la mia nuova
vita… sarei sopravvissuta anche a quella?
Il volo verso il
Brasile mi era sembrato
interminabile. Mezza giornata di noia scandita dal passaggio, a cadenza
regolare, dei carrellini del servizio ristoro. Pur avendo un posto
vicino al
finestrino, non ero riuscita a vedere nulla, a causa dei densi nuvoloni
che
ricoprivano il cielo sul Mediterraneo. Poi si era fatto buio. Per lo
meno non c’erano
state turbolenze.
Ad aspettarmi in
aeroporto, come da programma,
c’era Hilario. Quello che non mi sarei mai aspettata, invece,
era che armato di
santa pazienza, avrebbe fatto del mio benessere in terra carioca la sua
missione. Grazie a lui avevo scoperto che San Paolo era una metropoli
moderna
piena di vita, colorata, allegra e… profumata. Appena si riusciva a scappare dai
quartieri centrali soffocati
dal traffico, ecco che lo smog tipico dell’urbanizzazione
selvaggia, veniva
sostituito dall’odore della natura. Alberi di Ibiscus,
magnolie, e persino boschetti
di eucalipti, spandevano in giro seducenti fragranze tropicali o
balsamiche.
Anche
ambientarsi nel nuovo posto di lavoro
era stato più facile del previsto. Di questo dovevo
ringraziare, come solito,
il mio angelo custode che, coi suoi occhi scuri luccicanti e un
sorriso
radioso, sapeva accattivarsi le simpatie di tutti. I ragazzi e le
ragazze del
gruppo erano intelligenti e laboriosi. In più erano belli.
Stavo imparando che
la vita in Brasile era accompagnata dal concetto di bellezza: non
importava che
si parlasse di clima, di natura o di persone. Con loro, in poco tempo,
ero
riuscita a creare un dialogo vero, che andava ben oltre le barriere
linguistiche, e il lavoro rifletteva questo stato di benessere. Dalla
sede
centrale di Bologna mi erano giunti commenti entusiasti del nostro
lavoro.
La vigilia di
Natale erano arrivate Fulvia e
Carlotta. Con l’aiuto dell’inseparabile Hilario
avevo preparato loro
un’accoglienza degna del paese di Babbo Natale. Il mio
piccolo soggiorno riluceva
di mille decorazioni. L’albero, addobbato, era forse
più grande di quello che
avevo in Italia. Bacche di cannella e di anice stellato, spandevano
nell’ambiente il classico aroma familiare. Desideravo che le
ragazze si
sentissero a casa, che percepissero il mio stesso senso di benessere.
L’unico
neo era che non ero riuscita a convincere Marco a seguirle.
“La prossima
volta”, mi aveva risposto quando, via Skype, gli avevo
chiesto di accompagnare
le ragazze. Questo suo atteggiamento distaccato cominciava veramente ad
irritarmi. Faticavo a tollerare di sentirmi vincolata in un rapporto
ormai
freddo. Avevo capito già da anni che la mancanza di dialogo
stava inaridendo il
nostro matrimonio, ma
la distanza
rendeva più evidente la cosa. In più ci dovevo
aggiungere, che ora, potevo
considerarmi una donna nuova: più forte, più
sicura: con alternative.
In un certo
senso, però, dovevo ringraziare proprio
Marco per non avermi tarpato le ali… ed ero dispiaciuta che
non mi stesse
seguendo nella crescita. Questa era la forza della
possibilità che mi era stata
offerta: scoprire che potevo cavarmela egregiamente da sola ed esserne
soddisfatta.
Per ora dovevo rassegnarmi del fatto che lui non mi avesse raggiunta. Avrei lasciato che capisse dalle parole entusiaste delle gemelle ciò che rischiava di perdere. Avrei insistito, certamente, e poi di nuovo un’altra volta, perché non ero pronta a lasciarlo andare, definitivamente. Le lusinghe del nuovo mondo non mi avevano fatto dimenticare che il nostro era stato un matrimonio basato sull’amore. Ma mi sentivo sufficientemente matura da arrivare, un giorno, a metterlo con le spalle al muro: decidere se io ero ancora un punto di riferimento nella sua vita. Io la mia occasione l’avevo colta. Ora stava a lui decidere quale sarebbe stata la sua.