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Autore: rachel_hetfield    25/01/2014    2 recensioni
Presi una boccata d’aria troppo grande, mi girò la testa e mi appoggiai al metallo freddo della capsula. «Come puoi amarmi se mi odi?»
«Non so come dirtelo che non ti odio.»
Lasciai il metallo e mi avvicinai di più a lui. Con la mano destra mi allungai verso il pulsante del timer. Un suono robotico lo fece partire.
«Non fare cazzate» singhiozzò «ti prego. Resta qui. Non ce la farei senza di te.»
Avevo impostato il timer per sessanta minuti, un’ora esatta. Avevo un’ora di tempo per decidere se fare le valigie, o attirare Kevin e rimandarlo indietro, a Oslo.
Evitai le sue labbra che si erano chinate su di me. «Devo... devo restare da sola. Torniamo nella locanda. Devo pensare.»
«Non farlo...» mormorò con la voce strozzata dal pianto.
Scossi la testa mordendomi un labbro. Fortunatamente ero voltata di spalle, perché avevo iniziato a piangere anche io.
«Rachel, ti amo.»
Singhiozzai e mi sentì. Il mio cuore balzò. Mi aveva circondata con le braccia, di nuovo. Solo che stavolta piangevamo entrambi. Il destino ce l’aveva con noi.
«Ti amo anche io, Dan.» [capitolo 16]
Genere: Drammatico, Romantico, Science-fiction | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: AU, Lime | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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Oslo, Norvegia, 8 ottobre 3020
Mi sorpresi di me stessa di essere così eccitata ma spaventata al tempo stesso dell’idea di essere da sola, a cercare un posto dove dormire, mangiare, insomma, non sapevo da dove iniziare per farmi una nuova vita.
Avevo parecchi soldi sul mio conto, soprattutto dopo la morte di papà, l’assicurazione sulla vita – era importante di questi tempi, molte persone perdevano la vita – mi aveva lasciato altri diecimila graks e potevo considerarmi sistemata per un po’.
L’aerobus si fermò e si aprì la scala sottostante per far scendere i passeggeri. Ero arrivata a Oslo. L’ansia, che brutta compagnia. Ancora mi chiedevo dove sarei potuta andare.
Chiamai un aerotaxi ma era occupato ma una coppia giovane appena sposata. Che fortuna, dissi. Erano due uomini, e immaginai che fosse molto più facile essere omosessuali per sposarsi. Gli uomini come si avvicinavano un po’ a me, o venivano multati o li condannavano a due nottate in cella. Bel paese libero, avrebbe detto qualcuno del passato.
Mi incamminai per le strade per i pedoni e finii in un quartiere dove erano poche le auto volanti che circolavano, giusto qualche aerotaxi che si fermaca sotto le residenze delle persone. Tossii quando mi arrivò una folata di vento gelido, e aumentai la temperatura del cappotto per riscaldarmi. I riscaldamenti automatici della città non erano ancora accesi, eppure erano già le nove del mattino.
Nessuno era mattiniero ad Oslo, me lo avevano detto le persone che ci vivevo e le ragazze con cui facevo le Seconde Scuole, l’ultima ad essere obbligatoria. Avevo abbandonato la scuola finite le Seconde per dedicarmi di più alla scienza e alla scoperta di nuovi astri nello spazio, di far avanzare la tecnologia. Frequentavo i corsi extra a Stavanger, sempre costosissimi e che a mamma e papà costavano un occhio della testa, ma che mi avevano offerto parecchie prospettive di lavoro. Mi avevano parlato del laboratorio di Oslo, era un centro di ricerche avanzatissimo e che stavano lavorando su un progetto importantissimo.
Ci lavorava Kris, un caro amico di papà, che ci aveva sempre sostenuti e mi aveva trattata come una figlia sin da piccola, quando ci eravamo conosciuti.
Non mi aspettai di trovare Kris a bordo di una vettua volante, che si fermò proprio accanto a me. Per poco caddi per terra per lo spavento, avevo temuto il peggio.
«A cosa dobbiamo l’onore di avere Rachel Hetfield qui a Oslo?» mi sorrise aprendo la cappotta.
«Lo sai, Kris, non ho intenzione di essere un peso per la mamma ancora per molto» sorrisi a mia volta.
«Le peserebbe di più sapere che tu sei via e che non sa come stai, ma fai come ti pare, ti do un passaggio a casa tua...» si zittì, come in riflessione «Ma ce l’hai una casa?»
Scossi il capo e lui scoppiò a ridere.
«Allora credo che una visita al laboratorio non ti dispiaccia.»
Saltai nella sua vettura sul sedile posteriore, dato che la legge impediva di avvicinarsi troppo agli uomini. «Nemmeno un po’!»
Mise in moto e partimmo.
Oslo era tutt’altro luogo di Stavanger, era così avanti e così nuova, protetta e calorosa, tutto sembrava perfetto, che niente potesse andare storto. Kris prima disse che gli dispiaceva per papà, ma sapevo che lui era distrutto quasi quanto me. Forse anche di più. Io non ci avevo tenuto troppo, anche se era stata una perdita grave per me. Papà non c’era mai stato, forse avrei scambiato Kris per mio padre, dato che era più presente lui. Ma non aveva importanza, si andava avanti, e il suicidio era sicuramente una normalità con quella crisi.
«Possibile che non hai trovato ancora un appartamento?» chiese incredulo il mio amico entrando nel laboratorio che tanto sognavo di frequentare. Era altissimo, il soffitto lo vedevo a stento, tutto era così nitido e perfetto, solido, si collaborava alla perfezione e non vedevo l’ora di lavorare lì, anche come semplice assistente eccetera, solo a stare in quel luogo mi riempivo di gioia.
«No, non ho nemmeno guardato» ammisi ancora ammaliata da quello spettacolo.
«Beh io so che un ragazzo di circa ventitré anni che conosco affitta un appartamento non lontano da qui, costa poco ed è molto carino. Dovrebbero avere un’altra stanza disponibile per te, potrei provvedere io, che ne pensi?»
Mi strinsi nelle spalle. «Mi basta che sia qui vicino.»
Ridacchiò scuotendo il capo e mi fece strada verso il suo studio, dove faceva le ricerche più assurde che ancora non avevano portato risultati.
«Ma di cosa si tratta quel progetto misterioso di cui parlate tanto?»
Passò la mano davanti allo schermo del suo desktop tridimensionale, ai quali non assistevo tutti i giorni, e selezionò delle immagini, spronandomi a guardarle tutte. Era una struttura a forma di piramide a cui mancavano una porta, dei pezzi, era ancora da verniciare e dei meccanismi ancora si intravedevano attraverso quello che doveva essere l’accesso.
«Come ti sembra? È bruttina, vero?»
Risi. «Se devo considerare che rimarrà così, allora sì, è proprio brutta.»
«Oltre ad essere scienziati» disse orgoglioso «noi siamo maniaci della precisione e della bellezza esteriore.»
«Allora posso scordarmi di essere assunta?» ironizzai puntalizzando sul fatto di non essere molto bella.
Scoppiò in una risata sincera, dandomi dei colpetti sulla schiena. Quel laboratorio era l’unico luogo nel quale potevamo permetterci di ridere e scherzare senza preoccuparci di essere malvisti dalla legge.
«Se dovessimo contare sulla tua, di bellezza esteriore, allora stai certa che ti assumerebbero senza nemmeno chiderti se sei uno scienziato» rispose quasi fiero.
Arrossii violentemente. «Non dire queste sciocchezza, Kris.»
«Dicevi le stesse cose quattro anni fa, quando eri un’adolescente stupida e fin troppo curiosa. Credevi che nessuno ti volesse» puntualizzò sempre con il sorriso sulla faccia. Risi ricordando di tutte le cose che dicevo quando avevo quattordici anni, sulle mie paranoie di essere grassa e indesiderata, quando invece era il sistema e la legge che mi impediva di esserlo.
Le persone non potevano nemmeno consocersi con quel tipo di società, nessuno conosceva nessuno per paura di essere multato e le poche coppie di incontravano per caso. Oppure erano cugini tra di loro. Io avevo avuto la fortuna di avere due genitori che si erano innamorati per caso, e per davvero, si sposarono quasi subito e venni alla luce io.
Io, da sola, senza un fratello o una sorella, la situazione era talmente difficile che io diventai quasi un peso per loro. Ma sapevo che la mamma non si sarebbe mai pentita di avere una figlia come me, perché anche da piccola andavo ad aiutare lei con il lavoro e racimolare qualche soldo.
«Non ho ancora incontrato nessuno» risposi «ne sono ancora convinta.»
«Neppure io ho trovato qualcuno» sospirò quasi triste, ma riprese allegria «ma sono pur sempre un bel vecchietto!»
Risi. «A cinquant’anni non sei vecchio.»
Si intristì per davvero. «In questo determinato periodo ogni anno può essere l’ultimo. Ma cosa vuoi saperne...»
Scossi le spalle e afferrai uno dei dispositivi che rilevava la temperatura dell’ambiente e dei singoli corpi. La termocamera si accese e controllai se sul banco di Kris ci fosse qualche segno di vita, qualcosa che funzionasse, magari un robottino che prendeva vita o qualche specie sconosciuta. Mi ero già catapultata nel mondo della scienza. Sorpresi Kris a fissare i miei movimenti con un sorriso fiero sul volto, come se fosse stato merito suo che il mio carattere fosse così curioso e voglioso di scoprire sempre cose nuove. In parte era vero, lui mi aveva sempre spronata a leggere su Internet le varie enciclopedie virtuali sulla scienza e a guardare i documentari in video trasmettitore, ma era essenzialmente nel mio carattere trovare le cose più misteriose, analizzarle, scoprirle fino in fondo. Il mistero era la mia passione. Mi ero innamorata delle cose misteriose.
 
Congledon, Inghilterra, 31 dicembre 2013
Ero davanti a delle fiamme libere rinchiuse in una struttura di mattoni. Rimasi a fissarle a lungo finché gli occhi non mi bruciarono. Capii che mi ero appena risvegliata da chissà quale coma, che avevo visto in faccia la morte, che mi avevano salvata. Mi aveva salvata.
Ero coperta fino alla gola da delle coperte imbottite e caldissime, che quasi mi fecero sudare. Ma stavo bene lì sotto. Mi alzai lentamente, colpita da un forte dolore dietro la nuca, e mi guardai intorno con la testa che mi girava leggermente e lo stomaco che protestava per la troppa fame. Alla mia sinistra, c’era dell’acqua chiusa in una bottiglia in materiale plastico, un piatto in ceramica con dentro del cibo che non conoscevo ma che avrei divorato in un attimo.
Mangiai, bevetti, e tornai a stendermi in quel letto caldo che mi aveva fatta scampare dalla morte. Ancora non avevo capito dove fossi finita, non era la locanda di Woody né tantomeno la stanza di Dan.
Una porta in legno era semiaperta, e si intravedeva un salone con dei divani. Non c’erano rumori, solo un silenzio assoluto.
Avevo ancora indosso gli abiti con cui ero sprofondata in quello che era un coma terribile. Il neurofono era su una specie di tavolino quadrato, basso, con i cassetti, un piccolo comò. Lo afferrai e vidi che era l’ultimo giorno dell’anno. Mi ero addormentata per quattro esasperanti giorni.
Le scarpe che mi avevano tolto erano esattamente accanto al letto, ed erano sempre quel modello orribile a colori rosa e grigio, quelle scarpe con la scritta “Vans” che non mi piacevano nemmeno un poco.
Le infilai e camminai lentamente verso la porta aperta sperando che non mi sentissero. Avvertii una fitta alla vescica e dovevo assolutamente correre in bagno, non ci andavo da quattro giorni. Intravidi, di fronte a me, delle mattonelle bianche e aprii lentamente la porta, nel più assoluto silenzio.
Mi chiusi dentro senza fare rumore e mi svuotai, dandomi un po’ di sollievo; uscii dal bagno e continuai a seguire quel breve corridoio che portava a un salone che solo a vederlo mi fece venire un colpo al cuore.
Il tavolino basso, una sedia, un tappeto, quell’albero così strano e decorato che stava ancora lì, non si era mosso di un centimetro, la porta bianca sulla quale una persona si era poggiata impedendomi di uscire.
Era passata una settimana circa da quell’evento, eppure mi sembravano anni. Mi sentivo invecchiata, eppure più forte di prima. Sapevo che avevo passato esperienze che non avrei mai fatto a Oslo, nella mia epoca, e che non avrei di certo visto la morte in faccia.
Dopotutto non era stato così male. Avevo creduto di morire, ero finita in uno stato di pace completa.
Sospirai quando vidi quella sedia, dove mi ero seduta, quella stanza, il nostro primo litigio, il nostro primo vero bacio, l’ultimo posto dove ci eravamo amati prima di distruggerci a modo nostro, prima che partissi per Oslo.
Il neurofono si accese di arancione. Ma fu l’unico momento in cui preferii non dare mie notizie, non era importante, non ero in pericolo, stavo bene e non mi serviva contattare nessuno. E poi, sapere chi c’era dietro quella porta mi agitava troppo. Mi agitava al punto di non riuscire ad abbassare la maniglia fredda di quella porta. Una voce disse qualcosa, e l’altra rispose. Mi guardai intorno, incerta sul da farsi e rimasi impalata davanti alla porta anche quando si parì, presentandomi davanti un ragazzo alto e magrissimo con dei baffi strani e un cappelli di lana in testa che sobbalzò.
«Ma che ti salta per la testa?» si lamentò portandosi una mano al cuore, ma non avevo ancora la lucidità per reagire, specialmente quando vidi Dan affacciarsi dietro di lui. Ci pietrificammo entrambi, occhi negli occhi, uno più paralizzato dell’altro. Kyle si ritirò e rimasimo solo io e lui. Temetti di svenire.
Uno dei due doveva rompere il ghiaccio, o saremmo rimasti così per sempre, e fortunatamente fu lui che abbassò lo sguardo, distogliendomi dalla confusione di pensieri che avevo in quel momento. Mi ripresi dallo stato di trance e indietreggiai, al contrario di lui che avanzò, accorciando di troppo le distanze. Portava di nuovo quella montatura sugli occhi, e gli era cresciuta un po’ di barba rossiccia sul mento e lungo la mascella. Era invecchiato, proprio come me.
«Come stai?» sussurrò tirando su il naso.
Io, che dovevo ancora trovare la voce per parlare, feci segno con la testa di stare bene, come per dire di sì. Lui sembrò sollevato dalla mia risposta.
«Credevo non ti saresti ripresa più» ora la sua voce veniva soffocata dalla voglia di piangere «Pensavo che per colpa mia tu saresti morta... sono stato... sono stato la persona peggiore del mondo.»
Continuavo a contemplarlo senza dire una parola, ascoltavo la sua voce entrarmi nelle orecchie, finire nel cervello e devastarmi il cuore, dandogli una scarica elettrica come per dirgli “Svegliati, vivi, amalo!”.
Barcollai un po’, ma non smisi di fissarlo. Si passò di nuovo una mano tra i capelli. Era così dannatamente bello. I segni sulle labbra erano quasi del tutto spariti, ed era di nuovo il viso più perfetto esistente sulla faccia della Terra del ventunesimo secolo e del terzo millennio.
«Ero in preda alla rabbia, non sapevo quello che dicevo» singhiozzò, e osservai le lacrime che gli scendevano lungo le guance. Fu per me la cosa più sincera e dolce del mondo. Vedere un uomo piangere perché si sentiva in colpa di avermi fatto del male, mi segnò l’esistenza. Mi stava finalmente dicendo che mi amava, a modo suo, ma mi amava.
Non risposi, dovevo ancora trovare la voce che era finita chissà dove e stava attraversando l’oceano a nuoto prima di raggiungermi.
«Non me lo perdonerò mai.»
Tirai un profondo respiro e chissà da dove, ma mi uscirono le parole di bocca. «Ora basta.»
Quasi mi spaventai di come parlavo, non sentivo la mia voce da quattro giorni, non parlavo da troppo e mi sentivo come estranea a me stessa. Nemmeno mi riconoscevo.
«Il tuo neurofono funziona» mormorò asciugandosi le lacrime, mentre mi indicava la tasca che lampeggiava di un arancione tenue.
«Non ne ho bisogno» risposi guardando la tasca.
«Ho paura che tu possa fare pazzie senza di me» sospirò.
Lo guardai dritto negli occhi. «Perché sai già che te ne andrai?»
«Perché sono talmente stronzo da non sapere quello che faccio, ti danneggerei senza nemmeno saperlo.»
Non aggiunsi altro. Non avrei saputo dire altro.
«Ti fidi di me, Rachel?»
Era una domanda a trabocchetto, me lo sentivo. Se avessi detto sì, mi avrebbe usata, se avessi detto no, mi avrebbe abbandonata. Quindi in un modo o nell’altra io l’avrei perso comunque. Ma la cosa più ovvia ce l’avevo davanti. La risposta vera la sapevo.
«No, non mi fido.»
«Io ti amo, sappilo» mi accarezzò la guancia, lentamente, e rabbrividii a quel tocco. Forse per la paura. Forse non volevo che mi toccasse, temevo ancora una sua brutta reazione. Infatti mi spostai di poco e lasciò scivolare le braccia lungo i fianchi.
«Non ne sono più così sicura.»
Mi meravigliai della mia freddezza, del modo in cui riuscivo a controllarmi, a dimostrare che non ero più debole. Vidi me e lui, nello specchio alla mia sinistra, in piedi, io che guardavo lo specchio e lui guardava me. Concentrai lo sguardo sul mio volto. Era rigato di lacrime.
Indietreggiai di colpo quando capii che stavo piangendo, e mi passai la manica della maglietta davanti agli occhi, asciungandomi in fretta.
Dan tornò a pochi centimetri da me ma non ci guardammo, preferii dargli le spalle e sperare che mi lasciasse in pace. Ma lo fece. Di nuovo. Mi cinse i fianchi da dietro, mi abbracciò come la settimana prima alla locanda di Woody, uno dei nostri primi abbracci, quello con cui mi aveva involontariamente detto di amarmi. Quella dichiarazione a cui io non credevo, che mi sembrava così inutile e affrettata, e lo era. Ma questa volta no, non era né inutile né affrettata. Fu il modo migliore di dirmi “ti amo” e trovai il modo di rispondere. Poggiai le mani sulle braccia, e mi lasciò un bacio sulla guancia. Mi beai del suo respiro sul mio corpo e socchiusi gli occhi.
«Se hai intenzione di abbandonarmi fallo ora, non illudermi oltre» soffiai.
Mi diede un altro bacio sulla guancia. «Non voglio abbandonarti.»
«Però vuoi illudermi.»
Avvertii i suoi capelli fare dei movimenti. «Nessuna delle due cose.»
Mi liberai di quella morsa e feci un passo indietro. Poggiai le mani sulle sue guance e accorciai le distanze fra le nostre labbra, esitando prima di baciarlo. Restammo a fissarci per un paio di secondi, e poi lui strinse le braccia dietro di me, stringendomi forte contro il suo petto, baciandomi come se non potesse fare nient’altro.
Di nuovo le lingue che si intrecciavano, i morsi sulle labbra, i respiri troppo corti, i cuori che rischiavano di espodere. Sentii di nuovo quell’intensa sensazione che mi suonava come una provocazione, come se lui volesse di nuovo fare l’amore, ma non glielo avrei permesso, non quella sera, non lì, perché ancora dovevo imparare a fidarmi e non sarebbe stato facile.
«Non posso lasciarti» soffiò tra le mie labbra.
«Non mi hai mai avuta» scossi il capo, lasciandogli un altro bacio a fior di labbra.
«Sicura?»
Mi suonò come una minaccia e mi allontanai di poco per guardarlo meglio. «Le cose che mi dicevi erano bugie, l’ho sempre saputo.»
«Sei folle, sei pura follia.»
«Ecco perché ti amo» sorrisi, tornando a baciarlo.
Strisciò il suo naso contro il mio, come si faceva con i bambini per farli ridere e fu la cosa più dolce del mondo. Arrossii quando lo fece.
«Basta prenderci in giro, so che non potrai mai amare un disastro come me, tu sei diversa da me» disse con voce roca.
Scossi di nuovo la testa. Non smettevo di baciarlo un attimo. «Sono io il disastro.»
«Sei il mio disastro, Rachel.»
«Probabilmente non per sempre» bacio «niente è per sempre.»
Rise. «Allora finché lo vorremo.»
«E tu lo vuoi, Dan?» chiesi speranzosa. Lui annuì e tornammo a baciarci, incuranti che non eravamo soli in casa.
Kyle finse di tossire per attirare la nostra attenzione, ci staccammo e risi di gusto, e io rimasi senza una risposta. Andammo nel salotto e ci accomodammo davanti al camino, con uno schermo piatto che trasmetteva i programmi come nel video trasmettitore, solo che questi erano bidimensionali. Ma non badai ai personaggi che apparivano su quello schermo, rimasi accoccolata sul petto di Dan, che mi accarezzava le guance col dorso della mano e ad ogni tocco socchiudevo gli occhi. Solo che non mi impedirono di chiudere gli occhi, stavolta, non rischiavo di morire dormendo. Non dormii, semplicemente gustai ogni attimo come potesse essere l’ultimo. Perché per com’era Dan, davvero ogni gesto poteva determinare la fine di ogni cosa.
Ma entrambi avremmo continuato a dire che ci amavamo anche se non era vero. Volevamo continuare a prenderci in giro, illuderci che saremmo rimasti insieme finché lo avremmo voluto. Ma lui non ne aveva l’intenzione. Non voleva stare con me, ma ci speravo ancora.
Si addormentarono entrambi. Kyle sembrava così innocuo quando dormiva. E Dan, Dan era la cosa più bella del mondo. Gli baciai il mento e mi alzai dal divano, andando verso la stanza nella quale mi ero ripresa.
Tirai fuori il neurofono funzionante dalla tasca e mandai un messaggio a Kris.
“Sto bene. Non credo che tornerò più.”
 
Writer’s wall
Buonasera a tutti! Allora, sono stata piuttosto veloce a pubblicare questi ultimi due capitoli... che ve ne pare? Ero particolarmente ispirata e scrivevo tutto il pomeriggio prima di andare a danza, sostituivo il mio tempo per scrivere allo studio (come sempre) per evitare di farvi aspettare troppo.
Beh, ho ancora poche recensioni, spero aumentino, io vi sprono a dire la vostra impressione, le vostre aspettative sul finale della storia, le osservazioni, magari qualche critica per la grammatica che lascia davvero a desisderare :’)
E niente, come sempre vi ringrazio tutti di essere così fedeli a questa cagatina di storia! <3 Ora vado a fare una partita a Call Of Duty.
Un bacio, Angelica.
  
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