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Autore: Lechatvert    25/01/2014    4 recensioni
Dicono che delle persone si serbino, in genere, tre ricordi.
Di lei, da qualche parte nella mia mente, ne conservo soltanto due, entrambi popolati da quella paura che fa tremare le gambe, quel terrore del buio che fa piangere i bambini quando si soffia sulla candela per spegnerla.

Cominciarono a chiamarla طّ, Qitt, Gatto.
Ma si sa, quando i gatti muoiono, muoiono soli e lontani dal mondo.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Altro personaggio, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio, Sef Ibn-La'Ahad
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Dove cresce l'erba gatta

Ventitreesimo – quando cala la fede
(http://www.youtube.com/watch?v=lrYiYh9znsU)






Arrivai nei pressi di Masyaf dopo un giorno di viaggio.
Me l’ero presa con comodo, fermandomi una notte ad Acri ed evitando di spronare il mio vecchio cavallo ad andare troppo veloce.
Giunsi alle porte della fortezza all’alba e trovai l’aria stranamente calda, con la neve fine che l’inverno si era lasciato dietro completamente scomparsa. La primavera, almeno lì, sembrava essere finalmente arrivata.
Una volta nelle mie stanze, fu Malika ad accogliermi, buttandomi le braccia al collo non appena mi azzardai ad aprire la porta.
« Temevo non saresti più tornato », singhiozzò, affondando il viso nella mia cappa sporca di sabbia.
Si strinse alle mie vesti e la sua presa fu così forte che per un istante rimasi senza fiato.
« Sto bene », le dissi, scostandomi appena dal suo abbraccio.
La guardai sorridermi e alzarsi sulle punte per schioccarmi un bacio sulla guancia ruvida di barba mentre, allegra, mi prendeva per mano.
Avrei voluto raccontarle ciò che era successo, chiarire il perché della mia fuga, anche, ma non mi lasciò il tempo di parlare.
« Devo dirti una cosa », cinguettò, trascinandomi all’interno della stanza.
Si sedette a terra tra i cuscini e invitò me a fare lo stesso, accoccolandosi contro la mia spalla quando mi fui chinato su di lei. Silenziosa, mi prese la mano e se la portò al ventre.
Non servirono domande, né spiegazioni.
Sotto le pieghe dell’abito, tesa al contatto con la mia mano gelida, la pancia di Malika seguiva curve più morbide di quelle a cui ero abituato, rivelando una rotondità appena accennata che non avevo mai notato prima.
« Credevo di essere troppo vecchia », farfugliò lei, intrecciando la sua mano con la mia mentre il suo viso si arrossava sotto l’imbarazzo.
Non risposi a parole, restando seduto tra i cuscini, perso nel nulla della mia mente mentre Malika mi raccontava per filo e per segno di come l’aveva scoperto, di come Anbar l’aveva aiutata a tenerlo nascosto fino a che il primo mese non era passato senza complicazioni. E di come Anbar si era presentata tutta sorridente alla mia porta praticamente ogni giorno e avesse accuratamente evitato di informarmi della situazione.
E io intanto mi davo dell’ingenuo, perché dopo la morte di Imaad avevo tradotto quell’insolito avvicinamento come un’amicizia, senza sospettare alcunché.
« Da quando tempo lo sai? », le chiesi all’improvviso, senza quasi accorgermi di parlare.
Malika alzò le spalle.
« Un mese, anche se Anbar dice che potrei essere incinta da più tempo. Non me ne sono accorta subito ».
In quel momento decisi che io e Anbar avremmo presto parlato circa quella faccenda. Non eravamo mai stati particolarmente affiatati, anzi, persino quando le facevo da insegnante era stata ferma sul suo spocchioso piedistallo, ben attenta a non dare troppa confidenza né a me né ai suoi compagni. Tuttavia, non avrei accettato di farmi prendere in giro in quel modo. Non da una donna che si era messa in testa di dichiarare guerra al mondo.
Quanto alla notizia che stavo per diventare padre, bé, ebbi tempo per assimilare la cosa al meglio quella notte, insonne tra le lenzuola di un letto che non mi pareva più il mio.
Lasciai le mie stanze che ormai il sole era alto nel cielo, congedandomi al primo sbadiglio di Malika con la scusa di farla riposare.
Non doveva aver dormito molto, nei giorni in cui ero stato lontano, e di ciò mi dispiacqui, soprattutto perché sapevo bene cosa volesse dire passare la notte in bianco in attesa di una persona cara e non era mia intenzione far preoccupare qualcuno.
La lasciai dormire, quindi, più che lieto di poter passare qualche ora da solo a riflettere. Avevo bisogno di aria fresca, di pace, di mettere ordine alla frenesia degli ultimi giorni che improvvisamente aveva iniziato a schiacciarmi. Scappare non era stato da me, lasciare i miei oneri sulle spalle di qualcun altro nemmeno. Era stato tutto uno sbaglio dettato dalla paura di perdere la stabilità che nei mesi precedenti era venuta a mancare e da tale doveva essere trattato. Buttarmi tutto alle spalle e riprendere i miei doveri quanto prima era ciò che mi pareva più giusto fare.
Scesi perciò nel cortile con tutta l’intenzione di mettermi alla ricerca di Sef, ma incappai invece in Anbar, seduta all’ombra di un albero con un coltello tra le mani, tutta intenta a spellare un secchio di criceti.
Mi salutò con un cenno del capo, senza realmente accennare un’espressione, ma conoscevo Qitt e il suo sguardo furibondo e non fu di certo difficile coglierlo sul viso di sua figlia.
La notizia della fuga di sua madre doveva averla adirata parecchio, ma non intendevo farmi intimorire.
« Salute e pace », esordii, avvicinandomi con fare deciso.
« Salute e pace, Malik », sibilò, gelida, senza staccare gli occhi dal suo lavoro. « Fatto buon viaggio? »
Presi un grosso respiro e lo trattenni nel petto, inarcando un sopracciglio.
« Non che la cosa ti concerna, ma ti ringrazio per l’apprensione », risposi.
Lei mi scoccò un’occhiata velenosa.
« No, infatti. Probabilmente concerne più mia madre ».
Sospirai.
« Se sei arrabbiata perché Qitt se n’è andata – »
Non seppi mai cosa la trattenne dal conficcarmi il coltello in una gamba.
Con uno scatto del tutto imprevedibile, Anbar si buttò contro di me, puntandomi la lama contro il petto e mollando a terra la povera bestia morta a cui aveva appena cavato gli occhi.
« Pensi che sia arrabbiata? », soffiò, spingendomi verso il tronco dell’albero sotto al quale stava lavorando. « Ve ne siete andati prima dell’alba senza degnarvi di dare notizia, sputando su tutto ciò che è l’onore della mia famiglia. Di mio padre! » Piegò il capo di lato e mosse un ulteriore passo verso di me. « Malik, ‘arrabbiata’ sarebbe una grazia a cui non puoi aspirare! »
Alzai lo sguardo al cielo e approfittai della sua presa poco salda sul coltello per farglielo cadere di mano con uno schiaffo.
« Calmati », dissi, guardandola dritta negli occhi. « E smettila di comportarti come una stupida ».
« E allora tu smettila di comportarti come un ragazzino! »
Provò a colpirmi con un pugno, ma fui più veloce e mi scansai, lasciando che andasse a colpire il tronco dell’albero.
« Anbar », la chiamai, prendendole il polso mentre lei si divincolava con qualche mugolio di protesta. « Non è bene che qualcuno ci veda litigare ». Ancora proteste. Strinsi la presa, costringendola a voltarsi verso di me. In quel momento, non mi importava di farle del male. « Guardami », sibilai. « Non sfidarmi. Non ti ho punita quella volta con Abbas, ma ti assicuro che alla tua età io e Altaïr siamo finiti a fare la fame in prigione per molto meno ». Sospirai. « Puoi soffrire ancora per tuo padre, ma datti una calmata; farsi prendere dalla rabbia ti farà soltanto passare come una preda più facile ».
Rimanemmo un istante in silenzio, fermi a guardarci con astio.
Da parte mia, ero convinto di aver fatto un ottimo lavoro in veste di insegnante quando lei era bambina e mi indignava vederla comportarsi in modo tanto oltraggioso. Neanche Sef, che da giovane era screanzato e ribelle, era mai arrivato a puntarmi un’arma contro durante le nostre liti.
Aprii la bocca per rivolgerle un altro rimprovero, ma non feci in tempo.
Sef sopraggiunse in quell’istante, raccogliendo sua moglie per alzarla da terra e caricarsela in spalla con tanta rapidità che quasi non lo vidi arrivare.
« Salute e pace! », esclamò, voltandosi verso di me con un leggero sorriso ad increspargli le labbra. « Vi siete già fatti del male? »
Anbar provò a scalciargli nella schiena.
« Mettimi giù! », ringhiò.
Lui scoppiò a ridere.
« Non ci penso neanche! », rispose. Poi, rivolto a me: « Salute e pace, Malik. Vedo che sei tornato! »
Mi sforzai di sorridere.
« Salute e pace, Sef ».
Lo guardai allontanarsi di qualche passo, fare una giravolta con sua moglie ancora in spalla e poi piegarsi delicatamente in avanti per adagiarla a terra.
« Devo parlare con Malik », le disse, baciandole la fronte. « Ti spiace se rimandiamo la tua esecuzione? »
Anbar incrociò le braccia sul petto.
« Sì che mi dispiace! », protestò, ma non venne ascoltata.
Sef tornò da me e mi trascinò per la manica della cappa. Salutò sua moglie sventolando la mano destra e assieme ci allontanammo in fretta, uscendo dalle porte principali. Nel più completo silenzio, scendemmo fino al fiume.
Lì si sfilò gli stivali e si arrotolò i calzoni fin sopra le ginocchia, muovendo un paio di passi dove l’acqua scorreva più placida.
« Di che dovevi parlarmi? », gli chiesi, sedendomi sulla riva mentre lui si liberava della cappa per immergere le braccia nel fiume.
« Di niente », mi rispose, facendomi l’occhiolino. « Ma è una bella giornata per pescare e non mi andava di farlo da solo! »
Passammo la giornata a buttare le reti nel fiume per poi raccoglierle e trovarle vuote.
Sia io che Sef eravamo quanto più lontano potesse esserci dalla pesca, ma era un bel modo di passare il pomeriggio e venne sera quando, esausti, ci rimettemmo in cammino per tornare alla fortezza con in mano nient’altro che un salmone.
Erano forse anni che non passavo un’intera giornata assieme a lui e mi ritrovai a pensare che, in fondo, era rimasto tale e quale al ragazzino a cui avevo insegnato a scrivere. Sebbene fosse profondamente diverso da suo padre, non cessava mai di ricordarmelo. Certi atteggiamenti, certi gesti, certe risate. Ero convinto che se Altaïr avesse mai riso, il suo tono sarebbe stato del tutto identico a quello sornione di Sef.
Fu pensando a quello, più o meno, che mi resi conto che erano passati otto anni da quando avevo visto il mio migliore amico e Darim partire alla volta dell’est. Di tanto in tanto erano sopraggiunte delle missive, ma erano comunicazioni occasionali che si limitavano a poche righe quando la stagione era calda abbastanza da permettere al messo di viaggiare.
« Da quanto tempo non senti Darim? », chiesi, quindi, mentre Sef si legava il salmone alla cintura con tutta la fierezza di un cacciatore di ritorno dalla battuta più proficua della sua vita.
Lui alzò le spalle.
« Un anno », rispose.
Avevo ricevuto una missiva da Altaïr tre mesi prima, ma non dava notizie né di Maria né tantomeno di Darim.
« Sono certo che sta bene », commentai.
Sef ridacchiò.
« Oh, ma lo so bene », disse. « Se mio fratello fosse morto, l’intera fortezza sarebbe stata tempestivamente mobilitata per la vendetta. Mio padre è saggio, ma talvolta sa essere tremendamente impulsivo. Credo sia un male di famiglia ».
Annuii vigorosamente.
« Lo credo anche io », confermai ridendo.
Era sera inoltrata quando passammo dinanzi alla legnaia. Là dentro, legati allo stesso palo dove Darim li aveva lasciati otto anni prima, i suoi cani ululavano per chissà quale motivo, spaventati, forse, dal vociare di un paio di uomini di ronda sui camminamenti.
Io e Sef ci fermammo a guardare verso il vecchio capanno.
« Abbaiano come dannati da quando Darim è andato via », considerò lui, assumendo un’espressione crucciata. « A volte credo che anche loro sentano la sua mancanza ».
Alzai le spalle.
« Sono inquietanti », risposi, ricordando il giorno in cui Altaïr era partito.
Ero andato di persona a vedere il cane sgozzato e l’immagine di quel povero animale con la gola aperta non mi aveva mai abbandonato del tutto, restando in agguato come l’oscuro presagio che voleva essere.
La risata di Sef mi rimise di buon umore.
« Malik, non ti facevo superstizioso! », esclamò, portandosi una mano alla fronte. « Sai cosa diceva sempre mia madre? È quando cala la fede che – »
La voce sprezzante di Maria mi risuonò in testa come quando mi prendeva in giro la mia scarsa propensione all’occuparmi dei cani da guardia.
« Che aumentano le superstizioni », sospirai, alzando le spalle. « Me lo ricordo, Sef ».
Lo guardai camminare a passo spedito nella direzione della legnaia.
« Vado a vedere qual è il problema », disse. Feci per seguirlo, ma mi bloccò. « Va’ pure, io finisco con i cani e torno a casa ».
Annuii, seppur poco convinto.
« Ci vediamo domani, allora ».
Lui sventolò la mano in segno di saluto, prima di allontanarsi nel buio.
Per tutta la sera, mentre mi occupavo dei registri che avevo lasciato in bianco prima di partire, mi restò in mente il suo tono allegro.
« Salute e pace, Malik! »
Ancora oggi non so perché non gli risposi.









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Note d'autore
Avrei voluto aggiornare prima ma ... siamo agli sgoccioli per preparare questo benedetto esame di religione *parte the final countdown* e volevo assolutamente aspettare il 25 per festeggiare i due mesi della fanfiction c:
Ebbene sì, sono due mesi che rompo le palle con queste scartoffie melodrammatiche! E lo devo tutto a voi, fantastiche persone che perdete preziosi minuti della vostra vita dietro la mia voglia di battere le dita sulla tastiera. Ancora non mi capacito del fatto che ci sia gente che davvero legge ciò che scrivo, ma sappiate che ne sono lusingata.
Grazie, grazie e ancora grazie.
Non temete! Mancano quattro capitoli e poi tornerò nel mio antro oscuro. u.u

Pane e mortadella (oggi ci buttiamo sul salato),

Lechatvert

   
 
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