Storie originali > Soprannaturale > Licantropi
Segui la storia  |       
Autore: h e r o i n e    26/01/2014    1 recensioni
''Argo allunga una mano e gioca con le punte dei miei capelli.
La sua idea mi spiazza, mi ha offerto un’ulteriore risposta alla mia domanda esistenziale, e l’ha liquidata in sette secondi.
Forse è un paradosso, ma l’infinitamente piccolo non è poi così diverso dall’infinitamente grande. Quando l’incertezza emotiva – ma anche fisica, se penso che non so cosa farò in questo posto - in cui navighi è sconfinata, arrivi ad un certo punto dove basta una piccola cosa a farti da appiglio.
Qualche parola.
O il braccio muscoloso di un ragazzo.''

----
Dove trovare se stessi?
Genere: Introspettivo, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza
Capitoli:
   >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
-  C H A P T E R  O N E -

Mi si spezza l’ennesima matita tra le mani.
Sotto i miei occhi, un foglio rettangolare di carta mi fissa e il suo bianco incontaminato dall’inchiostro mi riflette la luce negli occhi.
Fortunatamente, non sono ancora così impazzita dal prendermela con esso, strapparlo e inveire contro un oggetto inanimato. Strappare le lenzuola, ribaltare il letto, spezzare i quadri, graffiare i muri. Squarciare la moquette, buttare a terra le lampadine.
Ma non bisogna essere pazzi per perdere il controllo, basta essere licantropi.
- Non sei riuscita a scrivere niente neanche oggi, Gwen? – una voce dal corridoio mi sta inducendo a pensare che sia il momento giusto per essere licantropo.
È stato Coleen a parlare. Coleen, tutto sommato, mi va a genio. Nella sua sicurezza in sé e tranquillità lascia trasparire un’indifferenza sostanziale a tutto, e ciò lo rende la persona meno ipocrita del mondo. È  arguto e fondamentalmente intelligente: è un bene, perchè in questa casa ho bisogno di qualcuno con cui confrontarmi sul piano mentale.  Su questo posso difendermi, e anche attaccare, e anche vincere.
Non sarei mai sopravvissuta solo con Jared e Rhydian. In ogni senso.
- Oggi è iniziato da appena due ore. E se volete lezioni di scrittura per uscire dal vostro analfabetismo devi smetterla con le frecciatine– mormoro, anche se so che Coleen si è già allontanato.
Cerco di usare la seconda persona plurale il più possibile. All’inizio mi veniva spontaneo e non me ne accorgevo, poi ho fatto una teoria sul perché lo facevo.
Per prendere le distanze.
Per non mischiarmi, per far notare quanto io sia diversa da loro.
Per dimostrare il mio menefreghismo genuino nei loro confronti, e il mio disprezzo.
Per ricordare a tutti loro quanto siano deboli e non sappiano agire se non insieme.
Persino a Coleen sfugge la consapevolezza di questa triste e morbosa omologazione con gli altri due.
Ripensandoci, corrugo la fronte. Mi delude, speravo ci arrivasse.
Guardo il foglio.
Da giorni tento di scrivere un diario, confidando nella scrittura come sfogo o distrazione. Ma non funziona per i diari di prigionia.
Lancio contro la parete i resti della mia matita.
- Hai anche dei problemi a controllare la rabbia adesso? –
Normalmente sento – percepisco – la vicinanza di Rhydian prima che si presenti: dai passi, dalle vibrazioni, dall’odore, e il mio corpo sembra prepararsi gli anticorpi per la paura.
Deglutisco e irrigidisco le spalle. –Te ne intendi -.
Forse sono pazza davvero, o forse sono arrivata al punto del non ritorno dove ormai il mio istinto di sopravvivenza e buon senso sono obnubilati dall’orgoglio. Mi ero ripromessa che, qualsiasi cosa fosse successa, sarei rimasta me stessa: e – per fortuna o purtroppo – il novanta per cento di me stessa è determinazione e incapacità di indifferenza di fronte a chi cerca di mettermi i piedi in testa. Ma la me stessa mi mette spesso nei guai, e mi ha causato una serie di cicatrici addosso.
- Scusami? – dice con un tono allibito.
Mi giro per fissare il ragazzo. – Non ho la minima intenzione di scusarti –
Eccolo lì, il ragazzo col nome onomatopeico, graffiante, spaventoso da sentire. Il fisico da giocatore da rugby, i capelli corti marroni scuro e lo sguardo da maniaco.
Si avvicina pericolosamente e ho il tempo di alzarmi dal tavolo della scrivania. Mi pianta lo sguardo negli occhi. Lo fisso, mentre abbassa il mento e le sue iridi diventano a poco a poco gialle con  pagliuzze arancioni che tendono verso pupilla. Gli occhi da lupo.
Ricaccio giù lo stimolo – l’istinto -  di fare lo stesso.
No, la mia parte ferina deve rimanere al suo posto. Io sono diversa da lui.
- Hai per caso problemi a controllare la rabbia? – gli faccio il verso, cercando di incattivire il mio sguardo.
Non ottengo una risposta a parole, e non me l’aspettavo neanche.
Prima che possa finire questa ovvia considerazione, mi ritrovo contro il muro, sollevata di qualche centimetri da terra e una mano calda, troppo calda per essere semplicemente umana, attorno al collo.
Mi si avvicina al lato della testa. – Non ne hai mai abbastanza vero, Gwen?-
Cerco di mostrarmi forte e indifferente, ma un gemito mi tradisce. Cerco con lo sguardo un punto imprecisato nella stanza da fissare.
- Guardami – sento che dice tra i denti, mentre la mia gola, appena sotto il mento, è in una morsa più stretta.
Non accenno ad obbedire al suo ordine.
Farlo non cambierebbe comunque niente: Rhydian si diverte a farmi del male, e non ha bisogno di una scusa per farlo.
Butto fuori tutta l’aria che ho nei polmoni dal naso. Grande cazzata, visto che mi sta praticamente strangolando. Cerco di sollevare la mano destra.
Rhydian si sta comportando da predatore, che punta subito al collo, non considerando che io però sono un essere umano. Con un pollice opponibile. Quando è stupido.
Gli assesto un veloce graffio sulla guancia. Peccato avere unghie umane. Si porta una mano dove l’ho colpito e approfitto della sua distrazione per abbassarmi e liberarmi da lui.
Sono già alle sue spalle quando smette di fissare il muro e si gira. Per un momento sono convinta che stia per trasformarsi: osservo i suoi occhi, il suo respiro e il modo in cui il suo corpo è incurvato.
Sono convinta che per uscire vincitori bisogna farlo lucidi, e non in preda agli istinti.
Tuttavia capisco di essere nei guai.
- Hai seri problemi a gestire la rabbia tu – uno dei miei più grandi desideri è  che le mie ultime parole siano ironiche.
Con mio grande disappunto, nessuno in quella stanza si trasforma in un lupo.
Per quanto mi riguarda, la rabbia, l’adrenalina, l’istinto, la consapevolezza della mia morte imminente e tutto il resto mi oscurano la mente, tanto che non mi ricordo esattamente come perdo conoscenza.
 
Capisco che non sono morta perché sono troppo scomoda per essere in paradiso e ho troppo freddo per essere all’inferno. Per un momento mi chiedo come mai sono ancora viva, e se devo sentirmi fortunata.
Apro gli occhi a fatica e sento che la testa mi pulsa, ma tuttavia riesco ad avere la consapevolezza spaziale di dove mi trovo.
Sono sdraiata contro lo spigolo dell’armadio, contro il quale molto probabilmente ho battuto la testa: sento del sangue tra i capelli. Per mia grazia, essere licantropi significa anche avere un fisico molto forte.
È già buio, noto appena mi alzo, a fatica. Quanto tempo è passato? Il mio svenimento risale a prima di pranzo, e so per certo che le tenebre calano alle cinque di pomeriggio, in questa parte dell’anno.
Pranzo. Ho fame. Troppa perché venga ostacolata dalla mia paura. Mi avvicino un po’ barcollando alla porta. Prendo un respiro e stringo la maniglia.
La situazione si fa chiara non appena la abbasso: sono chiusa dentro. Mi hanno chiusa in camera. A chiave.
Il mio respiro si fa improvvisamente affannoso, e la ferita alla testa ricomincia a pulsare.
Corro – per quanto si possa correre in quattro metri – alla finestra. Rhydian ha chiuso le inferriate. La finestra si può ancora aprire, forse è stato abbastanza intelligente da capire che l’ossigeno non è infinito, ma è stata sbarrata. Non ho mai capito perché una casa debba avere le inferriate alle finestre, soprattutto se abitata da ‘persone’ con ogni mezzo per difendersi. L’unica ipotesi che rimane è che fosse predisposta per imprigionare qualcuno.
Sento appiccicaticcio sulla fronte, ma non so con esattezza se sia sangue o sudore. Inizio a vagare in tondo, ignorando il fatto che vado a sbattere ovunque. Il mio respiro è talmente forte da nascondere ogni rumore, ma non abbastanza da coprire quello del mio cuore, che mi fa sobbalzare le tempie.
La claustrofobia è una delle debolezze più letali di un lupo. Uccide lentamente, si nutre dell’ansia che l’animale prova ad essere in un luogo chiuso, senza via di scampo; un predatore che si trova ad essere preda e perde il controllo della situazione. Nei casi più gravi e prolungati i licantropi si lasciano morire. Graffiano le porte e le pareti fino a consumarsi le dita, o le unghie.
Ma io sono anche umana. Un’umana con poche energie ed a digiuno, con una ferita alla testa.
Ignoro il fatto che improvvisamente questa stanza – tutto sommato vivibile e oggettivamente carina – è diventata almeno dieci volte più piccola di come me la ricordavo, e, tremante, mi dirigo al letto.
Tengo gli occhi sul soffitto, cercando di regolare il respiro e convincere la mia testa a non girare.
Ma oltre a vedere vorticare qualsiasi cosa si piazzi davanti alle mie pupille, a girare nel mio cervello sono migliaia di pensieri, che sarebbero anche innocui, se non si trasformassero in ricordi folgoranti. Ultimamente lo fanno spesso, e mi piace pensare che hanno una ragione per farlo: farmi notare qualcosa che mi è sfuggito, mostrarmi una soluzione oppure ricordarmi cosa non dovevo fare in futuro.
Dopo qualche secondo sento la chiave girare nella toppa della porta, e ipotizzo che sono stata a terra più di quanto sarei dovuta starci, visto che mi sembra relativamente presto – secondo i loro standard – per venire a riaprirmi. Escludo un atto di bontà.
Nonostante il buio, riconosco Coleen entrare con qualcosa in mano.
- Stai bene? –
- Come è che si dice … ah si. Come se ti importasse – ribatto io.
Si avvicina e vedo che ha un panino in mano. Il mio stomaco brontola e lui se ne accorge.
- Prego, comunque – esclama stizzito e mi da il panino, mentre io mi metto a sedere sul letto.
Glielo strappo di mano. – Non mi è più permesso scendere per mangiare? Ora la mia condizione di carcerata si è ufficializzata? Mi portate da mangiare in camera?
So che non può ribattere, non può farlo perché ho ragione e lui non può giustificarsi.
Coleen rimane impassibile. – Volevo risparmiarti la fatica e la visione di Rhydian.
Per un momento credo che stia dicendo la verità, ma anche se fosse, non mi basta.
- Come sapevi che non stavo bene? – lo sfido, con quel poco di sarcasmo che mi rimane.
Non risponde. Fa una smorfia leggermente addolorata e sospira. Coleen tra tutti è quello più difficile da interpretare, ma per questo motivo in lui ogni tanto ho ancora speranza.
- Bè, è anche casa tua. Se vuoi, puoi scendere – dice e senza dire altro esce dalla porta, lasciandola aperta.
Quelle parole mi fanno male. Una casa non ce l’ho più, e mi stanno togliendo a poco a poco anche la possibilità di volere e di scegliere. Per garantirmi scelte future, devo partire con quella più importante. Devo scegliere di scappare.
 
Scrivere non mi aiuta a sfogarmi, trasformarmi si. Spesso mi chiedo se la mia natura sia quella di lupo o di essere umano, quale è che si trasforma nell’altro e quale è la mia componente più grande. Arrivo alla risposta che sono complementari, e per continuare a vivere devo dare ossigeno ad entrambe allo stesso modo, per quanto posso. 
Sento il terriccio bagnato sotto le gambe e la brezza tra il pelo marrone. Annuso l’aria, mentre aspetto che Rhedyan e gli altri escano di casa. La casa dove viviamo ha una grande proprietà boschiva intorno, l’unico luogo dove possiamo scorrazzare da lupi in tutta sicurezza. Non lo facciamo spesso come vorrei, perché dobbiamo permettere agli animali di avvicinarsi, in vista delle nostre battute di caccia.
Tralasciando il resto della situazione, siamo tutti e quattro lupi, con le stesse necessità e pulsioni. E soprattutto, siamo un branco, anche se un branco un po’ malato. Mettendo assieme le due cose, non bisogna stupirsi se qualche volta ci trasformiamo tutti insieme per ‘fare un po’ i lupi’ nel bosco e se io acconsento senza problemi. Le vicende personali sono roba da umani.
Ringhio a vuoto, nervosa perché mi stanno facendo aspettare. Jared, che probabilmente mi ha sentito, sbuca da dietro l’angolo della casa: lo si riconosce perché è quello più basso, ed ha qualche stria nera sulla schiena. Mi si avvicina e ringhia a sua volta, mentre gratto le unghie sul terreno.
Come quasi tutto novembre, ha appena piovuto, e sento l’umido sotto i cuscinetti delle zampe.
Sento Coleen e Rhydian che compaiono trotterellando, ma non mi volto per guardarli e invece avanzo di qualche passo, tenendo fisso lo sguardo verso il bosco davanti a me, fremente di partire.
Quando siamo tutti vicini, sebbene non abbiamo la possibilità di parlare, sappiamo bene cosa fare.
Cacciare quanto di più grosso riuscivamo a trovare, correre ma entro i limiti della proprietà (limite probabilmente posto ad hoc per me), non lottare troppo seriamente tra di noi. Cose da lupo, insomma, che non necessitavano di spiegazioni. Ci scambiamo qualche occhiata e grugnito di conferma.
Senza indugio carico le mie zampe posteriori e parto a correre. Spero di non essere seguita da nessuno, perché voglio stare da sola.
Mi addentro tra gli alberi, prendendo velocità e appiattendomi verso il terreno. Non mi piace correre d’inverno o in autunno: il fango fa da ventosa sulle zampe e rallenta, e manca il tipico odore fresco di foglie e erba. In ogni caso, solo qui mi sento a mio agio.
Sento il mio respiro sincronizzato con le  zampe che toccano terra. Continuo a correre, dirigendomi volontariamente contro ostacoli naturali per saltarli. Non sto inseguendo niente se non il mio desiderio. Desiderio di cosa? Di correre. O di fuggire.
Rallento. Non è la prima volta che voglio scappare, ma forse per la prima volta sto per farlo davvero. No, non posso farlo. Non posso perché non è il momento giusto. Sono in tre, e sebbene io abbia il dono dell’agilità e della velocità, loro hanno un fiuto eccezionale. E la lite è ancora fresca, probabilmente mi stanno tenendo d’occhio.
Sento qualcosa frusciare tra le foglie secche e mi volto. Da lupo, la mia capacità di mantenere l’attenzione su un pensiero e fare un ragionamento su qualcosa è molto scarsa.
Non vedo niente, quindi è sicuramente un animale piccolo. Affilo le orecchie: non sento altri fruscii, quindi non è andato lontano. Si deve essere fermato. Mi avvicino e inizio a cercare l’odore.
Cinghiale? Se così fosse è un bel bottino.
Aggiro un albero e mi acquatto.
Poi lo vedo, un piccolo di cinghiale del colore delle foglie secche, dietro un altro albero vicino a me. È un cucciolo, è da solo, non può andare lontano.
Prendo la rincorsa e inizia l’inseguimento. Il piccolo animale corre in linea retta, spinto solo dalla speranza di fuggire me e sopravvivere. Va ad istinto, io seguo una tecnica. Più o meno.
Dopo qualche minuto sto ancora rincorrendo il cinghiale con più resistenza che io abbia mai visto, quando esso gira bruscamente, e mi accorgo di essere alla fine della proprietà. Supero il cartello con scritto ‘proprietà privata- non sconfinare’ e procedo ancora per qualche centinaio di metri. Poi non vedo più la mia preda, ma sento il rumore di un fiume.
Inchiodo. Non ho mai sentito correnti d’acqua, quindi vuol dire che mi sono spinta troppo oltre. Mi chiedo se da lì riuscirebbero a rintracciarmi.
Non è il momento. Penso. La cosa migliore è tornare, dare prova di non voler scappare anche quando si ha la possibilità.
Insoddisfatta della mia battuta di caccia, decido di smetterla lì. Per di più, inizia a piovere.
Trovandomi in una zona che non ho mai frequentato, posso affidarmi solo ai punti cardinali e all’odore del cinghiale per tornare indietro. So che devo andare verso sud- e quindi voltarmi, ma la scia odorosa dell’animale non riesco a percorrerla a ritroso. Non ho un gran naso, e per di più la pioggia lo nasconde.
Non mi interessa di arrivare in ritardo, spiegherò la situazione e mi capiranno.
Arrivo a casa fradicia e infangata, col fiatone, e questo vuol dire che ci ho messo tanto. Oppure che ero abbastanza lontana. Il tempo scorre diversamente in forma canina.
Un lupo di un marrone scuro e quasi perfettamente omogeneo mi attende fuori dalla porta di casa, seduto. Passo davanti a Coleen trotterellando, senza degnarlo di uno sguardo e mi dirigo verso la tettoia del garage, dove ho lasciato i miei vestiti.
Trasformarmi è sempre una tortura. Non solo perché un po’ è ancora doloroso, ma perché non smanio mai di ritornare umana. A volte mi dico che sarebbe meglio smetterla con le trasformazioni, e scegliere una sola forma con cui vivere. 
  
Leggi le 1 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
   >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Storie originali > Soprannaturale > Licantropi / Vai alla pagina dell'autore: h e r o i n e