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Autore: GreedFan    26/01/2014    1 recensioni
Nascere su Nenya significa entrare a far parte di una delle tre Categorie.
Non c'è scampo dalla classificazione: i Beta contribuiscono con il loro lavoro alla costruzione di una società più solida, gli Omega procreano e crescono le nuove generazioni, gli Alfa, semplicemente, dominano. Ciascuno secondo la propria natura.
Lienhard Heisenhover, però, intuisce che c'è qualcosa di storto nella gerarchia delle classi sociali - un pezzo del puzzle non collima, l'ombra della menzogna si avviluppa alle fondamenta di una civiltà solo apparentemente solida. A volte basta la pressione lieve di un frammento di ghiaccio per spaccare la più dura delle rocce.
«Il fuoco insegna parecchio». Sussurrò, gli occhi di Joseph nei suoi. «Se non te prendi cura si spegne. Se non lo controlli ti scotta non appena abbassi la guardia. Ma il bello è che a volte si spegne o ti brucia lo stesso, anche quando ci hai messo tutto l'impegno possibile».
«Mi ricorda qualcuno».
«Dovrebbe. Quella di essere imprevedibili è una prerogativa di tutti gli uomini».
«Di alcuni più che di altri».

[Omegaverse]
Genere: Angst, Azione, Drammatico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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β.


Trascorse i tre giorni di fermo nel parco della proprietà.

Era una cosa che si portava dentro fin da piccolo, quell'amore bizzarro per il verde e la natura in genere: gli piaceva rotolarsi nell'erba fresca che profumava di pulito, di vita, guardare le nuvole che sfilavano pigramente nel cielo e cercare di riconoscere il canto degli uccelli annidati nei grandi alberi che ombreggiavano i viali. Non c'era niente di più rilassante, niente che lo facesse sentire così sano e puro − sempre che potesse considerarsi ancora puro, con una vita di sotterfugi alle spalle e la sgradevole sensazione di aver sprecato il proprio tempo a rodergli il cervello.

Quando camminava sotto le fronde cariche di foglie poteva illudersi di essere ancora un bambino, e come tale libero; non c'era nessuna spada di Damocle sospesa sulla sua testa, nessuna scorta di progesterone da nascondere per evitare di venire arrestato − c'era solo Lienhard, il Lienhard inconsapevole del significato delle parole alfa e omega che giocava a nascondino dietro i tronchi bruniti dal tempo e si sbucciava continuamente le ginocchia. L'immagine di quel bambino sembrava lontana e irraggiungibile, sbiadita dagli anni come un sogno antico, e Lienhard la accarezzava quasi con pudore: se vi si fosse soffermato troppo, gli sembrava, avrebbe finito per stancarsene, e quei ricordi avevano un valore troppo grande per essere lasciati da parte.

La vacanza obbligata, quindi, passò anche troppo in fretta. Un'altra persona avrebbe smaniato per riavvicinarsi a Fegith, al cuore pulsante e dinamico della civiltà, mentre Lienhard aveva chiesto a sua madre di avvertirlo nel caso fosse successo qualcosa di grave e si era rinchiuso in un volontario isolamento. Leggeva − la casa ospitava una piccola biblioteca di sua creazione, fornita di una quarantina di antichi tomi cartacei − vagava per i campi senza fine e si teneva ben lontano da ogni canale d'informazione.

I pasti, consumati in compagnia di Dietmut e di qualche membro della servitù − quasi tutti omega, in barba alla tradizione che voleva i beta deputati a quel tipo di lavori umili − erano rari momenti di gioia domestica. L'affetto privo di ripensamenti che provava per sua madre era del tutto diverso dal sentimento di profonda ammirazione che lo legava al padre − tanto lui era freddo e scaltro come una faina, tanto lei si lasciava andare ad improvvisi accessi di allegria e non provava alcuna vergogna nel ridere ad alta voce. Crescere sotto l'ala protettrice di due personalità tanto diverse non era stato semplice, per certi versi.

La mattina della partenza fecero colazione insieme, seduti attorno ad un tavolino di vimini nel cortile interno della villa. Dietmut aveva il viso stanco, le occhiaie profonde e le guance arrossate, il suo odore era diventato intenso e dolciastro: segni inequivocabili del calore.

Lienhard, che non aveva mai vissuto con completa serenità nemmeno i propri calori, si ritrovò a fissare la madre in silenzio, imbarazzato. Lei non sembrava far caso all'atmosfera tesa e, ogni volta che si muoveva per mescolare il caffé o prendere un biscotto dalla scatola di latta al centro del tavolo, una zaffata di profumo zuccherino si abbatteva sulle sinapsi del figlio come una martellata. Lo trovava sgradevole, nauseante (un alfa al posto suo sarebbe impazzito dal desiderio, e anche quello era un pensiero su cui cercava di concentrarsi il meno possibile), al punto che si affrettò a concludere il pasto per potersene andare.

«Ti senti molto male?». Era una domanda di circostanza, a ben guardare anche piuttosto stupida, a cui sua madre replicò con una sola, lunga occhiataccia.

«Come se non sapessi cosa si prova, Leny. Quando riprenderai all'Universitas?».

«Dopodomani c'è un incontro del corso. Per le ricerche penso che farò una capatina oggi pomeriggio, se Gosween è ancora in facoltà».

Rudolf Gosween era una specie di amico, una specie di collega, una specie di compagno di bevute − occasionalmente tutte e tre le cose insieme. A detta sua si era iscritto alla facoltà Bioingegneria Genetica Sperimentale perché fierissimo dei propri capelli rossi naturali (un tratto fenotipico così raro che alcuni manuali lo riportavano già come estinto) e desideroso di scoprire come mai proprio lui avesse ereditato quel tratto; nella sua famiglia, infatti, era il primo a vantare una zazzera fulva da più di quindici generazioni. Divenuto ricercatore e scrittore di numerosi trattati di una certa importanza, ammetteva con grande candore di non essere ancora riuscito a penetrare quel mistero.

Lienhard lo apprezzava non solo per la sua naturale capacità di mostrarsi autoironico e dissacrante nei confronti di tutto e tutti, nonostante fosse una delle persone più mature e intelligenti che avesse mai conosciuto, ma anche per il fatto che era un alfa e non lo si sarebbe mai detto. Camuffava scrupolosamente il proprio odore e, oltre a trattare gli studenti con grande rispetto, era del tutto privo dell'aria tronfia e arrogante da maschio dominante/capobranco/prendimi a pugni.

«Rudi, una bella persona».Quelle quattro parole, pronunciate da Dietmut con il tono di un'apatica constatazione, caddero tra di loro come macigni «A volte penso come sarebbe se−»

«Non dirlo nemmeno, ma'». La interruppe, perentorio «Non sarebbe possibile per me, e questo lo sai bene».

Dietmut chiuse gli occhi, vene come ricami azzurrini sulle palpebre tremolanti, e le sue labbra si strinsero in una linea dura. Quello, lo sapevano entrambi, era un argomento tabù.

«Sai che non lo faccio perché voglio dei nipoti, Leny». Sussurrò «Vorrei soltanto vederti felice. Nessuno può passare la vita da solo».

«Se anche trovassi qualcuno di mio gradimento non potrei comunque fare niente. Il mondo pensa che io sia un alfa, e per ovvie ragioni raccontare a qualcuno che non è esattamente così mi metterebbe in una situazione di merda». Strinse la base del naso tra pollice e indice, inspirando a fondo «Ma tu questo lo sai già. È proprio che ti piace illuderti».

«Scusami».

Lienhard scosse la testa e buttò giù un sorso di caffé.

"È decisamente ora di andare".


α٠β٠ω


La caserma del quinto distretto puzzava di disinfettante in un modo insopportabile.

Aveva sempre avuto il naso fino, Joseph − una caratteristica tipica degli alfa, in lui ancora più accentuata − e ricordava come, i primi giorni di servizio, quel lezzo penetrante gli fosse stato causa di tremendi mal di testa. Col tempo si era quasi abituato, ma la sensazione di fastidio non era mai sparita del tutto.

Si passò una mano sotto il naso, come per scacciare l'odore chimico, e schiarì la voce con un colpo secco di tosse.

Stava seduto davanti ad una scrivania bianca, su una sedia bianca, in una stanza bianca. Era il colore dominante, lì dentro, e le divise nere dei soldati spiccavano sulle pareti candide come cornacchie contro un cielo lattiginoso.

«Oggi, come saprà, termina il periodo di fermo imposto a Lienhard Heisenhover». Il colonnello Garett Mitchell, ufficiale di grado più alto all'interno della centrale, intrecciò le mani sul piano della scrivania e lanciò a Joseph un'occhiata eloquente; era un bell'uomo, sulla cinquantina, capelli brizzolati e baffi portati lunghi a coprire le labbra un po' troppo sottili, e veniva stimato dai suoi sottoposti per l'estrema professionalità con cui svolgeva il proprio ruolo.

Redthorn annuì silenziosamente, senza lasciarsi sfuggire che quella mattina non si era parlato d'altro. Nel quinto distretto, quartiere universitario frequentato in prevalenza da studenti alfa e beta di buona famiglia, non capitavano spesso disordini o avvenimenti che potessero smuovere la vita tranquilla dei soldati; sembrava che le bravate di Lienhard Heisenhover, facinoroso di maggior spicco nell'intera comunità, venissero accolte quasi con tenerezza e riconoscenza.

«Immagino saprà anche che avremo al più presto bisogno di una scorta. Vista la particolarità dell'incarico, non mi sento di assegnare a questa missione più di un uomo, forse due. Lei cosa ne dice?». Joseph sapeva che quel modo di fare − quel consultarsi, chiedere pareri a soldati di grado inferiore − era più una formalità dettata da un'innata delicatezza che una vera e propria richiesta di consigli.

«Ritengo sia... appropriato». Si sentiva sempre sotto pressione quando doveva comunicare opinioni personali ad un superiore. Non sapeva mai cosa dire per incontrare l'approvazione dell'interlocutore, si stressava e finiva spesso per risultare brusco. «Lienhard Heisenhover è un uomo intelligente e prova piacere nel violare la legge, ma non è pericoloso. Il suo è soltanto un club di lettura».

«Sono d'accordo. Tuttavia non sarebbe corretto sottovalutare il rischio... è pur sempre un alfa, e di un tipo particolarmente bravo a manipolare. Ho deciso di incaricare un soldato di discreta esperienza per la sua sorveglianza».

La gola di Joseph si strinse in una morsa spiacevole; non era la prima volta che veniva convocato nell'ufficio di Mitchell, sapeva come sarebbe andata a finire. Per un attimo lo attraversò un moto di ribellione − profonda e viscerale, la natura di alfa sanguigno che ribolliva sotto la crosta di disciplina e sottomissione forzata − che si concretizzò in un rossore improvviso sulla pelle chiara di viso e orecchie. Recuperò immediatamente il controllo, appellandosi alla sua ferrea disciplina.

«Avrà capito perché l'ho convocata, maggiore».

Annuì come se le vertebre del collo si fossero inceppate, frammenti di osso che scivolavano gli uni sugli altri in un cozzare di superfici porose. Si sentiva preso in giro, beffato dalla sorte: di tutte le persone che potevano venir assegnate a quella missione, avevano scelto lui − lui, che avrebbe preferito un mese di sorveglianza alle cave di tungsteno a sud di Fegith piuttosto che rivedere quel pallone gonfiato di Lienhard Heisenhover. Già provava malessere, una forte sensazione di insofferenza, ma non si lamentò.

Un alfa degno di questo nome non si lagnava mai di fronte ad un compito ingrato.

«Dovrò controllarlo solo durante le lezioni del corso, non è così?».

Un ghigno sottile si disegnò sotto i baffi folti di Mitchell.

«Certo. Ogni settimana consegnerà un rapporto in cui annoterà brevemente le tematiche oggetto di discussione all'interno del corso e il numero di studenti presenti... mi raccomando, ricordi di indicare le Categorie. Se ci dovessero essere problemi avrà a sua disposizione una piccola squadra operativa, ma auspichiamo uno svolgimento tranquillo dell'incarico. Capisce cosa intendo?».

La domanda era carica di sottintesi. Joseph, quando ne intuì il significato, si sentì rimescolare da un'ondata di rabbia.

«Veramente no, signore». Se dalle sue parole non trapelava nemmeno una stilla di nervosismo, gli occhi caliginosi traboccavano di una rabbia che Mitchell registrò con un'alzata di spalle.

«So che da un punto di vista etico è sbagliato, maggiore, ma abbiamo a che fare con il figlio del Ministro della Salute in carica. Se ci occupassimo di sentimenti potrei anche accettare il suo malcontento−»

«Io non intendevo manifestare−»

«Non mi interrompa. Le stavo appunto dicendo che, per quanto la rabbia sia comprensibile in una situazione simile − non creda che io non ne provi − quello che noi proteggiamo è l'equilibrio di questa città. E per proteggere questo equilibrio a volte è necessario scendere a patti». Joseph accolse quella dichiarazione con uno sbuffo irato e abbassò lo sguardo; si sentiva umiliato, non aveva la minima intenzione di accettare compromessi con Thomas Heisenhover e la sua famiglia di vermi. «Lienhard Heisenhover, che rimanga tra noi, è un uomo disprezzabile, ma le conseguenze di un eventuale diverbio tra suo padre e l'Amministratore del quinto distretto lo sarebbero ancora di più. Lei è giovane, ma imparerà che nella vita, a volte, è fondamentale saper chiudere un occhio».

Joseph considerò a lungo quelle parole, in silenzio.

«Non credo di volerlo imparare, signore». Disse, poi, e nel gelo di quelle parole c'era così tanta furia che la voce di Joseph sembrò riverberare nel piccolo ufficio e riempirlo, roca e fumosa come il ringhio di una pantera. «È una qualità che non apprezzo».

Mitchell inarcò le sopracciglia e scosse la testa; non sembrava che quell'alzata di testa lo avesse turbato troppo.

«Può andare, Redthorn».

Joseph si alzò frettolosamente e infilò la porta dopo un congedo formale e brusco.


α٠β٠ω


L'Universitas gli aveva assegnato uno degli alloggi per docenti attrezzati all'interno del campus, e, nonostante la famiglia Heisenhover possedesse numerosi palazzi vicini alla facoltà, Lienhard si era adattato alla quiete del suo piccolo appartamento e non l'aveva più abbandonato. Non raggiungeva nemmeno il centinaio di metri quadri − uno scherzo, avrebbe detto suo padre, una tana di topi − ed era così pieno di libri e riviste scientifiche di ogni forma e dimensione che al visitatore sprovveduto sarebbe parso di entrare in una biblioteca molto caotica.

Il profumo della carta lo colpì appena aprì la porta, familiare come l'abbraccio di una madre. Rimase per qualche secondo in corridoio, inspirando quell'odore secco e accogliente, poi si diresse senza esitazione in bagno; anche quello piccolo senza essere angusto, con una vasca da bagno incassata nel pavimento di legno − in perfetta armonia con lo stile un po' rustico dei dormitori della facoltà − e una serie di chincaglierie per la cura del corpo a cui Lienhard non aveva mai dedicato la benché minima attenzione.

Si spogliò senza fretta, assaporando la sensazione di quotidianità che gli trasmetteva l'essere di nuovo a casa. Prima di immergersi nella polla di acqua calda frugò nelle tasche dei pantaloni e tirò fuori un barattolo di plastica trasparente con il tappo a vite, che appoggiò sul ripiano del lavandino di ceramica.

All'interno del contenitore, rosse e traslucide come gelatine alla frutta, stavano una manciata di capsule piuttosto grosse, dalla forma allungata. Calcolò con un'occhiata che sarebbero bastate per altre due settimane − c'era ancora tempo, tanto tempo prima di doversi preoccupare del rifornimento personale. Per lui, fortunatamente, non era mai stato difficile procurarsi il Progestal.

Non appena ritenne di essere presentabile uscì di casa, diretto alla facoltà di Bioingegneria Genetica. L'edificio, dall'aria antiquata come tutto il resto del campus, celava in realtà alcuni tra i laboratori migliori del pianeta; per entrare era necessario un codice alfanumerico a quattordici cifre che veniva rilasciato soltanto ai ricercatori autorizzati ed era diverso per ciascuno di loro, e alcune sezioni erano protette da sistemi di sicurezza muniti di scanner retinici e sensori per il rilevamento delle impronte digitali.

Varcate una decina di porte a tenuta stagna e affrontate le dovute procedure di decontaminazione, Lienhard entrò in uno dei laboratori secondari; l’ambiente, una stanza nel seminterrato che da sola doveva essere più vasta del suo appartamento, era semibuio, occupato da file e file di tavoli ingombri di attrezzature. Solo uno era illuminato, e uno scienziato in tuta di lattice stava armeggiando  con una serie di radioscanner che, giudicò Lienhard con un’occhiata, sembravano aver bisogno di una taratura.

I capelli del ricercatore erano di una tonalità assurdamente accesa di rosso aranciato.

«Ehilà, Rudi! Non mi hai visto?».

«Hai fatto un baccano d’Inferno e io non sono ancora sordo, Lienhard». Gosween non sollevò nemmeno gli occhi dal proprio lavoro «Anche se ho una probabilità del quarantacinque percento di diventarlo entro gli ottant’anni, sempre che non mi sottoponga ad uno di quei meravigliosi interventi di chirurgia correttiva che adesso vanno tanto di moda».

Continuò a lavorare ancora per un po’, con Lienhard che lo guardava senza parlare.

«Allora,» disse, dopo aver tarato e spento l’ultimo radioscanner  «so perché sei qui. Sappi che per poco non ho dovuto vendere il culo ad un collega dell’Archivio Antropologico per farmi dare quello che hai chiesto».

«Non è vero».

«Come?».

«Non è vero. Sei troppo brutto, nessuno scambierebbe qualcosa per il tuo culo». Lienhard godé in tutta tranquillità dell’espressione finto-offesa di Rudolf.

«Da quand’è che fai questi discorsi da puttana arrivista?».

«Non sai mai con chi hai a che fare, Rudi».

Gosween scosse la testa con fare teatrale, sconsolato.

«Lasciamo perdere. Comunque ce l’ho, anche se è un campione molto piccolo».

«Mi serve il DNA, Rudi. Non importa se te ne hanno dato solo un pezzettino». Rise, un suono pieno di gioia ed esaltazione «Dio, finalmente! Non credevo che ce l’avremmo mai fatta a prendere quel campione».

«Non vorrei guastare i tuoi sogni di gloria, ma questa era la parte più facile». Rudolf aveva gli occhi azzurri, sottili e acuti; ogni volta Lienhard si stupiva dell’intensità di quello sguardo. «Adesso ci servono campioni biologici presi da un Puro… sfortunatamente, non ne troverai su questo pianeta».

«E il nostro amato Gerarca fa in modo che non si possano raggiungere le Nazioni Oltremondo». Lienhard si mordicchiò il labbro «Troverò un modo. Ho i mezzi per farlo, l’unica difficoltà sarà evitare che i campioni vengano contaminati».

«Buona fortuna». In pieno contrasto con il tono pieno di ironia, il viso di Gosween era mortalmente serio «Heisenhover, se anche questa cosa dovesse funzionare ci si inculerebbero. Lo sai, vero?».

«Le mie teorie sono corrette».

«So che sono corrette, ed è proprio questo il punto. Il Gerarca non vorrà essere sputtanato davanti ad un intero pianeta, non credi?».

«Non me ne frega un‒»

«Ok, ok. Abbiamo già fatto questo discorso, so come va a finire, quindi perché mi ostino a parlartene? Andiamo a bere qualcosa». Rudolf si sfilò i guanti di lattice con un gesto secco e li buttò sul bancone «Non vedo l’ora di togliermi questa tuta appiccicosa, e poi devo ancora offrirti qualcosa per festeggiare il tuo… quinto arresto? O è il sesto? Almeno tu ti ricordi a che numero stai?».

«Sono le quattro del pomeriggio». Fu la placida osservazione di Lienhard, che si era già avvicinato alla porta «Non è un po’ presto?».

«Non è mai un po’ presto per bere, Leny».

Lo seguì con un sospiro, cercando di ignorare il modo ridicolo con cui la tuta di lattice si incollava alla pelle dello scienziato nei punti meno opportuni.


α٠β٠ω


All’una e mezza di pomeriggio del giorno successivo, con uno zaino pieno di libri voluminosi in spalla e una morsa di nervosismo alla bocca dello stomaco, Lienhard si presentò alla biblioteca del campus. Fu una bella sorpresa trovare la piccola folla dei suoi studenti già ad attenderlo, seduti sui gradini davanti al portone d’ingresso; la sua allegria si smorzò rapidamente quando notò una figura longilinea appoggiata con apparente noncuranza accanto allo stipite.

«Tu». Quella che voleva essere una constatazione un po’ stupita risultò praticamente un ringhio animalesco «Che cosa stai facendo qui?».

Joseph Redthorn lo squadrò per un secondo infinito, e la rabbia di Lienhard sfumò come neve al sole quando si accorse che nell’espressione contratta del suo viso c’era più amarezza che altro. Gli studenti tacevano, fissandoli come se si aspettassero una scazzottata o qualcosa di simile, e per un attimo il professore desiderò che se ne andassero tutti al diavolo e li lasciassero soli ‒ non fu che un pensiero fulmineo, subito svanito.

«Mi hanno selezionato come sua scorta personale». Ringhiò «Ma non pensi che sia stato io a richiedere questo incarico».

La prima domanda che balenò nella mente di Lienhard fu: “per quanto tempo?”.

Per quanto tempo sarebbe stato costretto a condividere il proprio spazio vitale con quell’idiota arrogante? A nessuno dei due andava a genio l’idea, quindi era prevedibile che si sarebbero vicendevolmente impegnati nel rendersi la vita impossibile… settimane, forse mesi di convivenza forzata.

Ditemi che è uno scherzo, ditemi che è tutto un maledetto scherzo che non fa ridere per niente”.

«Di chi è stata l’idea?».

«I miei superiori hanno ritenuto che, vista la natura del soggetto da sorvegliare, si rendesse necessario affidare l’incarico a qualcuno con una certa esperienza. C'è da sentirsi onorati, Heisenhover».

"Però, ha anche un'idea vaga del concetto di ironia. Questo tipo non finirà mai di stupirmi".

«Il soggetto da sorvegliare non ha voce in capitolo, immagino».

«Ovviamente no».

«Ok». Lienhard non riuscì a controllare il lieve tremito nervoso della voce «Ok. Ragazzi, a casa. La lezione su Dostoevskij è rinviata alla prossima settimana... nel frattempo vedete se riuscite a leggervi qualcosa, mi aspetto un bel dibattito costruttivo».

Joseph sbarrò gli occhi, spiazzato, mentre gli studenti − i più lamentandosi e sussurrando imprecazioni antigovernative, qualcuno guardando con una sorta di timore reverenziale il professore e il soldato − raccoglievano baracca e burattini e si allontanavano dalla biblioteca. Quando furono rimasti soli, tra loro soltanto un silenzio teso interrotto dal frinire delle cicale, Lienhard esalò un lungo sospiro stanco e gli fece cenno di seguirlo.

«Andiamo, su. Dobbiamo necessariamente parlare di questa cosa».

Il tono era del tutto casuale − una proposta educata, forse persino amichevole − ma Joseph non poteva fare a meno di trovare qualcosa di insinuante nel sorriso morbido di Heisenhover, nei suoi occhi scuri velati dalle ciglia bionde. Era un bell'uomo, inutile negarlo, peccato fosse un alfa e dotato di un carattere ben al di là della soglia dell'insopportabilità.

«Andiamo dove? E di cosa dovremmo parlare, esattamente?».

«Del mio corso, del tuo lavoro, del tempo. Ci sono tante cose di cui parlare. Per quanto riguarda il "dove" ho in mente un posto tranquillo, scommetto che non ci sei mai stato». L'espressione di Joseph rimaneva dubbiosa.

«Non sono sicuro che questo rientri nei miei compiti».

«Oh, andiamo. Come altro vuoi passare il pomeriggio, a firmare scartoffie in centrale? Ti pagano pure, che diamine!». Gli lanciò un'occhiata aperta, sincera, e Joseph fu tentato di accettare; Lienhard Heisenhover era una creatura strana, imprevedibile, ed era curioso di sapere cosa avesse architettato per convincerlo a patteggiare con lui.

«Ti ricordo che sono in orario lavorativo. Qualsiasi affermazione compromettente verrà riportata a chi di dovere».

La reazione di Lienhard fu quanto di più imprevisto: fece spallucce e si aprì in un sorriso spontaneo, quasi radioso − sembrava davvero che, nonostante tutto, non gli importasse. Joseph si chiese se, nella stessa situazione, si sarebbe comportato in quel modo.

"No, non l'avrei fatto. Ha un bell'autocontrollo o un bel po' di menefreghismo".

«Sei un osso duro, eh?». Celiò il professore, senza smettere di sorridere come un ragazzino «Se non fossi uno stronzo totale mi staresti quasi simpatico».

«Quando parlavo di affermazioni compromettenti mi riferivo esattamente a quest−»

«Tanto la denuncia per oltraggio a pubblico ufficiale ce l'ho già. Come vedi, minacciarmi è molto difficile».

Il soldato scosse la testa e scese i gradini che lo separavano da Lienhard, sempre mantenendosi ad una distanza di sicurezza di almeno un metro. La vicinanza con quell'uomo acuto e sarcastico, che usava armi del tutto diverse da quelle a cui era abituato, lo faceva sentire ridicolmente esposto; non riusciva a difendersi adeguatamente, era un dato di fatto.

«Non ho tutto il giorno,» lo informò «farai bene a sbrigarti».


α٠β٠ω


Lo aveva accompagnato in un locale del centro storico, un piccolo caffè a cui si accedeva tramite una rampa di scale che scendeva ben al di sotto del livello della strada. All’interno non c’erano finestre, e l’illuminazione era garantita da una quantità di piccoli globi luminescenti che volteggiavano per tutto l’ambiente e cambiavano colore in continuazione; non assumevano mai tinte violente, attraversavano una gamma di sfumature pastello che Joseph trovava molto piacevoli.

I tavolini erano separati gli uni dagli altri da lastre di plexiglas deformato che occultavano parzialmente le sembianze degli avventori; l’arredamento era ultramoderno, pareti di polimermarmo così lisce da sembrare specchi e suppellettili di acciaio cromato dalle forme bizzarre.

«Posto carino, vero?». I vestiti antiquati di Lienhard erano incredibilmente fuori contesto, ma Joseph non lo disse. Si limitò ad annuire, mentre il professore infilava una sottile tessere magnetica in una fessura sul piano del tavolo e ne sfiorava la superficie con gesti esperti; su quello che sembrava semplice acciaio comparve all’improvviso un menù completo di foto. «Vedi, è self-service». Spiegò, indicando un vasto assordimento di milkshake e cocktail di tutte le forme e i colori «Basta toccarlo e ti arriva direttamente al tavolo. Prendi quello che ti pare, offro io».

Joseph inarcò le sopracciglia.

«Sembra un posto abbastanza costoso». Osservò, scorrendo velocemente la lista dei prezzi «Sei sicuro? Non vorrei dovermi sdebitare».

«Stai scherzando?». Lienhard rise e selezionò per sé un paio di cocktail dall’aria piuttosto alcoolica «Poi il proprietario è amico di mio padre, tranquillo».

Joseph ricordò a se stesso che tecnicamente era in servizio e optò per un frullato di obstgrün, una bacca endemica del pianeta che, una volta maturata, assumeva un bel colore rosa brillante. Il soldato ricordava un periodo della sua infanzia in cui ne aveva mangiate tantissime, perché la villa in cui trascorreva le vacanze con suo padre era circondata da piantagioni di bacche ‒ ondeggiavano al vento, i rami violacei delle piante un tempo aliene, e spandevano nell’aria un profumo fresco che il tempo aveva marchiato a fuoco nella sua memoria.

Il tavolo vibrò per qualche secondo e poi il piano d’acciaio si divise in due metà perfette, che scivolarono di lato senza il minimo rumore; il vuoto che si era formato al centro fu presto riempito da una piattaforma di metallo verniciata di nero, su cui troneggiavano le ordinazioni e un piattino omaggio di semi da sgranocchiare.

«Eh?». Fece Heinsenhover, palesemente orgoglioso «Adoro il self-service. Mi permette di ordinare quello che mi pare senza rompere le palle a dei beta».

Joseph bevve un sorso del frullato ‒ era ottimo, freddo e rinfrescante al punto giusto ‒ e annuì.

«Sei un Egualitario, vero? Mi riferisco alla questione delle Categorie».

Lienhard fece spallucce. «Non mi inscrivo in un movimento politico preciso. Penso semplicemente che una società gerarchica come la nostra sia non solo debole, ma oppressiva nei confronti di beta e omega. Lo fanno passare per un ordine naturale, io credo che si tratti di semplice barbarie».

«Una convinzione onorevole per un alfa». Osservò Joseph, senza alcun sarcasmo. Aveva sempre pensato che fosse quasi scontato che beta e omega combattessero per conquistare una maggiore indipendenza, mentre gli alfa impegnati in quel tipo di lotte sociali erano rari. Perché avrebbero dovuto propugnare l’abolizione di un regime che era tutto a loro vantaggio? Solo qualcuno che credesse profondamente nei propri ideali poteva avere la forza di fare una cosa del genere.

«Lo pensi sul serio?». Lienhard sorrise, le guance scaldate dall’alcool ‒ aveva bevuto metà del primo cocktail in una sola sorsata, e il soldato annotò mentalmente quel particolare. «Non mi sembri molto d’accordo con il Movimento Egualitario, no?».

«Apprezzo la forza di chi combatte con coraggio battaglie non proprie». Joseph increspò le labbra in un ghigno di superiorità «Anche quando questo comporta conseguenze legali che mi costringono ad intervenire».

«Oh, scommetto che ti dispiace». L’impudenza del professore riaccese la miccia dell’antipatia. Era così, con Heisenhover: i lati positivi e negativi del suo carattere si mostravano in una specie di alternanza lunatica, snervante, e Joseph si trovava continuamente nell’impossibilità di formulare un giudizio definito su di lui. «Comunque non siamo qui per prenderci per il culo a vicenda. Non che l’attività mi dispiaccia, sia chiaro». Scolò quello che restava del primo cocktail in un’altra sorsata e si schiarì la voce «Allora. Ti pagano per intrometterti nei miei corsi e a me questa cosa non va a genio».

«Credevo che fosse chiaro ad entrambi».

«Il punto che invece non è chiaro è quanto hai intenzione di intrometterti. Voglio approfondire questo aspetto». Si appoggiò del tutto allo schienale della sedia e allacciò le braccia attorno al busto, scrutandolo con una lunga occhiata inquisitoria; prima di rispondere Joseph si soffermò sui suoi capelli biondi, sul modo con qui gli sfioravano il viso e le spalle come una cortina di oro filato. Era una pettinatura inconsueta, fuori moda, e forse proprio per questo gli stava tanto bene. Aveva come la sensazione che Heisenhover sarebbe parso ridicolo con un taglio “normale”.

«Tra gli argomenti da evitare tassativamente ci sono la ribellione, sempre che questa venga giustificata, e tutto ciò che è inerente a fatti di cronaca politica. Le idee antinazionaliste sono vietate, così come spiegazioni incentrate sulle teorie evoluzionistiche e i viaggi interplanetari».

«Teorie evoluzionistiche?». Lienhard inarcò un sopracciglio, facendosi più attento «Come mai?».

«Non lo so. Non sono stato io a scegliere gli argomenti tabù, Heisenhover, me li hanno soltanto comunicati».

Quindi nemmeno tu ne sei a conoscenza. Cosa mi aspettavo?”. Simulando noncuranza, il professore fece una smorfia come per dire che non riusciva proprio a comprendere le strane manie dell’Amministratore Distrettuale.

«Be’, tutto sommato non è troppa roba».

Lienhard si trattenne dallo sbottare a ridere quando, per l’ennesima volta, Joseph Redthorn sgranò gli occhi davanti ad una reazione che non si aspettava. Cosa pensava, che si sarebbe messo a sbattere i piedi per avere quello che voleva?

«Non sono gli argomenti che tratti tipicamente nel tuo corso?».

«E perché mai dovrebbero esserlo? Ho così tanto l’aria del facinoroso?». Sbuffò, divertito «Ne tratto talmente tanti, di argomenti… la lezione che hai avuto la buona grazia di interrompere verteva sull’amore, per esempio. Un argomento coinvolgente, non trovi?». Fu studiatamente melliflua, la sua domanda, e Redthorn contrasse il viso in una maschera di disagio e imbarazzo.

«Che cosa vuoi dimostrare, Heisenhover?».

«Io? Ma niente! Perché sei sempre così‒»

«Non credo che dovremmo darci del tu». Sibilò, scostandosi bruscamente dal tavolo «Il nostro è un rapporto strettamente professionale, e sappi che non ho la minima intenzione di simpatizzare con un pallone gonfiato che vive all’ombra di suo padre».

«Se pensi che darò del lei o del voi ad uno più giovane di me, maggiore Joseph Redthorn, ti sbagli. Comunque si vede che sei il tipico imbecille antiegualitario,» era perfettamente calmo, quasi scherzoso, e proprio per questo le sue parole risultavano taglienti «non sai perdere. Non sai nemmeno gestire un dialogo degno di questo nome».

«Tu non puoi permetterti‒»

«Quanti libri hai letto in vita tua, tanto per capire? Il Manuale del Perfetto Soldatino non conta, eh».

Ed era meraviglioso ‒ oh, se lo era!, vedere il viso delicato di Joseph Redthorn attraversato da chiazze rosse d’irritazione, ascoltare il suo respiro accelerato e la sua voce incrinata dalla rabbia. Aveva sempre amato quella sensazione, Lienhard, il momento perfetto in cui si è consapevoli di avere il controllo su un’altra persona e lo si sfrutta per distruggerla e ridicolizzarla.

Joseph Redthorn, pur con tutta la sua forza e il suo spiccato orgoglio alfa, non poteva vincere. La sua mente era troppo infantile, sviluppatasi all’interno di architetture predefinite che non lasciavano spazio al senso critico, perché riuscisse a tenergli testa a lungo.

«Non potrà continuare così a lungo». Ringhiò, infatti, nell’ultimo anelito vitale della bestia che si vede sottratta la libertà e tenta di mordere la mano che la uccide «Prima o poi pagherà le conseguenze della sua irriverenza».

Toh, era persino tornato alla terza persona singolare.

Lienhard non ebbe nemmeno il tempo di rispondere a tono: il maggiore si voltò, con una rigidità che aveva del sovrumano, e uscì dal locale senza guardarsi indietro.

La sua somigliava curiosamente ad una fuga.











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Reduce da una settimana incasinatissima, accendo il pc solo per pubblicare questo capitolo!

Ringrazio chi ha recensito e chi ha inserito la storia nelle seguite, mi auguro che il proseguire dell'intreccio non tradisca la fiducia che avete dimostrato... mi sto impegnando per rendere la storia più coerente possibile ;)

Fatemi sapere che ne pensate, a domenica prossima!

Saluti,

Greedfan

   
 
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