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Autore: Jo_The Ripper    26/01/2014    5 recensioni
La storia di come è nato e come è andato evolvendosi il rapporto tra Johanna e Finnick, prima e durante i 74esimi Hunger Games, attraverso una raccolta di one shot. Contiene spoiler per chi non avesse ancora letto "Il canto della rivolta".
1. Narciso e l'Amazzone: "In quel momento decise che mai e poi mai un tipo del genere sarebbe potuto diventare suo amico."
2. Imprevedibilità: "Perché lei era Johanna Mason, ed imprevedibilità era il suo secondo nome."
3. Ottone: "Capitol City…quella città era come un ingannevole bagliore dorato, visto da lontano."
4. Lacrime: "Era selvaggia e terribile come una delle dee della vendetta di cui aveva letto in passato."
5. Nome maledetto: "Per lei gli occhi di Finnick non avevano il colore del mare."
6. E se: "Quindi se fossimo venuti dallo stesso Distretto anche noi saremmo stati degli Sfortunati Innamorati?"
7. Il principio delle cose: "Felici Hunger Games, Johanna Mason." - "E possa la fortuna essere sempre a nostro favore, Finnick Odair."
Genere: Angst, Guerra, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Finnick Odair, Johanna Mason
Note: Movieverse, Raccolta | Avvertimenti: Spoiler!, Tematiche delicate
Capitoli:
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Ottone

Il Distretto 7 non vantava un ricco assortimento di vincitori, ma, secondo le regole dettate da Capitol City, era stato stabilito che questi fossero estratti a sorte per adempiere al loro ruolo di mentori, così come accadeva per i tributi. Il fatto che tra i mentori alcuni fossero anziani, con palesi difficoltà sia motorie che cerebrali, non favoriva le cose. Ogni anno i tributi del Distretto erano tra i primi a morire, sia a causa della loro giovane età ed insufficienza di mezzi, sia per i mancati sponsor che il mentore avrebbe dovuto procurargli.
Se c’era un’altra cosa che Johanna odiava, era lo sguardo di puro terrore che quei bambini avevano stampato negli occhi quando la sirena della mietitura riecheggiava nel Distretto. Li vedeva camminare a passi lenti, quasi arrancando e trascinando le gambe lungo le strade, stretti gli uni agli altri tremanti e spauriti.
Molti di loro non erano nemmeno abbastanza forti da riuscire a sollevare un’arma.
“Come gli agnelli sottratti alle madri e venduti al macello.” Si era trovata a pensare.
Il suo primo anno da mentore, i 72esimi Hunger Games, si erano rivelati un totale disastro.
Aveva provato ad istruire due ragazzini di dodici e tredici anni, ma la cosa non era andata bene: morirono subito, nel bagno di sangue iniziale alla Cornucopia, trucidati dai tributi dell’1 e del 2.

Quella notte il letto di Johanna sembrava tappezzato di spilli. Si girava e rigirava e nonostante i ripetuti tentativi, le palpebre non volevano saperne di chiudersi. Scalciò le lenzuola con un gesto violento, si vestì e decise di andare in città, convinta che camminare le facesse bene.
In realtà non desiderava nient’altro che essere a casa sua, scappare all’aperto, nel folto della foresta di pini e sdraiarsi al suolo, con il solo verso dei rapaci notturni a farle compagnia.
Invece era a Capitol City, città scintillante che non dormiva mai; le insegne luminose la infastidivano, i neon le bruciavano gli occhi ed il chiasso le massacrava le orecchie.
Dalle finestre trasparenti dei locali a bordo strada vedeva la gente, riunita attorno ai televisori olografici, piazzare scommesse su chi sarebbe risultato vincitore, congratularsi per una previsione azzeccata, commentare le armi ed i metodi di uccisione di alcuni tributi particolarmente feroci.
Nauseata da quelle scene, non appena voltò un angolo, la cena le risalì in gola in maniera così violenta che si accasciò sulle ginocchia. Si pulì alla bene e meglio la bocca, che conservava ancora un retrogusto acido, e riprese a camminare.
Un’auto si affiancò a lei sul marciapiede ed abbassò il finestrino.
“Signorina Mason, le serve un passaggio?”
Lei si voltò a guardare lo sconosciuto: era un ragazzo tipico della città, grande forse un paio d’anni più di lei.
“Non ho bisogno di nulla, vattene via.” Tagliò corto.
“Temo proprio, signorina Mason, di dover insistere.” La macchina si fermò ed il ragazzo scese. Era abbigliato con uno di quei completi vergognosamente costosi, i capelli scuri raccolti in una coda bassa dal quale spuntavano delle ciocche color porpora. Le sorrise gentile e lei si infastidì.
“Che c’è, sei sordo? Vattene via ho detto!”
“Non posso. In effetti, la stavo cercando, signorina Mason.”
Johanna si fermò.
“Mi cercavi per cosa?”
Lui sorrise di nuovo, una smorfia inquietante e perversa.
“Come il gatto che si lecca le labbra prima di assaltare la gabbia del canarino.”
“Per il piacere della sua compagnia.” Ammise pacato. Johanna sapeva che quello che stava per fare era sbagliato, nonostante il campanello d’allarme nella sua testa non smettesse di trillare, ma in quel momento non le importava. Voleva qualcosa per dimenticare, per annullarsi, per stordirsi. E se quell’imberbe figlio di papà avrebbe potuto procurargliela, tanto di guadagnato.
Entrò nell’abitacolo spazioso ed il ragazzo disse all’autista di mettere in moto.
“Gradisci qualcosa da bere, Johanna? Posso chiamarti Johanna, non ti dispiace?” domandò premuroso.
Lei gli agitò una mano davanti agli occhi.
“Chiamami come ti pare e sì, versami da bere. Tanto.”
Il ragazzo le porse un bicchiere colmo di un liquido arancione che lei trangugiò avidamente. Allungò di nuovo il bicchiere verso di lui.
“Ancora.” Gli ordinò e lui obbedì, solerte.
Dopo tre bicchieri di quella roba, Johanna scrutò con aria sospettosa il suo benefattore.
“Chi sei e perché hai detto che mi stavi cercando?”
“Ha importanza chi sono? E poi te l’ho già detto, desideravo trascorrere del tempo con la mia vincitrice preferita.”
La cerimoniosità di quelle parole nascondeva al suo interno qualcosa di molto più infido. Quella richiesta, quella pretesa di volerla lì, ostentando una carineria ed una gentilezza così inusuali, sapeva di imbroglio.
“È difficile per me credere di essere la preferita di qualcuno, visto quanto impegno ci metto nel farmi odiare.” Ribatté pungente.
Il ragazzo si avvicinò con fare accattivante e le passò una mano sulle spalle mentre l’altra cadde casualmente sul suo ginocchio.
“Qui sta il bello…con questo tuo carattere ribelle ed altezzoso attrai i predatori, coloro che bramano intrattenere una ragazza riottosa e provocatrice.” La mano risalì pericolosamente lungo la coscia e le labbra dipinte le sfiorarono il collo. Johanna , colta alla sprovvista, rimase pietrificata, ma poi prese velocemente coscienza di sé. Ribaltò le posizioni ed inchiodò quel tizio contro il sedile di pelle dell’auto con il braccio.
“Brutto porco, che hai intenzione di fare?” gli gridò contro e vide gli occhi del ragazzo assottigliarsi pericolosamente.
“Ho pagato per averti, sgualdrina irriconoscente, quindi ora lasciami e fammi divertire come merito.” Tutta la cortesia era sparita dalla sua voce, sostituita da una feroce brama.
La verità colpì Johanna come una pugnalata: aveva pagato per averla.
Era stata venduta.
Venduta ad un capriccioso per il suo sadico divertimento.
Il suo corpo rispose prima del suo cervello: il primo pugno colpì lo zigomo del ragazzo. Ne seguì un altro e poi un altro ancora, un violento attacco al viso, al torace e a niente servivano i lamenti che si levavano alti dalla gola di quel maniaco. Johanna si fermò ansante e si guardò le mani coperte dal sangue del suo aggressore. Questi si reggeva lo stomaco con un braccio e con la mano libera si teneva la base del naso per tamponare l’emorragia, il viso era una completa maschera tumefatta, piena di graffi, tagli ed ematomi.
Sicuramente aveva il setto nasale fratturato assieme a qualche costola incrinata.
“Ferma la macchina!” gridò Johanna dall’abitacolo. L’autista frenò di botto e lei aprì la porta, schizzando fuori e correndo veloce, con l’adrenalina ancora in circolo.
Non pensò alle conseguenze di quel suo gesto, la sua mente continuava a darle l’impulso di correre e rifugiarsi in un posto sicuro, da qualcuno di cui si fidava. Si fermò di colpo, le mani sulle ginocchia ed il fianco sinistro che pungeva per lo sforzo.
“Finnick…” ansimò il suo nome e si guardò attorno. Non conosceva bene Capitol City, ma sapeva dove trovarlo, visto che era anche lui in città e l’aveva avvisata. E riprese a correre.

L’edificio era alto e l’atrio era piastrellato con marmi lucenti nei quali erano incastonati dei cristalli colorati. Quando Johanna entrò, ignorò totalmente il portiere e si diresse verso l’ascensore. Premette il tasto che conduceva all’attico e, una volta arrivata davanti alla porta, bussò con forza.
Un borbottio sconnesso provenne dall’interno e Finnick apparve sulla soglia, con indosso solo dei pantaloni morbidi da notte.
“Johanna, che cosa…” biascicò sorpreso, ancora assonnato.
“Posso entrare?” domandò nervosa.
Lui si scansò dalla porta facendole spazio. Osservò preoccupato quel suo tormentarsi le dita e la prese delicatamente per le spalle. Lei si irrigidì sotto il suo tocco.
“Jo, che ti è successo? Sei qui per quello che è capitato ai tuoi ragazzi? L’ho visto in tv, ho provato a chiamarti al centro di addestramento ma mi hanno detto che non c’eri…”
Lei sollevò gli occhi, lo stordimento dovuto agli eventi le impediva di provare dolore, si sentiva frastornata e confusa, come se avesse assunto una potente droga.
“Non toccarmi. Non farlo.”
Finnick allontanò le mani da lei, ed intuì che doveva celarsi qualcosa di grave dietro le sue parole.
“Siediti, sei a pezzi.”
Johanna si sedette come un automa ai piedi del letto: era sudata, con i capelli scarmigliati e le nocche delle mani erano arrossate e cominciavano a farle male. Finnick vide il sangue incrostato sulle dita e temette il peggio.
“Jo…” esordì, quando le parole di lei lo bloccarono.
“Sono stata venduta, Finnick. E so anche che è stato quel figlio di puttana di Snow a permetterlo.”
Snocciolò l’intera storia con parole che grondavano rancore e rabbia e lui l’ascoltò in silenzio, concentrato ed assorto. Quando ebbe terminato il racconto, lo vide sospirare. Lei, invece, dopo essersi confidata, provò un senso di leggerezza, come se galleggiasse in uno strano limbo. Il trillo di un messaggio ricevuto li fece sobbalzare entrambi.
Finnick si allontanò e lesse. Johanna vide i suoi occhi verdi spalancarsi ed il volto impallidire. Un brivido di paura corse lungo la sua spina dorsale.
“Cos’è successo?”
“Hai mandato all’ospedale Augustus Bell.” Annunciò secco. La mandibola di Johanna si contrasse per lo sdegno.
“Se lo meritava, quel maiale, porco schifoso.”
“Hai idea di chi sia?”
“Dovrei?” rispose di rimando, impermalita. Non riusciva a capire cosa stesse arrovellando il cervello del suo amico, visto che era lei la vittima in quella storia.
Finnick prese a camminare per la stanza, improvvisamente agitato.
“Quello è il figlio di una delle maggiori figure di spicco di tutta Capitol City.”
Johanna si strinse nelle spalle, non sicura di capire dove lui intendesse arrivare.
Finnick si sedette sul letto e si tenne la testa tra le mani, bianco come un cencio. Le lasciò poi scivolare tra le gambe e guardò Johanna.
“Non doveva succedere anche a te.” Dichiarò mesto.
“Cosa? Cosa non doveva succedere Finnick?” chiese ansiosa e perplessa.
La seducente aura  accattivante ed i toni morbidi che lo contraddistinguevano si erano spenti, sostituiti da uno sguardo carico di tristezza.
“Quello che è successo a me. Essere comprati per il divertimento della gente.”
Johanna spalancò la bocca in un muto grido di stupore ed il suo cervello non ci mise molto a collegare i piccoli episodi ai quali aveva assistito da quando aveva conosciuto Finnick.
La comprensione arrivò alla velocità di uno schianto d’albero al suolo.
“Ecco perché sapevi tutte quelle cose…loro, tu…sapevi tutto fin dall’inizio!” era sbalordita e scossa. Finnick le parlò contrito.
“Snow ha il potere di vendere i vincitori degli Hunger Games a coloro che sono disposti a pagare profumatamente. Serve per tenerci in riga, per ricordarci sempre che non possiamo nulla contro il potere di Capitol City. La vittoria ai giochi non serve a conquistare la libertà.”
Johanna si alzò dal letto ed indietreggiò fino a toccare il muro. Non si era accorta di stare tremando.
“Io non lo accetto, Finnick! Non sarò la puttana di Capitol City!”
Anche lui si alzò, i begli occhi di giada scintillavano d’ira. Aveva perso ogni traccia di calma e compostezza.
“Credi che invece a me faccia piacere esserlo? Credi che io voglia essere considerato alla stregua di un oggetto da vendere al migliore offerente? Ti sei già ribellata abbastanza, Johanna. Loro ti porteranno via tutto, lo capisci questo?”
Lei scivolò contro la parete, fino ad accasciarsi a terra, il cervello offuscato dalla paura crescente.
“Cosa accadrà adesso?” domandò in un sussurro strozzato.
“Non lo so, io non lo so.” Finnick scosse il capo, rassegnato.
“Perché non mi hai mai detto niente? Se lo avessi saputo io avrei agito diversamente.”
“Perché non potevo parlartene senza temere che tu facessi qualche sciocchezza e agissi in maniera avventata. Volevo proteggere te dalla realtà ed anche altre persone che contano su di me a casa.”
“Ma questa è la realtà in cui viviamo!” sbottò lei. “Ed io avevo il diritto di sapere! Dio, tu dovresti essere mio amico! Sapevi tutte quelle cose e non ti è venuto in mente di dirmelo prima…sei uno stronzo, Finnick.”
Si rimise in piedi, ancora tremante e scossa, e imboccò l'uscita, sbattendosi la porta alle spalle con malagrazia.
Finnick non la seguì, rimase fermo a fissare l'ingresso. Il dubbio di non aver fatto la cosa giusta a parlargliene lo assalì più e più volte. Cercò di giustificarsi perché riteneva che, dato il suo carattere, Johanna non avrebbe risentito della corruzione di Capitol City.
E invece, così facendo, l’aveva condannata. L’aveva abbandonata a se stessa senza farle da guida, senza comportarsi da amico e non poteva biasimarla per averglielo rinfacciato.
E la cosa peggiore era che non poteva fare ammenda per quel peccato.

*

L’aria calda che esalava dai palazzi la investì e si sentì soffocare di impotenza e frustrazione. Cosa avrebbe potuto fare adesso? Avvisare la sua famiglia, dire a tutti di scappare… su chi, per primo, si sarebbe accanito il governo? Su chi Capitol City avrebbe riversato la sua vendetta?
Tutte quelle domande funestavano la sua mente, ma lei sapeva bene di essere totalmente impotente: una nullità senza potere, una regina del niente, un’inerme marionetta in balia della tempesta che presto l’avrebbe travolta e spazzata via.
Capitol City…quella città era come un ingannevole bagliore dorato, visto da lontano: l’uomo incauto avrebbe potuto scambiarlo per oro puro e vero, ma una volta avvicinatosi avrebbe scorto il falso riverbero dell’ottone.

*

Nella sala da pranzo della sua dimora, il presidente Snow leggeva annoiato un fascicolo che recava il nome di Johanna Mason. Lo chiuse e lo gettò sul tavolo con un’occhiata di sufficienza.
“Patetico.”
Sentì bussare alla porta e diede ordine di entrare.
“Signore, come desidera procedere con il caso Mason?” chiese l’uomo appena arrivato. Il presidente rifletté per un attimo e poi parlò.
“Johanna Mason è una ribelle e presto imparerà a sue spese che ai ribelli non conviene mettere in discussione il potere di questa città. Imparerà a rinunciare alla libertà e a sottostare a me. Sapete già cosa fare quando tornerà al suo Distretto, alla fine dei giochi. Ma non subito, aspettate che creda di essere al sicuro. Attendete il mio segnale.”
L’uomo annuì e chiuse la porta. Il Presidente si lisciò la barba, prese un bicchiere di vino e si diresse verso il suo roseto.
Tagliò i rami secchi e spogli e pensò che presto quello sarebbe stato lo stesso destino di Johanna Mason e delle persone che amava.

***
Angst, angst come se piovesse! La regia oggi propone un capitolo meno spensierato rispetto ai precedenti, ma spera che risulti ugualmente gradevole ai gentili lettori. Detto questo la sopracitata regia augura a tutti un buon inizio di settimana e spera in qualche commentino per affrontare i giorni de fuego che stanno per arrivare.
A domenica prossima!

  
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