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Autore: SpeedofSound    27/01/2014    0 recensioni
Ma io sono qui per vincere, per dimostrare che anni di allenamento possono essere ripagati anche da poco più di un minuto di gara. Noi nuotatori siamo cosi: ci alleniamo più di due ore al giorno, solo per fare gare da una manciata di minuti. Mi sono allenata per vincerla questa gara, e non voglio arrivare seconda; se arrivo seconda non sarò stata la più veloce, sarò la prima di quelli che hanno perso. I tre fischi che indicano di avvicinarsi al blocco mi rinvengono da questi pensieri, e mi avvicino al blocco. Lentamente alzo la testa verso l’acqua, che è immobile, che aspetta solo che noi ci tuffiamo. Un fischio, bisogna salire sui blocchi. Salgo, e aggancio le mani al blocco, pronta a scattare al segnale di via. Voglio essere la piu veloce. Take your marks…. La tensione sparisce, è diventata determinazione. Voglio vincere.
Genere: Introspettivo, Slice of life, Sportivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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-TO BE THE SECOND IS TO BE THE FIRST OF THE ONES WHO LOSE-
 

Francesca si stava rigirando nel letto da quando avevamo provato ad addormentarci. Ogni tanto sbuffa, il segnale che sta per cambiare posizione. Verso mezzanotte, visto che nessuna delle due riusciva a dormire, mi sono alzata e ho preparato una camomilla per entrambe con il bollitore elettrico che abbiamo in camera. In pigiama, siamo rimaste a guardare la città, immersa nel buio, dietro ai vetri della portafinestra, soffiando sulle nostre camomille per farle raffreddare. La città si stendeva davanti a noi silenziosa e addormentata. Era mezzanotte passata. Il rumore delle rare macchine che passavano ci arrivava ovattato. Abbiamo visto le lucine rosse dei fari di due auto passare in lontananza, forse dirette verso la stazione. Qualcuno aveva acceso la luce nella casa di fronte alla nostra. Spiammo per un po’ i suoi movimenti attraverso le tende, finche la luce non fu spenta. Sobbalzammo al rumore di un clacson, poi calò di nuovo il silenzio tra di noi. Il profumo caldo e denso della camomilla mi riempiva il naso, la moquette mi pizzicava i piedi nudi. Un paio di volte ho sbirciato l’espressione di Francesca: era persa in un’altra dimensione, peggio che dopo le qualificazioni. L’idea di poter essere passate in finale non ci aveva neanche sfiorato, finche non si era concretizzata con i tempi nuotati quel mattino. I migliori di tutta la stagione, cosi adesso eravamo lì, a osservare la città buia, ognuna persa nel suo mondo fantastico, pieno di angoscia, di tensione, ma anche di determinazione. Perché è vero che la tensione ti esaurisce, ti prende e ti strizza fino a quando non impari come dominarla, come trasformarla in determinazione per vincere. Ma è anche vero che il momento più bello delle gare non è quando hai vinto e tutti ti abbracciano, ma quando, la sera prima, te la fai sotto.
Le tisane non sono servite a molto. Francesca si è addormentata solo verso le quattro del mattino, ma deve aver fatto brutti sogni, perché nelle successive quattro ore di sonno si è lamentata tutto il tempo, e io non ho chiuso occhio tutta la notte. Quando arriviamo al tavolo della colazione ,il mattino dopo, e vedo le facce che hanno le altre ragazze italiane, mi rendo conto che la nottata è stata difficile per tutti. Solo Renzo, il nostro allenatore, sembra abbastanza riposato e cerca di tirarci su il morale. In fondo, penso io, lui non deve gareggiare: è ovvio che non ha la nostra stessa tensione, anche se siamo pur sempre sue atlete e ci tiene a noi. Lancio una rapida occhiata e vedo, due tavoli più in là del nostro, le ragazze tedesche, bionde e biondissime, che fanno colazione ridendo e scherzando, voltandosi verso il nostro tavolo per osservare la tipica colazione della nazionale italiana: splendidi esemplari di bradipi che divorano tutto ciò che trovano, come se si fossero appena risvegliati da un profondo letargo. Abbiamo gli occhi aperti solo per via della caffeina, visto che Renzo ci ha costretto a bere due tazze di caffe a testa.
Ma il peggio arriva nel momento in cui arriviamo allo Sporting Club di Zurigo, sede della manifestazione. Mancano pochi minuti alle 9, tra circa un’ora inizia la gara e il parcheggio sta già cominciando a riempirsi. Scarichiamo i borsoni con l’aiuto di Renzo, mentre nel frattempo ci viene incontro Corrado, il nostro vice allenatore, che era lì dalle otto per le varie formalità burocratiche. Ci fa un sorriso di incoraggiamento e un inaspettato “Forza ragazzi!” ci strappa una risata. Seguiamo i nostri due allenatori nell’aria fredda delle nove del mattino in Svizzera. L’impianto è una gigantesca scatola di cemento nel centro di uno spazio enorme, tappezzata di manifesti dedicati alla gara, che la colorano, ma non la rendono meno crudele ai nostri occhi. Camminiamo una accanto all’altra, io vicino a Francesca, che non ha ancora detto una parola dalla sera prima. Quando entriamo nel palazzetto, rimaniamo ancora più sorprese di quanto non lo fossimo state il giorno prima: è stato tappezzato di manifesti anche l’interno, in occasione delle finali. E’ una gara importante, dove vengono atleti da tutta l’Europa. Dopo lo scompiglio iniziale, ci dividiamo nei diversi spogliatoi: i maschi a destra, le ragazze a sinistra. Noi ragazze cerchiamo un posto per appoggiare le borse, ma nonostante le qualificazioni avrebbero dovuto eliminare un po’ di persone, dobbiamo accontentarci di appoggiarle per terra. Mettiamo il costume da allenamento, e ci dirigiamo verso la vasca. All’entrata della vasca veniamo accolte dal familiare odore di cloro, che ormai è impresso nella nostra pelle, che riconosciamo come odore di casa. Siamo abituate a sentirci dire che puzziamo di cloro, e ormai non ci facciamo più caso. Vediamo Renzo che ci fa segno di poggiare le borse, cosi ci avviciniamo, prendiamo cuffie e occhialini e ci incamminiamo verso la vasca. Nonostante il riscaldamento sia appena iniziato, ci sono già tantissimi atleti, ed è praticamente impossibile entrare: sono talmente tanti in una singola corsia, che potrei camminare sulle loro teste. Ma Corrado ha un asso nella manica, e ci porta nell’altra vasca, dove riusciamo a nuotare e riscaldarci come si deve. Quando sentiamo la voce dello speaker annunciare la fine del riscaldamento, ci avviamo verso le nostre borse, prendiamo i costumi da gara e siamo tutti paonazzi in faccia, con la tensione che inizia a salire perché realizziamo che di lì a poco saremo in vasca combattere per un posto sul podio o per una vittoria. Andiamo nello spogliatoio delle ragazze, e cerchiamo di scherzare e chiacchierare per alleviare la tensione. Non funziona, i discorsi sono ripetitivi e le domande sempre le solite  “Come hai passato la notte?”.  Così quando abbiamo finito di cambiarci torniamo in vasca, e ci sediamo sulle panchine riservate agli atleti. Io prendo il mio iPod e ascolto un po’ di musica, sperando che mi aiuti a concentrarmi. Scorro la playlist e mi soffermo soprattutto sui Coldplay, il mio gruppo preferito. Quando, assorta nella musica, vedo Renzo che mi fa segno, capisco che è arrivato il mio turno: tra poco inizia la mia gara. Le gambe mi tremano e non riesco a parlare o a formulare un pensiero di senso compiuto. Sono tesa, ma anche determinata. Vado da Renzo, che si limita a dirmi di andare forte e solleva il palmo della mano. Batto forte la mia mano contro la sua, come facciamo sempre prima delle gare importanti. Quanta più grinta ci metto nel battergli la mano, meglio andrà la gara. Soddisfatto, mi fa un sorriso e mi intima di andare in camera di chiamata, dove presto chiameranno il mio nome.
La camera di chiamata è affollatissima, un groviglio infinito di teste, ognuna con una cuffia diversa, che si alzano in punta di piedi appena l’addetta chiama i nomi, sperando ogni volta che questo sia il proprio. Vedo le ragazze che partono nella mia stessa finale e mi avvicino, anche se non conversiamo perché non tutte parlano inglese e siamo di nazionalità diverse. Ma soprattutto, siamo tese. La camera di chiamata è sempre il luogo peggiore, una sorta di purgatorio, perché piena di atlete con l’ansia della gara, che vogliono essere chiamate per andare ai blocchi di partenza e dimostrare ciò per cui si sono allenate. All’inizio, ad ogni nome che non sia il proprio si tira un sospiro di sollievo. Ma dopo un po’ di tempo, quando veramente non se ne può più, ad ogni nome che non sia il proprio si sbuffa, sapendo che ti tocca stare in quel posto caldo e pieno di tensione ancora un po’. Immersa nei miei pensieri, non vedo l’addetta che si avvicina a noi; deve aver capito che siamo le ragazze della finale dei 100 rana, e inizia a chiamare i nomi. Sobbalzo quando sento il mio.
“Ilaria Rosa”
Mostro il cartellino federale e mi siedo sulla sedia a me indicata. A un cenno della ragazza, ci avviamo verso i rispettivi blocchi di partenza. Io sono in corsia centrale, quella riservata a chi ha fatto il miglior tempo il giorno prima. Osservo le altre ragazze: affianco a me partiranno una francese e una norvegese, che hanno quindi fatto il secondo e terzo tempo il giorno prima. Ma io sono qui per vincere, per dimostrare che anni di allenamento possono essere ripagati anche da poco più di un minuto di gara. Noi nuotatori siamo cosi: ci alleniamo più di due ore al giorno, solo per fare gare da una manciata di minuti. Mi sono allenata per vincerla questa gara, e non voglio arrivare seconda; se arrivo seconda non sarò stata la più veloce, sarò la prima di quelli che hanno perso. I tre fischi che indicano di avvicinarsi al blocco mi rinvengono da questi pensieri, e mi avvicino al blocco. Lentamente alzo la testa verso l’acqua, che è immobile, che aspetta solo che noi ci tuffiamo. Un fischio, bisogna salire sui blocchi. Salgo, e aggancio le mani al blocco, pronta a scattare al segnale di via. Voglio essere la piu veloce. Take your marks…. La tensione sparisce, è diventata determinazione. Voglio vincere. L’ultimo fischio, il segnale della partenza, al quale io scatto letteralmente dal blocco, e mi fiondo in acqua. Dopo aver rotto la superficie inizio a fare la subacquea. Non guardo dove sono le mie avversarie, non voglio saperlo. Cerco di nuotare più forte che posso, senza però perdere la fluidità nelle bracciate. Arrivo alla virata di metà gara, mi raccolgo e calcio il muro con  quanta forza mi rimane nelle gambe. Esco dalla subacquea e lancio una rapida occhiata alle avversarie: sono dietro. Forte di questa convinzione, aumento il ritmo dando sfogo alle ultime energie rimaste, e quando arrivo agli ultimi 15 metri mi vengono in mente le parole del mio allenatore: qui inizia la gara. Allora cerco di raccogliere ancora qualche energia, ma i crampi mi impediscono di avere il controllo delle gambe e penso solo a una cosa: voglio vincere. Il respiro è affannoso, non riesco a far entrare l’aria necessaria e sento che potrei svenire. Pazienza, penso. Se devo svenire, tanto vale che svenga.
Invece non svengo, e tocco il muretto. Appena lo tocco, non mi volto a guardare il tempo, non ho abbastanza energie. Sento lo speaker pronunciare il mio nome e dire qualcosa in inglese, ma anche se normalmente lo capisco, rimangono delle parole astratte. Finalmente, dopo aver recuperato le energie, mi giro verso il tabellone: accanto al mio nome c’è un numero, che segna l’ordine di arrivo: 1. Ho vinto, ce l’ho fatta. Non ho più forze, e riesco solo a fare un sorriso a Renzo e Corrado:  è grazie a loro se sono arrivata a questo punto. Loro stringono il pugno, e io continuo a sorridere. Sono letteralmente “vuota”: non penso a nulla, non posso neanche dire di essere felice, riesco solo a sorridere e vedo il mio nome in cima al tabellone con il numero 1 vicino. Ci sarà il tempo per rendersi conto di quello che è successo, ma sono più che sicura che sarà uno dei miei migliori ricordi di sempre.

  
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