Lo sguardo di Raymond posò sulla luce
fluorescente dell'orologio.
Erano passati tre anni e otto mesi, da quando si era attivato e il
ticchettio continuava a tenerlo sveglio. Pronto a correre.
Era un'esistenza da schifo quella nel ghetto, in cui, invece di vivere, la
gente, a malapena sopravviveva.
Passò con la punta delle dita sui sette zeri innestati nel braccio,
rigirandosi nervosamente nel letto ed osservando il lato accanto a sé,
rimasto vuoto. Avrebbe potuto riempirlo sdraiandosi normalmente, occupando
lo spazio che gli spettava di un letto ad una singola piazza, ma non era mai
stato un ragazzo particolarmente muscoloso o particolarmente alto. Era
pelle, ossa e testardaggine. Tanta fottuta testardaggine, che lo aveva
aiutato a rimanere in vita giorno dopo giorno, con le poche ore a sua
disposizione.
Tutto pur di risparmiare tempo.
Spinto con la schiena contro il muro, tenne gli occhi sul countdown al
braccio, guardando i secondi e i minuti scivolare via dalla sua pelle,
svanire, e l'ansia iniziare a gonfiargli il petto quando, ai minuti, si
aggiunsero anche le ore. Ne rimanevano poco più di quattro. Poche, ma, si
ricordò, era stato anche peggio: era arrivato ad avere solo una manciata di
minuti - finché non era arrivata la sua stretta di mano.
Chiuse gli occhi, imponendosi di dormire qualche altro minuto; non avrebbe
rischiato di morire nel sonno, quel ticchettio (così simile al battito di un
cuore che, lentamente, si avvicina alla morte) lo avrebbe svegliato di nuovo
di lì a poco e lui avrebbe ricominciato a fissare i numeri che si
susseguivano, diminuendo poco per volta.
Cercò con le mani il cuscino, stringendoselo al petto ed affondando il volto
contro la federa, nella speranza di respirare ancora il suo odore.
«Sei in ritardo.» mormorò al nulla e il sonno lo avvolse.
Era stato il chiavistello a riattivare i suoi sensi.
Come una molla, Raymond scattò seduto, puntando gli occhi alla porta
d'ingresso del minuscolo monolocale, mantenendoli aperti anche quando la
luce del corridoio inondò la stanza, ferendoli e rendendoli più lucidi e più
azzurri.
La prima cosa che vide fu un numero.
05.13.27.22
05.13.27.21
05.13.27.20
Poi il braccio si mosse, chiudendo la porta alle proprie spalle e tutto
quello che rimase fu la sagoma di un uomo e le sue labbra piegate in un
sorriso canagliesco.
Raymond sentì il frusciare di una giacca che veniva tolta e ricadeva sul
pavimento, seguito da passi lenti che lo raggiunsero sul letto.
Aveva tirato indietro il capo, sollevando il mento in una posa rigida, che,
se avesse avuto più anni, abiti decenti e un lavoro che valeva la pena di
chiamar tale, sarebbe potuta sembrare austera, soprattutto per il modo in
cui riusciva ad esprimere tanto, senza mai dire una parola.
L'uomo si passò una mano tra i capelli corvini, leggendo sul volto i suoi
pensieri.
«Lo so, sono in ritardo.»
Raymond mantenne il silenzio.
«Ancora.»
Il pizzo di ciglia corvine calò sugli occhi, rispalancandoli subito dopo.
«Scusa.»
E, finalmente, Raymond schiuse le labbra, per concedergli il suono della
propria voce.
«Un giorno il tuo ritardo ti farà ammazzare.» lo disse pacatamente, così
come affrontava la maggior parte dei discorsi, con parole scelte
minuziosamente. Era l'unica cosa in cui indugiava, in cui si concedeva tempo
per pensare, anche se sapeva di non averne, per questo faceva in modo di
dire tutto il necessario in poche chiare parole.
Abbassò lo sguardo all'orologio dell'uomo.
«E non solo quello.»
L'uomo prese posto sul materasso accanto a lui, si arrampicò con le dita
lungo il braccio sottile del più giovane, girandolo in senso orario, per
rimpolpare la sua clessidra, aggiungere ore in un orologio che scandiva il
tempo rimanente della sua vita.
«Quando smetterai di preoccuparti per me, Ray?»
«Non ho abbastanza tempo per preoccuparmi per te, Will.»
Will rise. Aveva una risata ruvida e beffarda. La prima volta che le loro
strade si erano incrociate, Raymond aveva pensato si trattasse di un
Minuteman, si era spinto con le spalle contro il muro di un vicolo cieco e
aveva giurato che non gli avrebbe lasciato il proprio orologio senza
spaccargli qualche costola. Ma lui lo aveva bloccato, gli era bastato
sussurrare una sola frase (Smetti di correre, non ti servirà a trovare
altro tempo) e il ragazzo aveva sentito la presa forte delle sue dita
stringere il proprio braccio, ruotarlo, per regalargli ore, invece di rubare
quei pochi minuti che gli rimanevano.
«Se solo fossi più gentile, avresti più amici, lo sai?»
Raymond non rispose. Non era interessato alle amicizie.
Una era più che sufficiente. Occupava già abbastanza del suo tempo.
Will si chinò su di lui, sovrastandolo in quella posizione, cercando la sua
bocca e baciandolo a lungo.
Erano sempre stati baci lenti quelli dell'uomo ed era sempre stato lui a
baciarlo, mai il contrario, tanto che aveva avuto il dubbio che, in
ventisette anni, non avesse mai baciato nessuno prima di lui. Rimaneva
immobile, con le labbra socchiuse ad accogliere la lingua di Will, in una
intima docilità - del tutto opposta al Raymond tagliente e pragmatico - che
lo aveva colpito fin da subito, facendosi catturare da quel ragazzino troppo
più giovane rispetto alle sue tredici volte venticinque anni.
Quando il bacio si sciolse, Raymond si lasciò cadere sdraiato sul letto, con
la schiena contro il muro, in attesa che Will lo seguisse, intrappolandolo
in un abbraccio.
«Dovresti tenerteli.» la voce era ferma e il braccio con l'orologio,
sollevato «Pensare a te. Controllare meglio, il tempo che hai.»
Will sbuffò.
«Da quando parli come un Timekeeper?»
Raymond arricciò le labbra.
Abbandonò il capo al petto dell'uomo, ascoltando il battito del suo cuore
che copriva il rumore dei due orologi e si addormentò.