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Autore: Lauretta Koizumi Reid    28/01/2014    1 recensioni
Giocano nel Prato. La bimba con i capelli scuri e gli occhi azzurri sta ballando. Il maschietto con i riccioli biondi e gli occhi grigi si sforza di starle dietro sulle gambe paffute che muovono i primi passi. Sono adorabili. Sono innocenti e divertenti. Ma non sono miei.
La loro mamma, una donna alta e paffuta, arriva prontamente e li prende per mano, lei a destra, lui a sinistra. E per la prima volta, da anni, vedo un’immagine che ho sempre oscurato e soffocato.
Ma ora lo so: voglio essere io quella donna.
Il viaggio di Katniss alla scoperta dell’avventura che ha sempre negato: la maternità.
Genere: Generale, Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altri, Katniss Everdeen, Peeta Mellark
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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- La vuoi smettere? - urlo d’improvviso come una pazza, mentre Peeta per lo spavento quasi fa cadere il bicchiere d’acqua sulla tovaglia.

- Katniss, sei impazzita? Smettere di fare cosa?

- Di guardarmi così.

- Così come? - rimanda lui, stiracchiandosi la fronte con fare esausto.

- Così come se fossi matta! Pensavo che avresti reagito diversamente, sai?

Peeta scuote la testa e poi si alza da tavola, dicendo che va a prendere l’acqua che sta sul retro della casa e che teniamo fuori perché sia più fresca.

 

Io mi prendo il viso tra le mani e ripercorro quello che è successo una mezz’ora fa. Eravamo Peeta e io, seduti sul nostro letto. Io gli avevo detto che volevo parlargli, e lui si era fermato per ascoltarmi. E facendo leva su tutto il mio coraggio, avevo cercato di riassumergli in poche parole, spezzate, affrettate, ma pur sempre sincere, il mio desiderio di avere un bambino. Mi aspettavo che mio marito saltasse di gioia, mi abbracciasse, corresse per tutta casa.

E invece, il suo sguardo era come quello del Dottor Aurelius quando deliravo, quello di Haymitch quando gli dissi che volevo scendere dal treno infernale che mi aveva condotto sulla strada degli Hunger Games, prima della settantacinquesima edizione. Quello di Peeta, quando mi disse che nessuno aveva bisogno di lui. Compatimento. Pietà. Affetto. Dubbio.

Peeta aveva detto che era una notizia bellissima, ma si era limitato a dire questo. E che dovevamo mettere in tavola la cena. Poi non aveva fatto altro che lanciarmi occhiate circospette, quasi come si aspettasse che io da un momento all’altro fossi saltata su a urlare che in realtà era tutta una bugia, una farsa, un modo per accontentarlo.

Peeta non mi ha creduto, e all’ennesima occhiata furtiva gli ho urlato contro.

Complimenti, Katniss.

Ho il viso nascosto tra le mani e appoggiato sul tavolo, perciò non vedo Peeta arrivare. Ma sento la sua mano sulla mia testa. Come fa sempre, quando vuole calmarmi dagli attacchi di ansia. Ora però non ho nessun attacco d’ansia, accidenti. E lui lo capisce, perché d’un tratto mi sento sollevare di peso, e in men che non si dica, sulla sedia c’è seduto lui. Ed io gli sono seduta sulle gambe. Mi giro per inquadrare il suo viso.

- Scusami, Katniss, hai ragione tu. Non volevo ferirti, sono uno stupido.

Scuoto la testa.

- No, colpa mia. Fai bene a essere così diffidente, però... - le parole sembrano uscirmi a stento - però devi credermi. Non è una decisione affrettata. Non è un capriccio, o una pazzia. Io lo voglio sul serio. Non so come dimostrartelo...

- Non devi  dimostrare nulla. Ma se veramente vogliamo farlo, questa è una cosa da cui non si torna indietro, capisci?

Sì che capisco. Era la stessa cosa che pensavo di mia madre quando era in depressione. Ci aveva messo al mondo, ci aveva cresciute, e poi d’un tratto, BAM!, io e Prim non esistevamo più. Mia madre in quei momenti avrebbe forse voluto tornare indietro al momento della nostra nascita, e rifiutarci? Perché solo un tale desiderio giustificherebbe il lasciar quasi morire di fame due bambine. Sì, lo so, forse sono ingiusta. Mia madre era malata, molto malata. Tuttavia se c’è una cosa che ho capito, è che un figlio sposterà il mio universo in modo definitivo.

E ciò non mi spaventa.

Annuisco a Peeta e lo abbraccio. Poi sento qualcosa sussultare all’altezza della mia spalla, e capisco che è il suo volto che trema in preda a una risata. Mi scosto e lo vedo ridere come ha fatto poche volte. D’un tratto rido anche io. Ci facciamo il solletico, ci diamo pizzicotti e schiaffetti, attribuendo ad essi quelle lacrimucce che ci sporgono dai lati degli occhi, anche se sappiamo entrambi che non è vero.

Mi alzo dalla sedia, e mi allontano verso il bagno, finché Peeta non mi richiama.

- Cosa? - rispondo.

- Dobbiamo andare da Petra!

No.

No, ti prego. Tutto tranne quella donna. Lo sapevo che prima o poi sarebbe saltata fuori.

Si chiama Petra, ha circa quarant’anni, è vedova ed ha due figli. Si è trasferita nel Distretto 12 nientepopodimeno che da Capitol City, quando i trasporti hanno cominciato a essere legali e funzionanti. A dire di tutti, non è mai stata una vera abitante della capitale, detestava lo sfarzo e la follia collettiva della gente, si comportava e vestiva in modo modesto e tranquillo.

Come Cinna. Ma a differenza di lui, che portava la sua sobrietà senza esibirla, Petra fa della modestia un biglietto da visita che la rende ancora più vanitosa. E’ una tuttologa su quello che riguarda gravidanze, bambini, patologie dei genitali femminili, eccetera. A Capitol City era una ”ostetrico-ginecologa”. Quelle che noi chiamavamo levatrici o semplicemente dottoresse.

Facile per lei essere un’icona di conoscenza e sapienza spostandosi dalla capitale a qui. E’ come se un uomo con un occhio solo si trasferisse dal paese dei vedenti a quello dei ciechi. Sei venerata per forza. Non dico che non sia brava nel suo lavoro, ma c’è sempre qualcosa di vanitoso nel modo in cui lo fa. Peeta alza gli occhi al cielo, quando parlo così. Per lui è una donna buona, colta e gentile. E utile. Ma ancora deve esistere qualcuno nel mondo di cui Peeta non pensi bene.

- Dobbiamo proprio? - urlo - per fare un bambino, non basta, ecco....insomma, quello che sai?

Haymitch mi avrà sentito sicuro, visto che non mi prendo la briga di andare di là a parlare con Peeta ma gli urlo da una stanza all’altra. Chissà che cosa pensa.

Perciò è Peeta che viene nel bagno vicino a me.

- Anche quello, soprattutto quello. - ride. - ma credo che non basti. Dobbiamo vedere se è tutto a posto, farti prescrivere qualche vitamina e altre cose, correggere qualche abitudine sbagliata... insomma, partire col piede giusto.

Si vede che mio marito ci ha pensato in tutto questo tempo. Cosa faceva, rubava i depliant in Ospedale? E poi qualcosa nel suo discorso mi puzza.

- Tutto a posto, hai detto?

- Sì, esatto. Lì sotto, insomma. - dice indicando col dito il cavallo dei miei pantaloni, e poi rifugge il mio sguardo.

No. No.

No. Questo non glielo lascio fare.

- Vuoi farmi fare un’ecografia? - gli dico, strabuzzando gli occhi.

- Perchè no?

- Perchè costa, Peeta! - esclamo - costa parecchio!

Ed è così. All’ospedale del Distretto 12 ci sono queste tecnologie, ma il loro mantenimento è roba pesante. E a meno che tu non stia morendo di emoperitoneo, o altro, si paga.

Poi Peeta mi fa quello sguardo severo ma intenerito a cui non resisto. Accidenti, ha ragione lui. Ha sempre dannatamente ragione lui.

Abbiamo risparmiato sempre, possiamo permetterci questa cosa.

Annuisco. Però non gliela voglio dare vinta del tutto. E Haymitch credo si aspetti qualcosa di più, se veramente mi ha sentito urlare quelle cose prima.

Vai, dolcezza.

Di scatto bacio Peeta con foga e percorro il suo corpo tonico con le punte delle dita.

- E va bene - sussurro staccandomi - ma non potrai impedirmi almeno di portarmi avanti col lavoro.

E dal modo con cui mi stringe, mi solleva da terra, e mi riporta sul letto dove eravamo prima, credo sia d’accordo anche lui.

 

 

 

  
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