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Autore: Blackbird_    28/01/2014    2 recensioni
Emma è una ragazza di Liverpool amante dei Beatles. Semplice, introversa, chiusa in se stessa, segue un solo mantra nella vita: ‘Mi innamorerò solo quando troverò qualcuno che sia bello, talentuoso e divertente come John, Paul, George e Ringo messi insieme’. Una richiesta assurda. Non più tanto impossibile, però, quando incontra Jay, un ragazzo che, all’apparenza, è il mix perfetto dei Fab Four. Ma la perfezione, si sa, non esiste, e Jay non è di certo un’eccezione.
La storia di Emma è accompagnata dalle parole e dalle melodie del suo gruppo preferito, colonna sonora perfetta per ogni situazione che vive.
Genere: Fluff, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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In spite of all the danger
 
Salutai con un cenno Robert, il buttafuori, che con un gesto veloce aprì la transenna per lasciarci entrare. Il suo compito era quello di controllare le carte di identità dei clienti del locale, facendo entrare solamente i maggiorenni. Ormai ci conosceva abbastanza bene, però, da sapere che minorenni non lo eravamo più da un po’.
Scendemmo lungo l’infinita scalinata circolare, accolte dai numerosi murales. Le luci, dentro, erano fioche e dal solito colorito rossastro. C’era più gente del solito, l’odore della birra era forte e lo stereo passava una vecchia canzone di Buddy Holly. Quella era la felicità. Ordinammo due birre, io una chiara ed Allie una rossa, ed andammo a sederci al tavolo vicino alla vetrina con le locandine degli Who esposte. Tutt’intorno al palco c’era un grande movimento.
“Credo che ci sia il concerto di qualche band, stasera” osservai, infilando con noncuranza la fetta di limone nel collo della bottiglia che tenevo fra le mani.
“Chi l’avrebbe mai detto, non suona mai nessuno qui dentro” ironizzò Allie, guardando verso il palco.
Un ragazzo alto, moro, con due splendidi occhi azzurri e la barba folta era intento ad accordare la sua chitarra acustica, seduto su uno sgabello posizionato sul lato destro del palco. La camicia a quadri rossa e nera con le maniche strappate scopriva le due braccia interamente tatuate che abbracciavano dolcemente lo strumento, mentre le dita lunghe ed affusolate pizzicavano leggermente le corde. Muoveva la testa lentamente, al ritmo impercettibile da lui stesso prodotto. Sembrava totalmente isolato nel suo piccolo mondo tranquillo, mentre tutt’attorno a lui non era altro che confusione.
“Devo concedertelo, però, il tipo di stasera è veramente carino” ammise la mia amica, portandosi l’enorme boccale sulle labbra. Annuii lentamente, incantata da quel ragazzo con la chitarra.
Continuammo a chiacchierare delle nostre cose per un po’, mentre il locale si riempiva lentamente. Finii la birra in poco tempo, fra un discorso e l’altro. Lì dentro faceva così caldo che quel meraviglioso liquido ghiacciato era l’unica cosa che il mio corpo desiderasse, perciò mi alzai per prendermene un’altra bottiglia.
Feci la mia richiesta al barista e mi appoggiai sul bancone con entrambe le braccia. Durante l’attesa riconobbi dalle prime note With a Little Help From my Friends che era partita dallo stereo dal locale e, entusiasta come solo una canzone dei Fab Four sapeva rendermi, iniziai a canticchiarla a bassa voce. La mia performance personale, però, venne interrotta da qualcuno che, nella foga di ordinare, mi finì addosso, investendomi.
“Oh, sorry lady” si premurò di scusarsi immediatamente, spostandosi. La sua voce era calda, bassa, nasale e con uno spiccatissimo accento di Liverpool. La sua voce era quella di… George Harrison? Mi voltai, strabuzzando gli occhi.
 
Would you believe in a love at first sight?
Yes, I'm certain that it happens all the time
 
Un ragazzo biondo, coi capelli sbarazzini e dai vispi occhi grigi mi guardava preoccupato. Aveva addosso una giacca di pelle nera e teneva sulle spalle la custodia di una chitarra.
“Ti ho fatto male?” mi chiese, non ricevendo una risposta alle sue precedenti scuse.
Non avevo affatto avuto un’allucinazione: la sua voce era assolutamente identica a quella di George. Rimasi incantata a fissarlo finché non capii che, effettivamente, ancora non avevo dato una risposta alla sua domanda, né, tantomeno, alle sue scuse.
“No, no, tranquillo. Ero solo… sovrappensiero” furono le uniche parole che riuscii a mettere insieme, totalmente assorta nella mia ammirazione. In uno sprazzo di lucidità indicai le casse poste su una mensola poco distante da dove ci trovavamo, tanto per dare la colpa alla musica per la mia assenza mentale.
Quello annuì, sorridendo leggermente. “Bene” pronunciò in un sussurro, distogliendo lo sguardo dalla mia faccia inebetita. Prese le due bottiglie di birra che il barman gli stava porgendo e si diresse verso la porticina del backstage, seguito dal mio sguardo incuriosito.
Tornai sulla terra ringraziando il barman, e mi diressi nuovamente verso il tavolo dove Allie mi stava aspettando.
“Ma hai visto quant’è figo il tipo che è appena entrato nel backstage?” mi accolse euforica, indicando con lo sguardo la porticina attraverso la quale il biondino era entrato.
“Ha la stessa voce di George Harrison” dissi in un soffio, ancora incredula. Sconvolta da quella voce familiare, non avevo minimamente pensato ad esaminarlo da capo a piedi per giudicarne l’estetica, contrariamente a quanto non avesse fatto la mia amica.
“Sempre a pensare ai Beatles” sbuffò Allie, interdetta. Mi strappò la bottiglia dalle mani e ne bevve un sorso. In fondo aveva ragione, ma probabilmente non l’avrei mai ammesso ad alta voce in sua presenza.
Il ragazzo moro con la chitarra era ancora intento a provare l’accordatura appena effettuata quando lo raggiunse sul palco un ragazzo bassino e in carne, con il volto rotondo. I due si salutarono amichevolmente e poi l’ultimo arrivato prese il microfono al centro del palco ed iniziò a toccarlo per testare che fosse acceso.
“Bene, salve a tutti. Noi siamo i Nowhere Boys e stasera suoneremo per voi alcune canzoni dei Beatles” annunciò, sorridendo sornione.
Lasciò poi il microfono ed indietreggiò un poco, prendendo da dietro la grande batteria uno strano strumento, sul quale si sedette. Gli diede un paio di botte, e tutto il pubblico rimase estasiato da quel particolare genere di percussioni. Si levò un applauso spento, ma impaziente.
“Ovviamente non fatevi problemi a richiederci le vostre canzoni preferite” aggiunse il chitarrista, prima di suonare un accordo a vuoto.
Il batterista diede altre due botte al suo strumento e, da dietro le quinte, salì sul palco il biondino holavocediGeorgeHarrison di poco prima.
Iniziarono la loro performance.
 
He's a real nowhere man
Sitting in his nowhere land
Making all his nowhere plans for nobody
 
Teneva la chitarra stretta al petto, come se non volesse lasciarla andare per nessuna cosa al mondo. Talmente stretta, da rendere inutile anche l’utilizzo della tracolla. La suonava abilmente, molleggiando sulle ginocchia e battendo il piede a terra per darsi il tempo. E intanto cantava dolcemente, avvicinandosi di poco, di volta in volta, al microfono posizionato di fronte a lui.
 
Nowhere man don't worry
Take your time, don't hurry
Leave it all till somebody else
Lends you a hand
 
Si voltava, di tanto in tanto, per guardare il suo amico chitarrista. Poi tornava nuovamente al microfono, concentrato sulle parole della canzone. Talmente concentrato da tenere gli occhi socchiusi, mentre dondolava la testa da una parte all’altra scompigliandosi i capelli.
C’erano solo due parole per descrivere la perfezione della sua performance: John Lennon.
Scacciai dalla testa i miei strani pensieri: nessuno era come John Lennon, e probabilmente nessuno lo sarà mai più stato. E quel ragazzo di certo non poteva fare eccezione.
Mi imboscai nei meandri delle peggiori teorie del mondo per giustificare la mia mente che, incondizionatamente, aveva paragonato il mio Beatle preferito a quell’anonimo cantante di cover band. In quanto tale, aveva l’obbligo di comportarsi esattamente come uno qualsiasi dei Fab Four: questa fu l’unica scusante attendibile che riuscii a formulare.
 
He's as blind as he can be
Just sees what he wants to see
Nowhere man, can you see me at all
 
Vederlo suonare era davvero un piacere per gli occhi, dovevo ammetterlo. E lì, su quel palco, si poneva esattamente nel modo giusto per essere studiato ed osservato. Era alto, slanciato, con dei jeans chiari molto stretti ed una camicia gessata a definirne meglio i lineamenti.
“Avevo ragione, no?” mi domandò Allie, avvicinandosi al mio orecchio per farsi sentire nonostante la grande confusione.
Pur di non dargliela vinta, alzai le spalle poco convinta e le sorrisi.
Non le avrei mai e poi mai confessato che quello strano tipo stava iniziando a causare delle strane reazioni nel mio stomaco. La realtà era che lo ammettevo difficilmente anche a me stessa, dando la colpa, ancora una volta, a qualcos’altro. Guardai la mia bottiglia di birra mezza vuota. Probabilmente era tutta colpa dell’alcool. La porsi alla mia amica e la intimai a finirla al posto mio.
La prima canzone terminò in uno scrosciante applauso.
Erano bravi, tutti e tre. Talmente bravi da conquistare tutto il pubblico del pub con una sola canzone. Talmente bravi da convincere Allie a restare al Cavern ancora per qualche tempo. Talmente bravi da strappare un sorriso ed un applauso caloroso anche a me, la persona più critica del mondo in questione di cover band del mio gruppo preferito.
“Ora che ci siamo scaldati non ci ferma più nessuno” urlò il batterista che, non munito di microfono, era costretto ad alzare la voce per poter essere ascoltato da tutti quanti. Gran parte del pubblico rise, qualcuno dal fondo urlò qualcosa di incomprensibile.
Il cantante, nel frattempo, prese da una mensola nascosta dalla colonna al lato del palco due bottiglie di birra, probabilmente le stesse che aveva acquistato poco prima al bar, e ne porse una all’amico chitarrista. Si voltarono entrambi verso gli ascoltatori alzando il braccio per un brindisi, e bevvero una grande sorsata.
Posate nuovamente le due bottiglie al loro posto, il ragazzo dalla barba folta tossicchiò leggermente, diede due colpi a terra col piede e, tutti e tre, cominciarono a suonare la loro seconda canzone.
 
In spite of all the danger
 
Sorpresero tutti con una vecchia canzone dei Quarryman ma, nonostante tutto, vennero apprezzati fin dalle prime note.
Il biondino continuava a suonare appassionatamente la sua chitarra, molleggiando sulle ginocchia e cantando ad occhi socchiusi. Non appena mi resi conto di essermi nuovamente imbambolata ad ammirarlo, cercai di cambiare soggetto.
Lasciai cadere lo sguardo sul piccoletto che suonava quello strano strumento molto simile ad un tamburo rettangolare. Continuava a suonare guardando i suoi due amici e compagni di avventure, sorridendo di tanto in tanto. Mi stupii nel notare che era lui a fare i cori nelle canzoni. Durante tutta la canzone precedente ero stata talmente distratta da non accorgermene minimamente. Le guance paffute e le sopracciglia estremamente espressive lo rendevano un ragazzo apparentemente simpatico e alla mano. Ma, nonostante la sua agilità nel suonare quel tamburo strampalato mi avesse incantata, non riuscii a mantenere lo sguardo su di lui per più di trenta secondi.
Fu una dura battaglia contro l’istinto e contro me stessa non voltarsi nuovamente verso il cantante del terzetto.
Mi concentrai, anzi, verso il moro con la barba. Dovetti dare ragione ancora una volta ad Allie: quel ragazzo così particolare, dall’aria terribilmente misteriosa, era sorprendentemente bello. Suonava il proprio strumento con facilità e naturalezza, sorridendo debolmente ad ogni persona seduta ai tavoli sotto al palco.
 
In spite of all the heartache,
That you may cause me
 
Con l’inizio della nuova strofa non potei fare a meno di tornare ad ammirare il cantante della band. Nonostante tutto il dolore che questo avrebbe potuto causare al mio cuore freddo.
Mi ritrovai a sorridere come una sciocca nel vederlo ancora molleggiare sulle ginocchia e battere i piedi a terra. Le mie giustificazioni non avevano quasi più valore, nonostante cercassi di difenderle con le unghie e coi denti. Non sembrava affatto un’imitazione di basso rango di John Lennon, una persona dai comportamenti caricaturizzati pur di compiacere al pubblico del locale più famoso del mondo. Sembrava semplicemente se stesso. Suonava in quel modo come se fosse la cosa più naturale del mondo, come se fosse l’unico vero modo di suonare e cantare. Era autentico, vero, e sembrava tutto e per tutto uguale a John Lennon.
Il cuore perse un battito e riprese a velocità accelerata. Mi portai le mani al petto, spaventata. Ne era passato di tempo dall’ultima volta che avevo sentito quella strana reazione. Erano anni che non sentivo il cuore accelerare in quel modo a causa di qualcuno.
“Stai bene?” mi domandò Allie, notando la mia aria spaesata e distratta.
“Certo” la rassicurai.
Notai che teneva ancora in mano la mia bottiglia di birra che, all’apparenza, conteneva ancora un po’ del suo contenuto. La ripresi senza fare troppi complimenti –inutili, dato che, dopotutto, la bottiglia l’avevo comprata per me- e bevvi lo scolo che era rimasto. Al diavolo, un goccio di birra in più non mi avrebbe di certo cambiato la vita.
Anche questa canzone terminò con un sonoro applauso, accompagnato da qualche fischio d’apprezzamento.
Sentivo lo stomaco scombussolato ed un gran caldo. E sperai, ancora un volta, che fosse tutta colpa delle due bottiglie di birra appena bevute. Sperai che si trattasse della cena troppo pesante e delle temperature eccessive del locale. Potevo sperare di tutto, ma più fissavo quel ragazzo biondo sul palco –con la voce di George Harrison e con le movenze di John Lennon- più mi rendevo conto che la causa dei miei problemi fosse lui.
Detestavo provare certe cose per una persona vista a malapena, per una persona che nemmeno conoscevo. Il mio orgoglio e la mia determinazione mi imponevano di smettere di comportarmi come una perfetta idiota, come una stupida teenager alle prese con una improvvisa crisi ormonale. Eppure, per quanto provassi a smettere di guardare ammirata quel cantante, il suo volto, i suoi occhi, le sue mani sulla paletta della chitarra erano come un magnete a polo positivo. Ed io ero quello negativo, irrimediabilmente attratta da tutto ciò.
Soluzioni per fuggire da quel pasticcio non sembravano esserci.
“Vogliamo andare?” fu l’unica cosa che mi venne in mente. Fuggire, in quel momento, sembrava l’idea più allettante del mondo.
“No di certo, vedere questi due bei ragazzi che suonano mi basta e avanza come intrattenimento della serata” si rifiutò la mia amica, del tutto inaspettatamente.
Perfetto. Ero intrappolata. Il pub più bello del mondo era improvvisamente diventato la mia prigione dorata. Allie aveva assunto del tutto l’aspetto di una carceriera. E le canzoni del mio gruppo preferito erano la tortura peggiore che potessero infliggermi.
 
Oh, yeah, I'll tell you something
I think you'll understand
 
Quando attaccarono con I want to hold your hand mi morsi il labbro. Mi sentii esageratamente catastrofica e pessimista. La mia idea era confermata: ero una perfetta idiota. Perché creare tutto quell’allarmismo per uno sciocco scombussolamento allo stomaco, un po’ di caldo e il battito accelerato?
Dopotutto, non stavo affatto perdendo la testa per quel tipo. Stavo semplicemente… apprezzando? Il mio era sempre un stato un voto particolare a non innamorarsi mai di nessuno, a non affezionarsi troppo a nessun ragazzo. Tutto ciò non implicava di certo lo smettere di guardare i bei ragazzi.
Tutte scuse, Emma, tutte scuse.
Non è possibile innamorarsi di uno sconosciuto appena incontrato. Di questo, per lo meno, ne ero più che certa.
 
When I say that something
I want to hold your hand
 
“Secondo te come si chiama?” mi chiese Allie, distogliendomi dai miei pensieri apocalittici.
Non afferrai direttamente il soggetto di quella domanda e lei, ridacchiando, mi indicò il chitarrista barbuto.
Ci pensai un po’ su. Quel tipo così particolare era degno di un nome altrettanto particolare.
“Io direi Cameron, per gli amici Cam” sostenni, serissima, guardando la mia amica.
Quella annuì leggermente, indecisa se replicare o meno.
“Sì, Cam mi piace. Il biondino invece?” riprese.
Evitai di voltarmi per vederlo ulteriormente mentre cantava per evitare di dare mostra ad Allie dei miei dissidi interiori.
“Non saprei, ha una faccia anonima” replicai, alzando le spalle.
“Secondo me si chiama Richard” continuò la mia amica, poggiando i gomiti sul tavolo e lanciando un’ulteriore occhiata ai tre ragazzi sul palco.
“Perché Richard?” domandai, sinceramente curiosa.
“Non saprei, il modo in cui scuote la testa mentre suona mi ricorda troppo Ringo Starr” rispose distratta, mimando il modo di scuotere i capelli tipico dell’atteggiamento del batterista dei Beatles.
Ringo Starr? Il mio sguardo piombò nuovamente sul palco. Il modo di ciondolare a destra e a sinistra la testa assomigliava, effettivamente, al modo in cui era solito comportarsi Richard Starkey sul palco.
Scoppiai a ridere. Una risatina isterica, per niente divertita. Non gli bastavano la voce di George e le movenze di John: ora dalla sua parte aveva anche quel buffo tic di Ringo.
“Il batterista, invece?” proseguì Allie.
Grazie al cielo non aveva notato la punta di isteria nella mia risata e aveva continuato tranquillamente il nostro discorso.
“Hugo” sparai.
“Hugo?” domandò.
“Hugo” ripetei, scoppiando a ridere.
“Ma che razza di nome è Hugo?” iniziò a ridere anche lei.
“Non saprei, ma quelle guanciotte grasse mi ispirano quel nome” mi giustificai, ridendo quasi fino alle lacrime.
 
It's such a feeling that my love
I can't hide
 
Più li ascoltavo più mi rendevo conto di quanto fossero straordinariamente bravi. Era diventato quasi impossibile nascondere la mia ammirazione nei loro confronti. Ormai incapace di dominare l’istinto, tornai a guardare i ragazzi che cantavano a suonavano, alla ricerca di nuovi piccoli dettagli da osservare e studiare.
Ero sempre stata una maniaca dei dettagli, delle piccolezze, e il mio spirito d’osservazione era sempre stato molto sviluppato.
Ammirai ancora una volta il modo in cui ‘Hugo’ colpiva lo strumento con botte secche e decise, alternando i colpi e i battiti di mani. Quando colpiva il centro si udiva un suono sordo, potente, ritmico. Le botte agli estremi di quel buffo aggeggio, invece, producevano un suono acuto e quasi sabbioso. Riusciva a tenere il tempo in maniera impeccabile, donando un ritmo di sottofondo davvero particolare e piacevole.
Mi morsi il labbro, poi, quando spostai lo sguardo verso il fantomatico ‘Richard’. Dovevo ammetterlo: quel ragazzo era tutto fuorché anonimo, come lo avevo descritto pochi minuti prima. Me ne ero pentita un attimo dopo averlo detto ma, dopotutto, conoscendo abbastanza Allie, forse era stato meglio così. Probabilmente non sarei mai rimasta così affascinata da un ragazzo anonimo. In quel modo poteva essere classificata una buona parte –i due terzi o giù di lì- della popolazione maschile liverpooliana della mia età, e, mi doleva ammetterlo, né ‘Richard’ né ‘Cam’ facevano parte di questa ampia percentuale.
Finirono I want to hold your hand in dissolvenza, proprio come nella canzone originale, e si inchinarono tutti e tre per ringraziare del grande applauso che stavano ricevendo
.


 

Angolo dell'Autrice:
Come promesso, eccomi puntuale ad aggiornale questa storia :) Le cose iniziano a farsi più interessanti ed io inizio a vergognarmi di quello che sto pubblicando... da morire! In ogni caso, le canzoni presenti in questo capitolo sono: With a Little Help from my Friends, Nowhere Man, In Spite of All the Danger e I Want to Hold Your Hand... ovviamente tutte dei Beatles! Penso sia abbastanza ovvio che, invece, la canzone del prologo fosse Chains, nonostante non abbia specificato :)
Se vi va, fatemi sapere cosa ne pensate...
Alla settimana prossima,
Julia
   
 
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