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Autore: tagliarsi_con_gli_origami    28/01/2014    9 recensioni
Louis Tomlinson vuole morire.
Harry Styles non abita da nessuna parte.
Harry e Louis si incontrano un martedì mattina a King's Cross.
Quella mattina era martedì, e Louis Tomlinson aveva pestato la punta di gomma di una Converse bianca mentre strascicava i piedi distratto fra i binari 9 e 10, pensando che buttarsi da lì sarebbe stato anche genialmente pop.
Se Harry non si fosse voltato - quella mattina, quel martedì, alle dieci e dodici minuti, mentre Banjo gettava la sigaretta nel cestino dei rifiuti - per urlargli contro, probabilmente in questa storia non esisterebbe un mercoledì.
“Hei!” non sapeva nemmeno perché aveva urlato, Harry, che era uno che si faceva gli affari suoi anche se lo minacciavano con una pistola alla pensilina dell'autobus.
“Oops, scusa”
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Harry Styles, Liam Payne, Louis Tomlinson, Zayn Malik
Note: AU | Avvertimenti: Contenuti forti
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- 5 e un po' ahahahh



 
Introduzione: questa OS nasce come side story della mia long Ziam "Di 12 passi due non li ricordo, negli altri ho inciampato", ma può essere comodamente letta senza aver letto anche la long. I Liam e Zayn che compaiono qui sono "quegli" Ziam, ma per il resto non c'è niente che sia scritto nella long che non sia scritto anche qui^^
La tematica del suicidio, il modo in cui l'ho trattato, forse può sembrare facile e raffazzonato, ma ho semplicemente cercato di parlare di personaggi, di persone che si sentono in un determinato modo, non di tutti gli adolescenti che si tolgono la vita. Perchè nessuna storia è uguale.
Questa è la mia, è la loro.
Spero vogliate scoprirla.
Buona lettura^^








 
Scarabocchi recidivi su sfondo bianco.





 
Ti stavo aspettando, Nemo, anche se non me ne rendevo conto. 
E ora che ti ho incontrato, che tu sei qui, e il nostro tempo 
e il nostro spazio si sono incrociati, 
non lascerò che tu rientri nel nulla, 
che tu scompaia nel vasto mondo. 
Ho tante cose da dirti, tante. 
Dovrò trovare il coraggio.
(L'angelo nero, Antonio Tabucchi)


Lunedì

Da piccolo pensava che la vita sarebbe stata sempre uguale. Si svegliava nel panico, la notte, gli occhi invasi dal suo terrificante ventunesimo compleanno. 
Essere adulto e non poter più piangere senza motivo, solo per sentirsi meno pesante.
Conservare le ricevute delle bollette in un quaderno a ganci con la copertina blu.
Ricordare le cose, e non considerare il timer del forno a microonde un richiamo per la cena.
Ridere solo per le battute che facevano ridere gli altri.
Mangiare, dormire. Amare come dicevano gli altri. Chi amavano gli altri.
Smettere di essere inappropriato, di camminare scalzo in piscina. 
Lavarsi dietro le orecchie e in tutti gli anfratti.
Andare bene per il mondo.
Essere importante, felice.
Tutti volevano essere felici, e guardare il sole, e rassicurarsi del fatto che nemmeno nel 2012 era finito il mondo, e il surriscaldamento globale avrebbe annegato metà della Terra solo di lì a cento anni, ma loro non ci sarebbero più stato, perciò chissenefrega.
Dispiace a tutti per  i figli e i nipoti, ma in fondo chissenefrega.
Dispiace anche a tutti per l'Olocausto, ma tanto nessuno di loro c'era, quindi alla fine chissenefrega.
Poi è cresciuto, e la vita è rimasta uguale. Lunghi, perforanti giorni uguali di lezioni, allenamenti in palestra, viaggi in autobus e cibo, tanto cibo, cibo per tutti, tanti, biondi e confusionari cuccioli di Tomlinson.
Ad un certo punto sua madre ha dimenticato di chiedergli se mangiava davvero.
E ha dimenticato di chiedergli perché non parlava più, e non cantava più in bagno, e non si cambiava mai la maglietta, e tornava a casa a piedi, e a volte non tornava affatto.
Capita, forse, alle persone con tanti figli.
E ai professori con le occhiaie, e tutta quella passione da Attimo Fuggente che svanisce, e rimangono solo vagonate di caffè depresso in Sala Professori, capita di non accorgersi dei ragazzi che camminano lentamente, non rispondono alle domande, non li guardano mai.
Bevono solo Yorkshire Tea.
Forse capita anche agli amici, ma in ogni caso Louis non ne aveva mai avuti molti. Solo Stan, ma Stan aveva smesso di farsi vedere con lui, da quando era successo.
Ad un certo punto, fissando il soffitto cosparso di stelle fosforescenti al buio disposte a spirale, aveva smesso di chiedersi se c'era davvero in palestra, alla sesta ora, quel pomeriggio di marzo, se lo aveva baciato davvero Stan, o se invece era stato lui. Ma a nessuno fregava più, come in un brutto film sugli adolescenti complicati, di chi avesse cominciato, perché solo sulla sedia di Lou c'era scritto FROCIO con il pennarello indelebile.
E ad un certo punto aveva smesso solo di esistere, ed era scomparso.
È incredibile quanto è affollato, a guardarlo da dentro, il mondo degli scomparsi.
Il dottore aveva detto che la sua era stata una richiesta d'aiuto, ma non è vero.
Lo dicono tutti, quando un adolescente prova ad uccidersi, che è stato il suo ultimo, disperato, grido d'aiuto, ma non è vero.
Louis voleva morire, e basta.
Scomparire davvero.
Smettere di esistere, esserci. Di camminare fino a scuola, sedersi dietro un banco e imparare che ci sono stati uomini che hanno fatto la storia del Regno Unito. Esempi da seguire, e da emulare.
Uomini coraggiosi, brillanti, generosi, patriottici, stabili ed eroici.
Non essere nessuno. Non aspirare a niente. 
Il mondo vuole essere felice per forza, non Lou. 
Lui voleva solo morire.

Marks a battle, still felle row,
a million pieces of me on the floor.
I'm dameged goods for all to see,
now who would ever want to be with me?
(Exit Wounds, The Scripts)


Martedì

Quando Louis Tomlinson ha accarezzato con la mente l'idea di uccidersi per la seconda volta, era a King's Cross. Ha pensato che sarebbe stato poetico, evocativo e un po' vanitoso, tremendamente anni '90 e un po' auto celebrativo, buttarsi sotto un treno alla stazione di King's Cross. Aveva ancora le fasciature ai polsi, e poco sangue nelle vene, e ancora voglia di morire.
Non desiderava morire con tutto se stesso, come se la disperazione gli avesse rosicchiato gli angoli del cuore, ma ne aveva voglia.
La voglia che hanno tutti, una volta o l'altra, ma che lasciano scappare via piangendo in bagno o ascoltando canzoni tristi.
Perché tutti stanno da schifo, e c'è gente che scrive canzoni sullo stare da schifo.
È il modo giusto di essere depressi e voler morire.
Louis non era mai depresso nel modo giusto, ma ci aveva provato davvero a morire.
Forse il mondo, il mondo che voleva essere felice, si sarebbe fatto due domande.
Ma quello era un martedì, e il martedì Harry Styles faceva colazione con Banjo, un portoricano transessuale che batteva sulla Romilly dalle nove alle nove, e poi saliva sulla Piccadilly in direzione Oakwood fino a King's Cross, per scolarsi due caffè doppi con doppia panna e cannella, e tre bagel. Se era stata una nottata redditizia, due li portava a casa.
Quella mattina era martedì, e Louis Tomlinson aveva pestato la punta di gomma di una Converse bianca mentre strascicava i piedi distratto fra i binari 9 e 10, pensando che buttarsi da lì sarebbe stato anche genialmente pop.
Se Harry non si fosse voltato - quella mattina, quel martedì, alle dieci e dodici minuti, mentre Banjo gettava la sigaretta nel cestino dei rifiuti - per urlargli contro, probabilmente in questa storia non esisterebbe un mercoledì.
“Hei!” non sapeva nemmeno perché aveva urlato, Harry, che era uno che si faceva gli affari suoi anche se lo minacciavano con una pistola alla pensilina dell'autobus.
“Oops, scusa”
Forse una volta nella vita doveva capitargli di incontrare qualcuno impossibile da ignorare.
Non erano i suoi occhi, o le spalle curve, o il taglio di capelli da bravo ragazzo che faceva la doccia tutti i giorni e imbrattava il bagno d'acqua e asciugamani fradici.
E nemmeno i polsi fasciati.
Impressionavano gli altri, e colpivano i pendolari come una spallata, e attiravano sguardi, e le espressioni di chi guarda sempre il mondo come se tutto lo riguardasse, e avesse sempre bisogno di un'opinione.
Come se quel ragazzino con una maglietta troppo grande per il corpo che aveva, e che si stava rompendo, si fosse permesso di mostrare quel prurito cauto che tutti hanno, una volta o l'altra, di fregarsene di quanto è preziosa la vita e stare da schifo una tacca sopra il socialmente accettato.
Ma non Harry. Non era nuovo, Harry Edward Styles, alle ferite coperte di chi sanguina sempre.
Forse ora saprebbe dire cosa lo ha colpito, quel martedì mattina di agosto, alle dieci e tredici minuti, di Louis Tomlinson.
Le sue assenze.
“Oops? Chi dice ancora Oops nel 2014? Se lo sono lasciato scappare da una scuola cattolica?” 
A Banjo sfuggivano le simmetrie, ogni tanto, e Harry faceva finta di non ascoltarlo, qualche volta, perché gli zuccheri e la caffeina erano un'accoppiata micidiale associati alla stanchezza di quasi dodici ore filate di richieste folkloristiche da parte dei clienti più disparati.
Harry era stato abbordato una volta soltanto, e non ci teneva a raddoppiare.
Non era uno da sveltine in piedi nei bagni della stazione, e pompini sul sedile anteriore di un'utilitaria con il crocifisso appeso allo specchietto retrovisore, e tracce di mogli e figlie sparse sul cruscotto.
Banjo sì, e facevano colazione insieme ogni martedì mattina, tutti i martedì mattina da quando gli aveva offerto un materasso steso a terra la notte di Natale dell'anno prima, regali che Harry non aveva aperto, finestre che non aveva richiuso, vestiti lasciati nella naftalina della sua terza famiglia affidataria in tre anni.
A febbraio Harry aveva compiuto diciotto anni, ed era diventato un'assenza.
Nel sistema, nel suo file archiviato come “Scomparso”, nelle due fotografie appiccicate al frigo dei suoi stanchi patrigni stressati e delle sue matrigne esaurite e annoiate. Harry si sistemava sempre all'esterno, perché fosse più facile strapparlo via, alla fine.
Tagliato via dalle foto e timbrato nei registri.
Un'assenza.

I'm not here.
In a little while i'll be gone.
The moment's already passed...
(How to disappear completely, Radiohead)


Mercoledì

Harry Styles non tornava mai a King's Cross due giorni di fila. Agli addetti alla sicurezza non piaceva vederlo gironzolare intorno ai parenti in lacrime e i capannelli urlanti di turisti ossessionati dal suo binario, la lingua di marciapiede fra il 9 e il 10, dove i ragazzini di dieci anni si scattavano selfie da postare su Instagram prima di prendere il loro Espresso per Hogwarts immaginario.
Non era un'attrazione piacevole Harry, non così vestito, con i jeans strappati e le t shirt bucherellate su tatuaggi artigianali. Non con l'odore da adolescente pieno di ormoni che non poteva lavarsi frequentemente ad impestare gli addii degli altri, e i “Benvenuto”.
Il tacito accordo di ospitalità prevedeva un paio di giorni di pausa, un'altra stazione in cui dormire, una panchina d'estate, un portone d'inverno, o anche niente, ma che non si mettesse troppo comodo, a King's Cross, perché non ci mettevano né uno né due, i sorveglianti, a sbatterlo fuori a calci in culo.
Quello diceva lo sguardo appesantito da palpebre cadenti e sopracciglia quasi bianche dell'agente di polizia di turno quella mattina.
Non la faccia da “Tu sei un mago Harry” che avrebbe voluto, questo è sicuro.
Ma lui era lì, vestito uguale, spaesato uguale, pronto a pestare i piedi a qualcuno di meno psicopatico di Harry, qualcuno che non lo avrebbe notato, perché aveva le mani in tasca e i polsi nascosti, e la gente ti nota solo dopo morto, o quasi, si sa.
Diventano tutti solari adolescenti adorabili, nel quartiere, quando crepano.
Prima è tutto un “Io alla tua età lavoravo con mio padre, mica come te che non fai un cazzo, e sei sempre attaccato al quel computer di merda”.
Ragazzi modello, come no.
Non aveva sentito davvero la sua voce, prima, in quell'Oops impacciato e masticato fra i denti a testa bassa.
Era stato strano ascoltare la nota alta che riusciva a raggiungere ridendo.
Perché sapeva anche ridere, ha scoperto questo, Harry Styles, di Louis Tomlinson, quel mercoledì pomeriggio alle tre e trentotto; sapeva ridere fortissimo, raggiungendo quella tonalità fastidiosa che non si attribuirebbe mai ai tentati suicidi.
Così forte che le persone si voltavano a guardarli, e non li trovavano carini, romantici, o teneri. 
Forse sporchi e soli, un po' meno soli, più insieme.
Forse li fissavano solo per chiedersi come potesse essersi massacrato le vene dei polsi un ragazzo così bello, che sapeva ridere così forte.
Le persone che vogliono morire non ridono, si sa.
Gli ha scarabocchiato le bende, perché Louis cominciava a fissarle troppo a lungo, e troppo seriamente, malinconico, come se gli mancassero i punti che tiravano e il dolore formicolante della circolazione che riprende a scorrere.
Ha avuto paura di quelle fasce di lino Harry, perché non lo tenevano più insieme.
Oops!
Un aeroplanino di carta, una tazza di the.
Gli ha chiesto perché volesse una tazza di the disegnata sulle bende, e Louis gli ha promesso che lo avrebbe scoperto, forse, se fosse tornato lì il giorno dopo.

And true love waits in haunted attics,
and true love lives on lollipops and crisps.
(True Love Waits, Radiohead)


Giovedì

L'ha baciato giovedì, con il pennarello sulle bende che un po' sbiadiva nella stoffa.
Il suo fiato sapeva di the appena bevuto, quello di Harry di chewingum alla menta. Le persone hanno continuato a camminare, non si sono nemmeno girate, quella volta, perché dell'amore raramente si accorge qualcuno.
È rotolato Stan dalla bocca di Louis, e un fratellastro con le mani lunghe, che ascoltava Guns'n'Roses e si masturbava davanti a lui a tredici anni, da quella di Harry.
Louis ha sentito il freddo della stazione d'inverno, Harry il terrore di avere ventun anni nei sogni di Lou.
Aveva una madre, Harry, una volta, che sistemava sui comodini pupazzi pelosi sempre puliti, perché la sua asma da piccolo rischiava di ucciderlo ogni cinque minuti, per proteggerlo nel sonno. Diceva che i sogni fanno paura davvero, e vanno presi sul serio, perché è nella testa che si nascondono i mostri peggiori.
Non ha saputo cosa volesse dire davvero prima di quel giovedì.
Louis li aveva coagulati nel sangue, i suoi mostri, e quello che aveva macchiato il tappeto del  bagno al piano di sopra, un sabato sera che nessuno era in casa, non era bastato a scacciarli.
Forse sarebbero sempre rimasti lì, ma Harry non ci aveva creduto quel giovedì alle quattro e cinquantanove, mentre Louis scarabocchiava una saetta sulla sua fronte.
Era il “Tu sei un mago Harry” che aveva sempre voluto ascoltare da qualcuno.
Lo aveva baciato di nuovo, e il suo fiato sapeva di menta.

I wanna sing, I wanna shout
I wanna scream till the words dry out
so put it in all of the papers,
i’m not afraid
they can read all about it
(Read all about it, Emeli Sande)

Venerdì

Venerdì era il giorno di Liam, e Louis si sentiva in salvo mentre beveva lentamente il suo the freddo. Era agosto e Liam sembrava in un altro posto.
Non era felice, ma nessuno lo è mai davvero.
Stringeva il suo gettone degli AA, anche se Lou sapeva che aveva tradito la promessa dopo più di un anno.
Forse non stringeva la moneta per se stesso, forse batteva i tacchi due volte per tornare a casa.
Nessun posto è come casa.
Lo diceva la sua espressione quando Zayn è arrivato, e Louis è stato geloso per un attimo, un attimo lunghissimo fatto di chiarezza e certezze. 
Lou sapeva riconoscere gli Scampati, alla morte, al disastro, all'autodistruzione, e loro erano lì, scampati a tutto.
Non erano il “Per ora” della sua storia, ma un vago, accennato e scoordinato “Per sempre”.
Anche un giorno era per sempre, per Louis Tomlinson.
Harry aveva rubato un cd quel pomeriggio, e l'allarme antitaccheggio per poco non li aveva fregati. Avevano ammazzato due ore tentando di rompere la sicura senza sfasciare l'album dei The Smiths, con Harry che cantava ogni canzone scarabocchiata sullo sfondo rosso di Louder Than Bombs.
Louis aveva amato Morrisey al primo ascolto, nel vecchio lettore cd delle medie, quella sera, e aveva capito che avrebbe detto addio al mondo solo dopo l'ultima nota di Asleep.
A Harry mai, perché non poteva spezzare quel legame mistico fra lui e la sua canzone preferita.
Ma voleva svanire così, Louis Tomlinson, insieme ad un carillon che si spegneva stropicciato.

Don't try to wake me in the morning
'casue i will be gone.
Don't feel bad for me, I want you to know...
Deep in the cell of my heart
I will feel so glad to go...
(Asleep, The Smiths)


Sabato

Louis aveva deciso che lui non sarebbe stato per sempre.
Era sabato, e pioveva. Non era triste, ma era arrivato il momento.
Non poteva farlo senza Harry, e non avrebbe strappato i lembi di sé che aveva ricucito. Lo avrebbe fatto in un modo diverso, pulito, perché Harry doveva esserci, e non poteva ricordarlo coperto di sangue, o con la faccia blu, o gonfio come un pallone.
Doveva ricordare la menta e il the, l'odore dell'inchiostro nero della penna sulla fronte, il sudore e l'ammorbidente.
Ciambelle e caffè che non avevano bevuto, ma apparteneva a King's Cross come l'odore dei freni delle carrozze, il piscio dei barboni e l'asfalto. 
Come il binario 9 e ¾ scarabocchiato sul pilastro.
Come tutti gli scarabocchi su sfondo bianco delle sue bende, arrotolate ai polsi, calde e avvolgenti.
Pronte a lasciarlo per diventare un regalo.
Sbiadiamo, e scompariamo, ma da qualche parte resta qualcuno che di noi ha imparato a memoria tutte le canzoni.

To rearrange all this thoughts
in a momenti is suicide.
Come to a strange place
we'll talk over old times
we never spied.
(Sebastian, Venus in Furs)


Domenica

Harry era in ritardo quella domenica notte, quel passo più lungo della gamba fra il riposo e il detestabile lunedì. Non era forse nemmeno più domenica quando l'ha visto fermo sulle due piastrelle che erano diventate palcoscenico, sipario e dietro le quinte.
Ha notato tutto, camminando verso di lui. 
Dalla prima all'ultima battuta di arresto del suo respiro.
Lo ha scrollato, perché aveva appena imparato a non essere solo, Harry Styles, e a lasciarlo andare senza tirarlo per i capelli fino all'ultimo fottuto battito di cuore, non ci pensava proprio.
Ma Louis ha sorriso piano.
Così piano che nessuno si è voltato.
“Non ci riesci neanche tu a tenermi qui Harold”
“Io mica ti ci voglio qui. Qui fa schifo...dobbiamo andare in un altro posto. Un altro posto sai? Su quel cazzo di treno dove volevi salire, non so nemmeno dove va, ma io voglio andarci con te, quindi devi stare bene” 
Bene...
“Lasciami stare Hazza, lasciami dormire”
Dormire.
Ha pensato che forse i The Smiths non avrebbe dovuto farglieli conoscere. 
O forse sì, perché il Louis di Morrisey sarebbe rimasto, scarabocchiato su un vecchio cd masterizzato, e fra le righe di Asleep, e nell'impasto di ironica disperazione e malinconico entusiasmo della voce di Morrisey. 
Resta ancora.
Li ha aspettati in piedi, Harry Styles, fra i binari 9 e 10 di King's Cross, per sette minuti e ventidue secondi. 
Si è permesso di piangere dopo dodici minuti e tredici secondi che l'ambulanza è andata via, con Liam seduto dietro, e Zayn che è rimasto lì.
Ha pianto per due minuti e sette secondi, Zayn ancora a due passi da lui. Due, non ci avrebbe impiegato più di un secondo a distruggerli, ma li ha lasciati intatti.
Non si è mosso Harry, fino a quando non si è lasciato cadere. Le gambe penzolavano sul binario, le Converse bianche che aveva addosso quando è scappato, e non si sapeva di che colore fossero già allora, sfioravano quasi il metallo.
Il ragazzino che voleva morire c'era riuscito.
Gli era venuto da ridere, improvvisamente, così forte che se ci fosse stato qualcuno, distratto, assonnato, disperato e svogliato, si sarebbe chiesto perché tanto dolore potesse diventare riso.
L'aveva sempre saputo che Louis Tomlinson avrebbe fatto come voleva.
Per questo Morrisey, sette giorni a King's Cross, gli scarabocchi sulle bende.
Louis Tomlinson doveva svanire nella morte morbida di un carillon.
Le bende erano arrotolate accanto a lui, strani ghirigori che sembravano quasi avere senso nel non averne alcuno.
Oops! Un aeroplanino di carta, una tazza di the.
Un omino stilizzato in skateboard, perché davvero Harry non sapeva disegnare più di quello.
L'album dei The Smiths, quello originale, un Hi! scarabocchiato sopra.
Non un addio, quello mai, Harry non gliel'avrebbe mai perdonato.
Ha trovato un posto per Louis, sulla sua pelle, Harry Styles, mille posti diversi, appena sotto l'epidermide e più a fondo, e ride sempre troppo forte quando pensa a lui, perché Lou deve mai più essere uno Scomparso.
E alla fine, ogni volta che Liam e Zayn scivolano accanto a lui sul divano la sera, Louis resta scarabocchiato addosso a tutti loro, come il testo di una canzone che sanno a memoria.
Perché mica tutti possono vivere per sempre felici e contenti.
O vivere per sempre.
O vivere.

Down by the people if they let you breathe,
Don't give a damn if you still can't see.
Still my heart beats for you.
(Broken, Jake Bugg)












































Note a margine. 
Non c'è molto da dire su questa OS. Se non delle scuse, perchè veramente, nella vita, mai avrei immaginato che sarebbe successo, che avrei "ucciso" Louis Tomlinson, che avrei "costretto" Harry Styles a vederlo morire.
Che due personaggi come quelli che sono dentro questa storia non avessero un lieto fine, non mi è mai capitato. Perchè di solito sono disadattati, stanchi, patetici e tristi, ma insieme sono meglio, alla fine, in qualche modo disagiato, si salvano.
E invece qui non succede. 
E boh, mi farebbe piacere sapere che cosa ne pensate, perchè davvero è la prima volta che mi capita una cosa così, e spero non mi ricapiti più.
Eva, grazie, non solo per il banner.


 
   
 
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