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Autore: Tallis    10/06/2008    7 recensioni
Il momento di gloria di un bambino, sul finire della rivoluzione industriale.
Genere: Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Il Novecento
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Ciao

 

Futura umanità

Tu forse ti ricordi di quando vi portavano fuori dalla scuola a due a due, per mano, con una maestra a un capo della fila ed una all’altro capo. Eh, lo so come si sentono i bambini in quelle occasioni; esaltati per la novità, saltellano euforici, anche se si tratta di fare due passi fino alla chiesa del paese o fino al cinema. Ma sono io a non ricordarmi come mi sentivo, il giorno che me ne andai di casa, e i nostri genitori ci portarono giù alla stazione fino al treno per New York.

Eccitato, non credo; euforico, meno che mai. Per queste cose ci vuole energia. Ti sento già dire: ma i bambini ne hanno da vendere, di energia. Sono fatti per correre e saltare, e non fermarsi mai fino a sera. Lo so. Lo sapevano anche i padroni. Per questo ne impiegavano tanti, di noi. Per questo, stavamo lì undici ore al giorno. Per questo, e non solo, un giorno i nostri genitori ci misero su quel treno.

Un mese di sciopero per il pane e le rose, e nonostante facessimo del nostro meglio per aiutarci a vicenda, senza paga non potevamo nemmeno mangiare. I padroni sapevano anche questo: un operaio può sfidare il pericolo della morte per fame, se è abbastanza arrabbiato, ma difficilmente potrà sopportare la vista di suo figlio che diventa ogni giorno più magro e pallido, delle sue occhiaie che si fanno più scure e della tosse che scuote ogni giorno di più i vestiti vecchi.

Furono le donne a trovare una via d’uscita, come sempre. Le donne non si bruciano, e non s’incaponiscono. Le donne sono come l’acqua che si accumula per decenni dietro una roccia, e poi la fa saltare tra mille schizzi e schegge; oppure sono come le gocce che si fanno strada attraverso il legno, aprendo una via dove nulla sembra poter passare. “Non siamo soli!”, urlò la ragazza ribelle, ed allora sapemmo che ci avrebbero tenuti a New York, al sicuro finché i nostri genitori e le nostre sorelle grandi non l’avessero avuta vinta. “Non siamo soli!”, e sapemmo che anche altrove c’era gente come noi, quella massa grigia che ogni giorno veniva inghiottita dalle porte della fabbrica. Oh, noi vivevamo come topi, e “ne avevamo tutto l’aspetto”, l’avevo sentito dire da una signora elegante a cui il mio fratellino era caduto addosso domenica mattina, stordito dalla stanchezza e dalla febbre. A noi avevano per prima cosa raccontato la storia dei topi che andavano a stuzzicare il gatto e finivano inesorabilmente mangiati. Ma questa volta, i topi proteggevano la loro stirpe. Un solo gatto non sarebbe bastato.

Cupi, sfilammo lungo le strade piatte della cittadina industriale. Per il momento non pensavo ancora alla separazione dai miei, ma al fiume e alle rare volte che, con mio fratello e gli amici, riuscivo ad andare a giocare sulle rive.  Di solito, era color piombo; il grigio, però, è una cosa a cui ti abitui. Del resto, si sa che i fiumi azzurri esistono solo nei libri illustrati, e nemmeno quelli sono per tutti: devi saper leggere, e poterti permettere il libro, per avere il tuo bel fiume finto. Le acque grigie del Merrimack, invece, non fanno differenza. Forse è per questo che, ogni tanto, i più disperati di noi se ne innamorano.

Mio fratello incespicava un po’, tenendomi per mano. Negli ultimi giorni s’era sentito meglio; anche se non avevamo mangiato granché, già il fatto di non dover passare giornate interminabili al lavoro in uno stanzone tenebroso pieno di rumore e sorci e scarafaggi, ininterrottamente attento a non prendere botte in testa e a non farsi tranciare le dita, lo rimetteva in salute. Così, ogni tanto alzava lo sguardo verso di me, e sorrideva un po’. Dietro i suoi occhi, scuri come quelli della mamma, si agitava un barlume di animazione per il viaggio. Molti di noi non l’avevano mai preso, il treno, e si sentivano elaborare le teorie più strane su come avrebbe potuto essere fatto dentro.

Io l’avevo preso per venire qui, quando eravamo arrivati in America sei anni prima. Mio fratello era troppo piccolo, non ricordava; io, con un po’ di sforzo, riuscivo a ricordarmi anche della nave. Non moltissimo, per la verità: proporzioni titaniche, umidità ovunque, letti asserragliati in un enorme locale. E le solite acque grigie. Il fiume era stato preceduto dall’oceano, che a sua volta era stato preceduto dalle piogge interminabili, là dove riesco ad arrivare forzando al massimo la memoria, in Irlanda.

Salvatore, il mio migliore amico di quei tempi, sfuggiva continuamente all’ordine della fila e a sua madre, la signora Maria, per camminare accanto a me e riferirmi quel che gli passava per la testa, veloce come un mulinello. Parlava uno strano inglese, Salvatore, ma sempre meglio di sua madre, totalmente muta eccetto che con marito e figli, o di suo padre, che spiccicava con sforzo poche parole. Del resto, secondo gli abitanti ricchi della città, anche io e la mia famiglia parlavamo un inglese strano, e non era questo l’unico punto in comune. Gli italiani erano cattolici, come noi. Pregavano in latino prima di mangiare, e molti di loro, a cominciare dal mio amico, avevano nomi antichissimi che testimoniavano fede imperitura.

“Ma tu ci credi che andiamo a New York?”.

“Ma ci siamo già stati, non te lo ricordi?”.

“Sì, ma eravamo piccoli, e poi siamo stati per la maggior parte del tempo in quarantena in quel cesso di Ellis Island. Vuoi mettere abitare in una casa vera, e passeggiare per le strade senza uno schifo di lavoro da fare ogni mattina…  e tutte quelle cose da vedere! No, secondo me sarà tutta un’altra storia”.

Vedendo la mia incertezza, volse il viso scuro e mobile verso mio fratello, che come sempre lo ascoltava, rapito dalla sua parlantina inarrestabile.

“Sean, diglielo tu a quel beccamorto di tuo fratello. Tu ci credi che ci divertiremo, vero?”.

“Ci saranno le mele caramellate?”.

Le aveva assaggiate una volta, e da allora s’era fissato, non chiedeva altro. Mia madre le aveva fatte anche in casa, ma per lui non era lo stesso, voleva quelle rosso fuoco delle bancarelle.

“Certo che ci saranno. Ed anche tanta altra roba. A New York vendono tutto”. Salvatore volse lo sguardo fiducioso verso l’orizzonte. Grigio, tanto per cambiare, ma lui ci vedeva certamente un qualche sole sfavillante, in attesa solo di noi. Era fatto così.

Da parte mia, non dubitavo che a New York si vendesse di tutto. Ma, sapendo benissimo che solo gente come noi avrebbe potuto ospitarci per solidarietà, dubitavo che avremmo potuto comprare molto. Così li lasciai parlare, cercando di trapassare la nebbia con lo sguardo.

Il treno, acquattato come un grosso gatto di ferro, ci attendeva indifferente, circondato da vapori e foschia. Dopo breve tempo, cominciò la cerimonia degli addii. Abbracciai mia madre; un nodo mi serrava la gola, e mi sentivo suonare in testa quella canzone dei negri su un uomo che partiva con un treno. “Avevo il cuore in bocca, avevo il cuore in bocca”.

Non potei nemmeno salutare come si deve; non c’era tempo, e mio fratello aveva il diritto di trattenersi di più per abbracciare mia madre, piccolo e malato com’era. Mi girai bruscamente, dando le spalle alla mamma e a Sean, e fissai il treno con rabbia. Capivo bene che era la nostra speranza, la fune tesa a salvarci dal baratro; ma ero pieno di rancore perché mi portava via da quelli a cui volevo bene, come gli esiliati, come i carcerati. Non ero io a dover essere punito, ma non riuscivo oggettivamente ad avercela con chi ci affamava: vivevano in un’altra sfera, non erano come noi. Capricciosi come dei, occasionalmente riversavano su di noi la loro rabbia; e per la mia mente infantile, era più o meno come una catastrofe naturale. Così, me la prendevo col treno.  

Non voglio parlare del viaggio, e non me lo ricordo nemmeno troppo bene. E’ schiacciato tra due altre immagini, più importanti. Una è quella di mia madre che saluta con il fazzoletto mentre il treno comincia a muoversi. Lei aveva i capelli scompigliati ed un’aria palesemente disperata, ma il fazzoletto era candido. Sventolava come una piccola bandiera bianca in mezzo all’amorfo bruno della folla.

Per quanto poco ne capissi, pregai che non fosse una resa.

L’altra immagine…

Quando scendemmo, a New York, per un secondo fummo frastornati dal caos. Perfino Salvatore si bloccò, i grandi occhi spalancati, un secondo prima di accorgersi che il fracasso non era quello ordinario di una stazione nella metropoli.

Davanti al treno appena arrivato, una folla immensa ci attendeva. E cantava.

Ci dissero in seguito che erano cinquemila. Per quanto ne sapevo, avrebbero potuto essere cinquecentomila, o cinque milioni: non avevo mai visto tanta gente cantare tutta insieme.

I negri spesso cantavano, mentre andavano al lavoro o tornavano a casa. I loro canti ritmici e malinconici avevano accompagnato la mia infanzia, ed un vicino di casa, uno di loro, me ne aveva insegnati molti. Ma questo, questo coro, era totalmente diverso. Anche senza vedere i capelli scuri, o i lineamenti marcati, avresti riconosciuto ovunque quella lingua piena di vocali aperte. Cinquemila italiani, con berretto e fazzoletto rosso, cantavano. E non era una canzone triste, no, era un canto di trionfo.

Noi non siamo più nell’officina, entro terra, nei campi, in mar

La plebe sempre all’opra china ,senza ideali in cui sperar…

Così strano sentirlo, non da eserciti in parata, non da cori compassati davanti a un monumento; ma da un gruppo di uomini malvestiti, davanti a un treno di bambini ancora più stracciati.

Che giustizia alfin venga, vogliamo;  non più servi, non più signor.

Fratelli tutti esser dobbiamo nella famiglia del lavor.

“Salvatore, cosa dicono?”.

“Non lo so, non capisco bene; sono troppi, e le parole sono difficili. Sembra una poesia”.

Su, lottiam! L’ideale nostro fine sarà

 l’Internazionale, futura umanità.

Restarono lì, immobili a cantare, mentre da dietro giungeva un gruppo di signore animatissime, con i vestiti in disordine e sorrisi luminosi. Alcune le conoscevo, erano venute a Lawrence a parlare, a farci coraggio. Erano loro che avevano architettato il sistema per metterci in salvo. In un altro momento, sarei stato felicissimo di vederle, ma avevo le orecchie piene di quel canto. Insieme agli altri, capii improvvisamente che non era un caso. Per una volta, non assistevamo a trionfi altrui. L’accoglienza, il canto trionfale, i cinquemila uomini: tutto questo era per noi. Lo si vedeva ancor più chiaramente se si faceva caso al comportamento dei ricchi, che giravano intorno al gruppo schifati, o dei poliziotti, che occhieggiavano sospettosi.

Salvatore, dopo il breve attimo di disorientamento, s’era messo a cantare anche lui, presumibilmente inventando le parole. Aveva accettato l’evento con naturalezza: dopotutto, se lo aspettava. Non era il sole risplendente che vedeva sempre oltre l’orizzonte, ma ci mancava poco.

Io continuavo a stringere la mano di mio fratello, ma non con la stessa angoscia di prima. Tra lo stupore ed un certo calore che cominciava a farsi strada da qualche parte tra cuore e stomaco, non seppi far altro che restare immobile, fin quando gli altri ci spintonarono, avviandosi verso l’uscita all’incitamento delle signore disordinate. Lo feci anch’io, e in breve mi confusi tra la folla, marciando e chiacchierando insieme ai miei amici e a Sean, che si guardava intorno, sperando si cogliere il baluginio delle mele caramellate ad ogni cantone di strada.

Le novità non sarebbero certamente finite lì. Ma quel momento, quell’attimo di infinita gloria, s’impresse così a fondo nella mia mente da far da risposta a tutte le incognite del folle viaggio, comprese quelle che non avevamo ancora affrontato. La morsa d’acciaio che mi stringeva il petto alla partenza si era dissipata come la nebbia all’uscita della stazione. Perché vedi, c’era anche quest’altra cosa, di cui ancora non ti ho parlato.

Per un momento, mentre ancora sentivo cantare gli uomini della stazione, avevo alzato la testa e guardato in alto, via dalla folla, oltre i tetti.

E avevo ritrovato il cielo.

 Note dell'Autore

Questo racconto è ispirato a una vicenda che si svolse a Lawrence, nel Massachusetts, il dieci febbraio del 1912. Gli operai della Lawrence Textile avevano scioperato a lungo, e il taglio dei salari, che già in condizioni normali erano ai minimi di sussistenza, non gli avrebbe consentito di continuare ancora per molto. Così, i sindacalisti rivoluzionari di un'organizzazione chiamata IWW (in special modo le donne) organizzarono questo esodo di bambini verso New York e le case di persone solidali, disposte a prendersi cura dei bimbi finché gli operai non avessero ottenuto quel che volevano. I bambini furono effettivamente accolti da cinquemila socialisti italiani, che cantavano l'Internazionale.

 L'episodio è documentato in poche righe da Howard Zinn, nella sua "Storia del popolo americano". Il "Bread and Roses Strike" di Lawrence è un episodio relativamente conosciuto negli USA, ma non è facile ottenere documentazione in merito, quantomeno non oltre le linee essenziali. Per questo motivo, mi scuso dei milioni di inesattezze in cui potrei essere incorsa, ma prego chi legge di considerare che ho narrato l'episodio come l'ho immaginato io, e non come realmente accadde. Non ho idea della planimetria di Lawrence, a parte qualche foto, e non so se il Merrimack è davvero grigiastro in inverno, né quanti operai vi si siano suicidati, né se ciò sia avvenuto. Licenza poetica :-)

Grazie per essere arrivati fin qui.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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