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Autore: Lechatvert    30/01/2014    4 recensioni
Dicono che delle persone si serbino, in genere, tre ricordi.
Di lei, da qualche parte nella mia mente, ne conservo soltanto due, entrambi popolati da quella paura che fa tremare le gambe, quel terrore del buio che fa piangere i bambini quando si soffia sulla candela per spegnerla.

Cominciarono a chiamarla طّ, Qitt, Gatto.
Ma si sa, quando i gatti muoiono, muoiono soli e lontani dal mondo.
Genere: Introspettivo, Malinconico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad, Altro personaggio, Malik Al-Sayf, Nuovo personaggio, Sef Ibn-La'Ahad
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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Dove cresce l'erba gatta

Ventiquattresimo – il grido che squarciò il silenzio
(http://www.youtube.com/watch?v=gKgTSAMA04I)




La mattina seguente, reduce da una notte insonne passata a rigirarmi tra le lenzuola, uscii di buona lena per una passeggiata sulle mura. Mi schiarii le idee con l’aria fresca dell’alba, osservando a lungo i profili della valle appianarsi fino ai porti limpidi di Tortosa e Balanea, inspirando l’odore acre di un paese che ogni giorno rinasceva.
Quando feci ritorno nei miei appartamenti, Malika si era già svegliata.
Anbar e le sue figlie erano passate a farle visita per assicurarsi che stesse bene, perciò la trovai ancora a letto, intenta a fare del chiocciante salotto circa le infermiere dell’ospedale mentre le due bambine le intrecciavano i capelli ridendo sommessamente.
Mi avvicinai per salutare, accarezzando la spalla di Malika prima di sedermi accanto a lei.
« Come sta? », chiesi ad Anbar.
Dallo sguardo che mi scoccò, capii che non aveva seppellito l’ascia di guerra. Non che ci avessi sperato, naturalmente.
« Meglio di quanto pensassi », rispose, piegando le labbra in una smorfia contrariata. « Di certo l’agitazione di questi giorni non ha aiutato. Deve riposare; stare a letto senza affaticarsi ».
Malika si appoggiò alla mia spalla.
« La fa più tragica di quello che è », ridacchiò.
Anbar le rivolse un sospiro rassegnato, ma si sforzò di sorridere. Si alzò e andò ad aprire la finestra, perdendo qualche istante a guardare lo strapiombo sopra il quale era arroccata la fortezza.
« Ti serve aria fresca », disse, infine, tornando verso il letto per recuperare la borsa. « Vado a prendere della legna per il fuoco. Tu vedi di riposare ».
Puntò il dito verso una delle sue figlie e si sporse in avanti per sistemarle il fazzoletto sui capelli nerissimi.
« Avrò bisogno di aiuto », le disse, accarezzandole piano il capo.
Scattai in piedi.   
« Vengo io », dissi, mostrando un sorriso tirato.
Anbar mi piantò addosso i suoi occhietti verdi, assottigliandoli in un’espressione sospettosa. Piegò le labbra in una smorfia, ma non commentò. Si limitò a guardare le sue figlie, dicendo loro di comportarsi bene in sua assenza, dopodiché salutò Malika e mi precedette sul corridoio.
Riuscimmo ad evitare i toni acidi per non più di tre passi.
« Sembra quasi tu stia evitando di restare solo con lei », mi disse d’un tratto, arricciando il naso quando raggiungemmo lo scalone centrale.
Io la guardai, offeso.
« Da dove arrivano queste insinuazioni? », protestai.
 Lei scoppiò in un’odiosa risata ricca di consapevolezza.
« Solo un allocco crederebbe di poter tenere nascoste certe cose a una donna », rispose, sollevando le spalle. « Non saremo brave quanto voi uomini a far roteare una spada, ma sappiamo far lavorare la testa. Anche se non ne comprende le ragioni, Malika comprende il tuo comportamento ».
Sussultai.
« Non le hai detto dove sono stato? »
Anbar sghignazzò.
« Certo che no; non rientra nel mio interesse! E poi, Sef mi ha chiesto di starne fuori ».
Uscimmo nel cortile in silenzio, passando accanto al mucchio di fieno che la mattina veniva accatastato in attesa che chi di dovere lo utilizzasse per prendersi cura delle bestie. Proprio dietro quella montagna d’erba secca, dieci anni prima, avevo scoperto Anbar e Sef a scambiarsi i loro primi baci. Non avevano vent’anni, eppure non ci fu nulla capace di farli sentire colpevoli di qualcosa. Quando poi venne tirato di mezzo Darim, capimmo che la storia andava avanti da mesi grazie alla sua silenziosa collaborazione.
Quei ricordi mi portarono una lieve risata, costringendomi a fermarmi dinanzi alla catasta di fieno per riportarli alla mente con più accuratezza.
Credo che Anbar seguì il mio stesso flusso di pensieri perché, quando mi voltai verso di lei, la trovai accanto a me con le guance vistosamente più rosse del solito.
« Volevo chiederti scusa per ieri », borbottò, scalciando il terreno sotto i suoi piedi proprio come suo padre faceva quando si trovava in imbarazzo.
Quelle cinque parole mi addolcirono un poco.
« Scuse accettate », risposi.
« Il fatto è che non è un bel momento ».
La guardai tirare un grosso sospiro mentre riprendeva a camminare verso la legnaia.
« Spiegati », la incoraggiai, seguendola.
« Non credo te ne abbia mai fatto parola, ma, dopo la morte di mio padre, Sef ha chiesto ad Altaïr il permesso di raggiungerlo in oriente ».
La raggiunsi accelerando appena il passo.
« E l’ha ottenuto? », chiesi.
Anbar mi rispose con una risatina tesa.
« Naturalmente no », disse. « Sono riuscita a mettere le mani sulla missiva in questione e non me ne dico affatto sorpresa, seppure non condivida i toni ».
« Altaïr è stato duro? »
« Gli ha proibito di scrivergli di nuovo prima del suo ritorno ».
« Sef come l’ha presa? »
Anbar mi scoccò un’occhiata a metà tra il divertito e il triste.
« Altaïr come l’avrebbe presa? », mi chiese, imbronciandosi appena.
Avrei tanto voluto risponderle che, dopo un periodo di rabbia passato a tirare pugni ai muri in completo silenzio, Altaïr sarebbe partito per l’est nel bel mezzo della notte senza preoccuparsi di chiedere il permesso a nessuno.
Partito nel bel mezzo della notte, già.
Mi fermai.
« Anbar ».
Lei si voltò a guardarmi con aria interrogativa.
« Sì? », chiese, inarcando un sopracciglio.
« Dov’è Sef? »
Silenzio.
L’immagine di lui che lasciava Masyaf per raggiungere la sua famiglia chissà dove cominciò a prendere il sopravvento nella mia testa. Pensai che poteva conoscere il luogo esatto grazie alla complicità di Darim, che era sempre così ligio agli ordini impartiti da suo padre ma che per proteggere Sef si era fatto punire più di una volta.
Aveva senso.
Guardai Anbar, in piedi davanti a me con le labbra piegate in una smorfia confusa.
« Non è tornato stanotte », mi disse, stranamente calma. « Perciò direi che lo puoi trovare a calciare sassi sull’altopiano. Non fa altro, ultimamente ».
« Passa la notte sull’altopiano? »
Anbar annuì.
« Da quando ha ricevuto quella missiva, sì ».
Non ero ancora tranquillo, ma preferii non fare parola dei miei sospetti. Da come ne parlava Anbar, la situazione era già abbastanza complicata senza che mi mettessi ad appesantirla con delle supposizioni.
E poi, Sef era tutto fuorché uno sprovveduto. Se davvero era partito alla volta dell’est, di certo aveva fatto in modo che non potessimo rintracciarlo.
Decisi che sarei andato ad accertarmi della sua presenza di persona non appena avessimo finito con la legna.
Arrivati di fronte alla casupola che avevamo adibito a deposito, mi offrii di portare i pezzi più pesanti.
Anbar mi rispose con una lieve risata.
« Sei gentile », disse, precedendomi all’interno della legnaia mentre si arrotolava sui gomiti le maniche del vestito. « Ma non occorre; grazie dell’apprensione ».
Si richiuse la porta alle spalle e mi piantò in mezzo al cortile, sparendo dietro le file di rami e frasche secche accatastati come scorta per l’inverno.
Rimasi là fuori per qualche istante, fermo ad inspirare l’aria fresca della montagna e ad osservare le poche persone che passeggiavano intorno alle mura. C’era un insolita desolazione, quasi quel giorno la fortezza si fosse presa una pausa dagli oneri mattutini che spettavano a ognuno degli abitanti.
Fu istintivo chiedermi dove fossero finiti tutti, ma non ebbi il tempo di rispondere alla mia domanda, né la pace di tornarvi a riflettere nei giorni avvenire.
Il grido di Anbar che squarciò il silenzio fu l’unico suono che popolò i miei incubi per i mesi avvenire.
Mi precipitai nella legnaia con la spada in pugno, ma non dovetti combattere contro un nemico.
Anbar era a terra, in lacrime sul corpo esangue di Sef. Lo chiamava piano, premendogli le mani sulle guance quasi dovesse svegliarlo da un sonno profondo.
Mi buttai al suo fianco, lasciando cadere la spada a terra, incapace di parlare.
Sef, immobile, freddo come il ghiaccio, pareva ricambiare gli sguardi di sua moglie da quei suoi occhi castani che fissavano ancora il soffitto, pieni di paura, ti terrore. Qualcuno gli aveva aperto la gola da parte a parte, lasciandolo morente in una pozza di sangue.
Non fui in grado di pensare immediatamente a cosa fare.
Restai pietrificato dinanzi al corpo senza vita di Sef, ascoltando il pianto di Anbar distruggere ogni mia difesa contro quella visione.
Riuscii a ricompormi appena in tempo per evitare un altro grido.
Afferrai Anbar per la spalla e le tappai la bocca prima che potesse emettere alcun suono, facendole cenno di stare in silenzio.
Vidi i suoi occhi riempirsi nuovamente di lacrime e in un istante mi si buttò addosso, affondando il viso nella mia cappa.
La scostai con fermezza, guardando il suo vestito macchiato di sangue.
« Torna nelle mie stanze », le dissi, levandomi il mantello per avvolgerle le spalle. Almeno non avrebbe destato sospetti andandosene in giro per la fortezza più sporca di un macellaio. « Chiuditi lì assieme alle tue figlie e non aprire a nessuno per nessun motivo ».
« Sì ».
Aveva un tono singhiozzante e lo sguardo assente.
Quando fece per voltarsi, la bloccai afferrandola per la spalla.
« Non parlare con nessuno, hai capito? »
Lei annuì debolmente, tirandosi il cappuccio sul capo.
« Sì », mormorò, respirando a fondo in un disperato tentativo di ricomporsi. « Sono qui ». Si voltò nuovamente verso il corpo di Sef e si chinò su di lui, sfilandogli il coltellaccio che portava legato alla cinta, poi mi riguardò. « Per sicurezza », aggiunse, in cerca di approvazione.
Io annuii.
« Va’ dritta nelle mie stanze », mi raccomandai.
 Ci scambiammo un’ultima occhiata dopodiché la guardai uscire nel cortile, malferma sui suoi stessi piedi e visibilmente scossa. Persino un cieco si sarebbe accorto che qualcosa non andava, perciò pregai affinché non incontrasse anima viva nel suo cammino.
Quanto a me, restai a vegliare su Sef fino a che non ebbi la forza sufficiente di alzarmi in piedi e andare a chiamare aiuto. Chiusi i suoi occhi color della sabbia e pregai per lui, riacquistando quella fede che lui stesso mi aveva accusato di aver perso.
Poi, come il vento prese a soffiare sulla fortezza, mi risvegliai.
Sentivo su di me la rabbia di Sef, assieme al suo respiro pesante e irrequieto. Lo sentivo cadere in ginocchio e rifiutarsi di chiedere pietà, gemere sotto la sua gola tagliata, soffocare nel suo stesso sangue.
Lo sentivo implorarmi di vendicare il suo onore.






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Note d'autore
Arrivata a questo punto, dovrei essere libera da ogni esame. E invece no.
Cos'è successo? E' successo che dqpodqdkqiodjqwioqwudqwjq la mia professoressa ha deciso di annullare la sessione il giorno prima, per cui ora sono daccapo. Volevo pubblicare il capitolo il 29, ma mi sono presa una giornata di meditazione zen e ferrata autodisciplina per evitare di mietere vittime. Davvero.
Ad ogni modo, parlando di cose più allegre (mica tanto): l'addio a Sef. E' finalmente arrivato il momento tanto atteso, quello in cui quel pover'uomo viene ammazzato. Credo che sia una delle cose di cui mi dispiace di più. In fondo mi piaceva, come personaggio ç_ç
Finisco di farneticare, mi do all'antropologia culturale.


Pancetta,

Lechatvert

   
 
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