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Autore: BlackEyedSheeps    31/01/2014    3 recensioni
“E’ tutto a posto, vero?”
“Sono in vacanza. Cosa potrebbe andare storto? A parte i vicini di casa che decidono di trapanare i muri alle sette del mattino…”

Clint, ancora perseguitato dai superstiti demoni degli eventi di New York, è sempre più isolato. Quando la situazione tocca il fondo, Natasha decide di intervenire, rifiutandosi di restare a guardare. Ma anche lei dovrà fare i conti con i postumi della battaglia degli Avengers...
[Clint/Natasha] [Post-The Avengers]
Genere: Angst, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Compromised'
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CAPITOLO 5

 

I love the way that you lick your lips,
No fooling, I can see you drooling,
Feel the hunger grow

(Eat the Rich – Motorhead)

 

Gola

 

 

Riaprì gli occhi e osservò il soffitto, aspettando che i suoi occhi si abituassero alla veglia: non le ci volle molto per riuscire a distinguere le linee delle travi del soffitto, ma molto di più per ricordarsi di come fosse arrivata sul pavimento del salotto. La fastidiosa sensazione del tappeto ruvido contro la schiena scoperta e il brontolio del proprio stomaco le si palesarono subito dopo, riaffiorando alla sua coscienza come relitti rigettati a riva dalle onde, un po' per volta, man mano che Natasha riprendeva coscienza delle proprie facoltà.

La lentezza con cui si accorse della presenza di un'altra persona al suo fianco l'avrebbe, in seguito, preoccupata: non era forse una delle sue capacità più rinomate quella che le permetteva di indovinare con esattezza quante persone ci fossero nelle sue immediate vicinanze?

Qualcosa le impedì di voltarsi per prendere atto di chi avesse accanto: un nodo le si strinse in petto, incatenandola nella propria posizione. Tentò di distrarsi e di recuperare il controllo della situazione, concentrandosi invece sui rumori della stanza: il respiro lento e regolare di Clint alle sue spalle, le ceneri che si accartocciavano nel camino ormai spento, il ticchettio lontano dell'orologio a muro della cucina, l'ululato del vento che sembrava volersi insinuare sotto la porta del cottage per portarsela via, il battito sempre più regolare del proprio cuore...

Azzardò una riflessione su quello che – ne aveva un'idea ben precisa – era successo la sera precedente, ma i ricordi non si fecero che sfiorare prima di provocarle un odioso rimescolio allo stomaco.

Scostò la coperta e si rimise in piedi nel modo più silenzioso possibile, ma con urgenza, come improvvisamente scottata. Ignorò con tenacia la figura di Clint che aveva avuto l'ardire di indovinare con la coda dell'occhio, allontanandosi a grandi passi dal salotto. Inforcò la breve scala che conduceva al piano superiore e si infilò nel bagno, richiudendosi accuratamente la porta alle spalle.

Cogliere il proprio riflesso nello specchio sopra il lavandino, fu come prendere uno schiaffo a mano aperta. Cercò in tutti i modi di distogliere lo sguardo, ma la donna che la fissava - i capelli scarlatti arruffati e spettinati, la pelle pallida con le sue porzioni rossastre irritate dal passaggio della barba di Clint - reclamò la sua attenzione e non la lasciò andare. Né la confusione del risveglio, né la fame che stava continuando a far da sottofondo ad ogni suo gesto, riuscirono a salvarla dal vago attacco di panico che la prese un attimo dopo.

Si portò una mano al petto, sulla pancia, sulle curve dei fianchi e del sedere, e poi di nuovo sulla testa: che diavolo le era saltato in mente? Aprì e chiuse i pugni, riuscendo miracolosamente a raggiungere la doccia a tastoni, ad infilarsi nell'apertura del box, ad accendere l'acqua – fredda o calda, non aveva molto importanza – ad infilarsi sotto al getto per soffocare il grido che voleva disperatamente uscirle di bocca.

Le parve che ogni singola parte del suo corpo riprendesse improvvisamente coscienza di sé nel momento esatto in cui l'acqua la raggiungeva. Solo allora si accorse dell'indolenzimento alle cosce, ai fianchi, agli addominali, alle braccia, delle labbra che sembravano bruciare, rosse e gonfie per i troppi e troppo scomposti baci.

Si prese il viso tra le mani, e si costrinse a pensare ad altro, a qualsiasi altra cosa che non avesse a che fare con Clint, col pavimento del salotto, con la sua barba, le sue labbra, le sue stupide braccia, il suo ridicolo odore, i suoi occhi grigi e...

A chi tentava di darla a bere? Il pensiero la stava ossessionando e l'avrebbe ossessionata per i giorni a venire: ignorarlo non sarebbe servito a niente. Così come sarebbe stato inutile assecondare l'impellente voglia che aveva di uscire dalla doccia, vestirsi e fuggire chissà dove, sparire nel bosco, nella neve, lasciare tutto in sospeso pur di non doverlo affrontare. Quella sensazione, Natasha, la conosceva fin troppo bene. Era la sua abituale compagna ad ognuno dei risvegli che seguivano i suoi incontri: per questo evitava qualsiasi coinvolgimento, per potersi permettere il lusso di andarsene la mattina dopo – e molto più spesso la sera stessa – senza ripensamenti o sensi di colpa. Ma stavolta... stavolta la tentazione le si era presentata nella forma del suo migliore amico, del suo partner. Come avrebbe potuto anche solo pensare di potersene andare senza una parola? Se le relazioni umane davvero le apparivano confusionarie, sgraziate, caotiche, disordinate, perché era andata a cacciarsi in quella situazione?

Si sfiorò l'interno coscia con una mano e ricordò con esattezza cosa l'avesse spinta a cedere, e – anzi! - a insistere perché Clint la smettesse di barricarsi nel falso disinteresse che gli aveva letto su tutto il viso. Era possibile che la cosa che più apprezzava di lui – il fatto che non l'avesse mai vista come una donna oggetto, la sua apparente impassibilità di fronte al suo aspetto fisico – fosse anche quella che più la faceva infuriare? Aveva fatto di tutto, all'inizio della loro collaborazione, pur di coglierlo in fallo, smascherarlo per ciò che era davvero: un uomo come tutti gli altri, fatto di carne, sangue ed ossa, incapace di resisterle. Non tanto per sincero interesse, ma per il puro gusto di farlo, per rinfacciargli la sua ipocrisia e abbandonarlo con la dura realtà dei fatti senza una parola di più. Eppure Clint non aveva mai dato segno di vederla come niente di più che una collega: certo, alle volte aveva la netta sensazione di averlo sorpreso a guardarla per qualche secondo di troppo, ma nient'altro. Piuttosto, temeva di sortire in lui l'effetto contrario: il disappunto che gli leggeva negli occhi tutte le volte che c'era stato bisogno di sedurre un obbiettivo, le domande che le rivolgeva per sapere se fare quello che doveva fare le desse fastidio... Natasha pensava che Clint disapprovasse di quella perplessità tipica dei bigotti e di chi crede di sapere cos'è meglio per una persona. Tante, troppe volte avrebbe voluto prenderlo a pugni per mettere di nuovo e ancora in chiaro che quello che faceva non era affar suo, che le sue azioni erano frutto di libere scelte, che non trovava affatto disdicevole usare quello che la natura le aveva dato e che la Red Room le aveva insegnato per portare a termine le missioni e fare bene il suo lavoro. Ma, col tempo, era arrivata alla conclusione che la sua non era altro che goffa preoccupazione nei suoi confronti, che – certo - la infastidiva comunque, ma che riusciva a perdonargli più facilmente.

Da parte sua, invece, l'attrazione – l'aveva realizzato solo in quell'istante – c'era sempre stata. Non era forse stato il suo primo pensiero quello di portare via quello sconosciuto turista americano, lontano da quell'affollata piazza di Lisbona per qualche ora di innocenti passatempi? E lei sì che si era ritrovata più e più volte a guardarlo, a spiarlo mentre mangiavano, dormivano, stavano di guardia, si preparavano a partire, sistemavano le proprie armi, si rammendavano vicendevolmente le ferite ricevute in battaglia.

Mai e poi mai avrebbe agito su quelle inclinazioni: ne andava della loro amicizia e del loro lavoro. Perderlo le avrebbe inferto un colpo dal quale si sarebbe ripresa, prima o poi, ma con quanta fatica e quanta sofferenza? Era stato lui a darle una seconda chance ad una vita migliore, come avrebbe potuto tradirlo cedendo a degli stupidi, animaleschi istinti che lei stessa disprezzava negli uomini che tanto facilmente riusciva ad attirare e catturare nella sua tela di inganni e illusioni?

La verità era che non aveva mai sedotto nessuno se non per lavoro o per puro, momentaneo divertimento: c'erano anche state persone con cui aveva fantasticato di poter costruire qualcosa di più, ma non aveva mai preso in seria considerazione la possibilità di farlo davvero. Quel genere di cose le appariva come appartenente ad una vita parallela, alternativa... quella di una Natasha che non faceva la spia, che aveva un lavoro ordinario e una storia noiosa.

Con Clint era stato diverso: in cuor suo sapeva di aver aspettato finché non fosse stato lui a farle capire che l'avrebbe voluta come qualcosa di più che semplice collega, che alle volte, nelle notti solitarie, pensava a lei, che quando usciva alla ricerca di compagnia nei locali di Brooklyn, inconsciamente la cercava in ogni cameriera, commessa, passante che incrociava sul suo cammino.

Natasha comprese che, in fondo, era quello che aveva fatto lei con lui fino a quel momento, fino a quando non gli aveva letto negli occhi quel desiderio che conosceva a memoria, come una luce familiare in un mare di incertezza. E allora, ricevuta la chiamata che attendeva da chissà quanto tempo, non ci aveva pensato due volte ad agire di conseguenza, a mettere a repentaglio tutto ciò che avevano per sedare l'urgenza che stava apparentemente logorando entrambi. Come avrebbe potuto anche solo pensare di riflettere in quei momenti? Aveva cercato e trovato le sue labbra con un sollievo che, col senno di poi, la sorprese. Credeva di aver spento quella sete, di aver estinto la fame: rammentava con esattezza l'incredulità che l'aveva colta quando aveva realizzato di aver chiesto a Clint di uscire con lei durante il loro incontro-scontro al quartier generale dello SHIELD a San Francisco, le mille domande che si era fatta subito dopo, il rimpianto che era seguito quando Clint si era messo nei guai per colpa di Loki, come si fosse pentita di non aver rinnovato l'invito – e che cosa sarebbe successo se Clint non ce l'avesse fatta? -, di come l'idea fosse di nuovo tornata ad apparirle come immensamente stupida quando il pericolo era scampato. E adesso...

Le cadde lo sguardo sulle proprie mani cotte dall'acqua calda: quanto tempo era rimasta là sotto? Girò la manopola e lasciò che il getto si esaurisse, rimanendo immobile nel box doccia senza sapere che fare o da che parte cominciare.

Riprese a muoversi come per inerzia: si strizzò i capelli, recuperò un ampio asciugamano e ci si avvolse dentro, uscendo dalla doccia e sul tappetino di spugna per asciugarsi i piedi prima di avventurarsi nel resto del bagno. Ringraziò tacitamente la sua buona stella quando si accorse che il calore dell'acqua aveva appannato lo specchio, impedendo al suo riflesso di rivolgerle fastidiose inquisizioni.

Dopodiché, come persa tra i propri pensieri, indecisa sul da farsi, finì per assecondare inconsciamente la fame che non l'aveva abbandonata per un secondo. Uscì dal bagno accompagnata da una nuvola di vapore bianco: non avrebbe potuto pensare lucidamente finché non avesse fatto colazione.

 

***

 

Un solo alito di vento, un lieve brivido alla base della nuca e fu sveglio.

La coperta che aveva, chissà come, recuperato in un angolo della casa era andata, abbandonata in fondo al tappeto, vicino al divano.

Si rese conto immediatamente di essere solo, che l'alba si affacciava alle finestre come una spia, venuta a reclamare la sua razione di pettegolezzo giornaliero.

La notte era passata e così gli incubi. Non aveva sognato; dopo tanto tempo, aveva dormito, semplicemente, come non faceva da settimane.

Si mise a sedere e osservò, per qualche istante, il posto occupato da Natasha solo qualche ora prima, entrambi vinti dalla stanchezza, dall'esplosione che li aveva sopraffatti.

Ricordò distintamente di averla guardata dormire, di aver assimilato quegli attimi, di aver razionalmente preso la decisione di non svegliarla, di far sì che quel tappeto fosse il loro rifugio per una notte, per quella notte.

Aveva accantonato qualsiasi sentimento negativo dall'avvenimento. Ne aveva goduto, tratto la linfa che, probabilmente, gli aveva permesso di riposare tanto gustosamente.

Provava vergogna? Senso di colpa? Giustificata paura?

Si stupì di dover rispondere negativamente alle tre domande. Aveva provato vergogna, senso di colpa e paura per troppo tempo, e il fatto che quell'inaspettata svolta li avesse spazzati via per una gloriosa mezz'ora o forse poco più, era motivo sufficiente per mettere da parte tutto ciò che di negativo potesse venirgli in mente.

Si preoccupò solo vagamente di come avrebbe dovuto o potuto affrontarne le conseguenze.

O di come lo avrebbe fatto lei. Non averla di fronte o avvertire su di sé il peso del suo sguardo, probabilmente aiutava. Metteva tutto in una prospettiva ipotetica.

Non avrebbe potuto sottrarsi nemmeno con la migliore delle volontà, in ogni caso. Le acque erano straripate, inondandolo. E aveva bevuto a piene mani.

Cercò persino tracce di pentimento: non ne trovò. A che pro? Dopo averla sentita rispondere a ogni suo gesto o suggerimento. Dopo averla, anzi, vista prendere da sé le redini del gioco?

Le immagini della notte passata di scomponevano e ricomponevano in ricordi indistinti di colori e sensazioni, qualcosa che non riusciva a catalogare, ma che per il momento lo faceva stare bene, gli ribaltava lo stomaco certo, ma in un modo affatto spiacevole… appagante.

Si passò entrambe le mani fra i capelli ancora scompigliati, sul viso, la barba sfatta ormai lunga più di quanto si fosse mai azzardato. Si concesse ancora qualche minuto, prima di rendersi conto che il rumore che sentiva non era altro che quello dell’acqua della doccia, al piano superiore.

Una prima nota positiva: Natasha non era scappata.

La tormenta restava fuori da quelle quattro mura.

Si mise goffamente in piedi, nudo come un verme. Rabbrividì.

La casa era diventata fredda, e così i suoi bollenti spiriti.

Recuperò i vestiti, scompostamente abbandonati in ogni angolo della stanza, sparpagliati in un domestico campo di battaglia. Prima di rivestirsi avvertì, nitido, il profumo di lei, ancora impresso sulla propria pelle.

Si sentì, suo malgrado, aggrovigliare ancora lo stomaco, il petto e quel familiare pizzicore al basso ventre che non sembrava dargli pace.

La seconda nota positiva: sembravano essere totalmente compatibili.

Le danze preparatorie che li aveva visti protagonisti in palestra e poi sul campo di battaglia, non erano che l’anticamera di quello che era appena successo. Le sue mani avevano trovato agile appiglio alle sue curve, i loro movimenti, uniti in un ritmo istintivo e totalmente sincronizzato. L’uno l’estensione dell’altra.

Per quante partner avesse avuto nelle sue tormentate notti, nessuna mai era arrivata a fargli dimenticare chi fosse, di renderlo desideroso di perdersi totalmente, di fondersi con un’altra persona, di creare qualcosa di nuovo, potente.

Perché lo aveva sentito, in profondità, quanto fossero così essenzialmente incatenati l’uno all’altra.

Quante volte, prima di allora si era trovato a pensare a quanto si sentisse improvvisamente insufficiente senza Natasha? Di quanto le sue missioni, il suo lavoro, avessero improvvisamente assunto una nota stonata, se private della presenza della sua compagna?

Non era mai riuscito a dare un nome a quella sensazione e forse non riusciva a farlo nemmeno ora, ma era certo che avesse preso forma e fosse diventata una presenza ingombrante, ma altrettanto indispensabile.

Natasha era ciò che sopperiva alle sue mancanze. Natasha era ciò che lo riportava alla ragione.

Contrapposti, ma affini. Un incastro perfetto.

 

Si infilò la felpa, stringendo il cappuccio per i lacci, e si nascose nel bagno al piano terra, per lavarsi il viso, scacciare gli ultimi residui di sonno e prendersi del tempo per ragionare sul da farsi.

Le sue funzioni fisiche erano ancora rallentate quando ne uscì poi, affatto lucido, con lo stomaco in affamata rivoluzione, per tornare in cucina a recuperare il bollitore ancora colmo dell’acqua della sera prima. Le tazze abbandonate sul bancone della cucina, intonse.

Si rese conto solo in quel momento di come quella casa avesse assistito a tutte le fasi della sua ripresa. E a tutto ciò che di più intimo potesse mostrare.

Ulteriore nota di merito: si scoprì di buonumore.

Nessuna stanca, vuota soddisfazione del giorno dopo, nessuna sensazione dalle intenzioni inadeguate. Solo sincero, pago buonumore.

Inspirò a fondo e avvicinò a sé il tostapane: sarebbero bastate un paio di fette con burro e marmellata e del tè, che quella mattina parve desiderare di sua spontanea iniziativa, invece di accoglierlo come una magra consolazione, un ripiego forzato in mancanza del caffè.

Non si rese conto della porta che veniva aperta, né dei passi leggeri di Natasha per le scale. Quando gli fu abbastanza vicina, allora né avvertì la presenza, né percepì il profumo, vagamente camuffato dall’aroma del bagnoschiuma.

 

Non si voltò nemmeno, non era sicuro di essere ancora pronto a interrompere quelle divagazioni virtuali, per portarle su un piano più concreto.

Era stato tutto abbastanza semplice, fino a quel momento: la verità era che, a parole, il suo cervello aveva accettato facilmente quella svolta inaspettata del loro rapporto, ma che cosa avrebbe significato affrontarla sul serio?

Era ancora così soddisfatto, sicuro, tranquillo?

Lo avrebbe dovuto scoprire a sue spese di lì a poco. E allora per quale diavolo di motivo avrebbe dovuto prolungare l’attesa?

Colse il momento.

 

“Hai fame?” le domandò. La sua voce risultò roca, assonnata. Non era la prima volta che si presentava in quelle condizioni a Natasha, ma stavolta era, per certi versi, totalmente differente.

Non la sentì rispondere e fu costretto a voltarsi.

Se si stupì di trovarla ancora in abbigliamento discinto, non sembrò darlo a vedere. Quel prurito alla base dello stomaco però non dava cenno a dargli pace.

Dio, se era perfetta.

Si costrinse a non riportare alla mente le immagini che aveva di lei ancora impresse a fuoco nella testa: le sue labbra, i suoi sospiri, il suo odore, la sua pelle… si maledì per averlo fatto nonostante i buoni propositi.

“Sai che pensavo?” le domandò allora, mascherandosi dietro una futile conversazione, schiarendosi appena la voce che recuperò un po’ del suo tono caldo, “che sono più di ventiquattr’ore che non mangiamo.”

Le elargì un sorriso che lei non sembrò comprendere. O forse era stato solo il suo approccio a risultarle del tutto fuori luogo. O quantomeno non quello che si sarebbe attesa.

Che cosa si aspettava Natasha?

La domanda affiorò un attimo prima che il pane tostato saltasse fuori con un suono impertinente.

Lo costrinse a rimandare le esitazioni.

Ne recuperò una fetta bollente, lanciandola letteralmente su un piatto.

“Scotta”, la redarguì passandoglielo. Lei attese a raccoglierlo. “Ha fatto tutto il tostapane, giuro, non ci ho messo mano, è mangiabile.”

Tentò di buttarla sul ridere: di regola, quello, gli riusciva abbastanza bene.

Attese una risposta che tardò ad arrivare. Ma la mano di lei recuperò piatto e colazione.

Probabilmente aveva perso il suo tocco magico.

E di nuovo tornò a insistere su quella domanda: che cosa si aspettava… Natasha?

Che tutto tornasse come prima? Che tutto cambiasse? Pretendere che nulla di quello che era accaduto quella notte fosse successo?

Non erano le donne a farsi paranoie simili? E allora perché ci stava cascando lui stesso e con tutte la scarpe, per giunta?

Non era una donna.

Non era stupidamente risaputo che per gli uomini avrebbe dovuto risultare tutto semplice… e lineare?

Ma avere a che fare con Natasha non aveva niente di semplice… ed era tutt’altro che lineare. Non lo era mai stato.

Aveva anche imparato che le cose taciute non aiutavano proprio nessuno. Nessuno dei due, come team, come coppia.

Perché era quello che erano ancora, no? Un team. Una coppia.

Una coppia.

Si rese conto dell’azzardo della formulazione.

“Non mi sembra tu ti sia sforzato troppo, per essere la prima colazione che mi prepari”, la sentì rispondere, prima di poter dire qualsiasi altra cosa. Rimase così, fermo con le labbra ancora bloccate in una muta affermazione.

Non sapeva nemmeno cosa sarebbe stato capace di dire, ma fu certo che il suo intervento era stato provvidenziale.

“E a me non sembrava ti fossi mai lamentata tutte le volte che mi sono presentato da te con delle ciambelle calde.”

La guardò mettersi al tavolo, le mani sul seno a trattenere l’asciugamano da improvvisi cedimenti.

“Le ciambelle le compri. Il contesto è diverso.”

Le mise di fronte burro e marmellata: “Servizio completo. È sufficiente?”

Le spalle scoperte di lei si mossero in un gesto di sufficienza.

“Cos’altro?” la interrogò, ora perplesso. Da quando lo pseudo imbarazzo per la notte precedente si era tramutato in uno dei loro estenuanti battibecchi?

Lei, di nuovo, non rispose, al contrario gli rivolse uno di quei suoi sguardi ambigui, ma diretti.

L’atmosfera cambiò, e improvvisamente fu come se fosse di nuovo nudo. Solo che stavolta, nonostante quella meno vestita fosse effettivamente lei, si sentì più vulnerabile di quanto non lo fosse stato la sera precedente.

Natasha stava cercando di capire che gli passava per la testa. O forse aveva solo intuito che stava cercando di tergiversare.

Sospirò, incapace di comprendere se fosse davvero necessario un chiarimento. Se i loro gesti non avessero già parlato abbastanza.

Un’altra domanda e sarebbe esploso. Una sola domanda in più e avrebbe gridato a se stesso di stare zitto.

Con quanta presunzione, solo pochi minuti prima, aveva pensato a non caricare di paranoie quello che era successo? A quanto pare nel giro di pochi istanti era riuscito a produrne in abbondanza. Avrebbero finito per straripare.

Si passò una mano sulla testa, scompigliandosi i capelli con un gesto nervoso.

“Che cosa stiamo facendo, Clint?” Natasha riuscì di nuovo a coglierlo di sorpresa.

Si volse a guardarla.

“Non… insomma… che cosa?” allargò le braccia in gesto arreso. “Non lo so.”

I suoi occhi indagatori continuavano a fissarlo.

E poi ancora: che si aspettava Natasha?

Decise di tagliar corto una volta per tutte. E pensare a quello che lui si sarebbe atteso.

“Io pensavo di fare colazione”, disse allora. Lesse il disappunto sul viso di lei, ma non si fermò. “E continuare a pensare all’effetto… sorprendente che ha avuto su di me quello che è successo stanotte.”

Il sollievo fu immediato. Era davvero riuscito a dirlo? Oppure si era solo immaginato di farlo?

L’espressione di Natasha, per una volta tanto, fu eloquente.

“Nessun incubo”, proseguì. “Nemmeno l’ombra…”

Si chiese se non suonasse esclusivamente come una terapia particolarmente efficace.

“Dunque è solo questo?”

Appunto.

“No! No…” le si avvicinò, la sua voce che cercava disperatamente di ridimensionarsi. Si rese conto solo un istante dopo che Natasha aveva assunto quella sua vaga espressione di scherno che conosceva così bene.

Inspirò a fondo come a ritrovare quel coraggio che aveva perso dopo averla vista.

“Qualsiasi cosa fosse… son felice che sia successa.” Ed era vero. Era esattamente quello il punto della questione. Non le inutili paranoie scatenate da quello che era giusto o sbagliato. Chiaro o meno. Era l’averlo trovato perfetto.

“Insomma, non che non ci avessi mai pensato prima, solo non volevo che tu pensassi a me come uno di quei maniaci che cercano di infilarti le mani ovunque, durante le nostre missioni”, tentò di ignorare disperatamente il fatto che le si fosse praticamente inginocchiato di fronte.

“Perché non è questo. Insomma, non c’era niente di così subdolo… ne avevo bisogno. E tu lo sapevi. Prima di me. Lo avevi capito…”

Quando le fu di nuovo abbastanza vicino e si trovò un suo dito sulle labbra, si interruppe con espressione stupida e disorientata.

“Barton, tu parli troppo”, la sentì dire e non riuscì a guardare da nessun’altra parte se non la linea del suo collo, delle spalle nude, dei seni appena accennati.

“Credevo fosse quello che volevi”, scucirgli più di tre parole sembrava essere stato il tema portante di quella fuga da New York.

“Desideravo solo accertarmi, definitivamente, che quello che è successo era quello che tu volevi.”

Aveva seriamente dei dubbi a riguardo?

Dal momento in cui si era svegliato abbracciato a lei, non aveva fatto altro che pensare che fosse stata la cosa più sensata che gli fosse capitata in quelle ultime settimane.

“Lo è…” confermò con una fermezza tale che non ci fu più bisogno di dire una sola parola. O di spenderci più di una domanda a riguardo.

Il bacio non arrivò inaspettato.

Nel momento in cui si erano di nuovo trovati l’uno di fronte all’altra, avevano capito di non averne avuto abbastanza. Che quello della notte appena passata non era stato che un assaggio. Qualcosa di gustoso ed estremamente difficile da accontentare.

Si arrese al suo sapore, al suo profumo. Si arrese alle sue labbra, alla sua pelle. Si arrese al fatto che voleva di più di quello che Natasha gli aveva concesso; scoprire, svelare, rifugiarsi in ogni suo angolo e rivelargli tutto quello che lui possedeva.

Il suo respiro caldo sapeva di tutto ciò che di lei conosceva.

E si sentì al sicuro, di nuovo.

“Ho fame…” la sentì dire a fior di labbra, le mani aggrappate alle sue spalle a giocare con i suoi capelli ora troppo lunghi sul collo.

“Ho fame anche io…” le rispose, accarezzandole le cosce tornite con le sue mani forti, ruvide, prima di tentare di catturare nuovamente le sue labbra; ma lei rifiutò.

Non nascose la perplessità, prima che un mugolio inquietante allo stomaco non palesò la veridicità di quell’affermazione.

“Sei stato tu a ricordarmi che non mangiamo da ventiquattr’ore.”

“Maledetta la mia bocca”, disse. E la sentì ridere.

“Potrei concederti ancora un po’ di tempo, Barton.”

“Mezz’ora mi basta…”

“Magari non basta a me.”

Sorrise.

“Questo è appetito.”

“No”, lei scosse la testa, “questa è gola.”

 

***

 

Si impedì fermamente di ritornare sui dubbi espressi da Clint. Fece di tutto pur di non formulare chiaro e tondo cos'è che le aveva dato tanto fastidio: temeva davvero, lui, che avesse fatto una qualsiasi delle cose successe la notte precedente (o mattina, o sera, o pomeriggio, aveva perso la concezione del tempo) controvoglia? Solo per aiutarlo a sbloccarsi, a ritornare nel mondo dei vivi?

Aveva rifiutato il bacio con la scusa della fame – che pure sentiva – si guardava attorno in cerca di un appiglio qualunque tra le cose che li circondavano pur di deviare i propri pensieri da quell'unico, scomodo neo.

Contro ogni buonsenso, per non intaccare i progressi che pure avevano fatto, ricacciò indietro la perplessità, si sforzò di apparire serena.

“Rimettiti in piedi, Barton,” lo redarguì, facendogli un vago cenno con la mano, quasi la visione di lui inginocchiato al suo fianco le provocasse un serio scompenso fisico, reale.

Clint rimase dov'era, lanciandole un'occhiata di sfida, finta sufficienza.

“I continui ordini dovrebbero eccitarmi o umiliarmi?” Le chiese, invece.

“Magari entrambe le cose.”

“Sei una donna dai sordidi piaceri.”

“Mi sorprende che tu te ne sia accorto solo adesso.”

“E io che pensavo che ci fosse una dolce e tenera fanciulla, là sotto!”

“Sta' zitto, Barton,” insisté, aprendo il barattolo della marmellata.

“A questo punto dovrei continuare a blaterare per il puro gusto di darti contro.”

“Che è poi quello che ti riesce meglio,” palesò lei, come se quella non fosse affatto una novità. Non lo è.

“Adesso mi sento ferito, Tasha. Sono un uomo sensibile.”

“Mi dispiace. Tieni -” Infilò due dita nel barattolo della marmellata – di more – e gliela spalmò sul viso, senza alcun avvertimento. “- ti senti meglio? C'è anche della cioccolata, se non sbaglio. Magari quella ti procura stimoli più adeguati...” Ritrasse la mano, e osservò il proprio operato. Trattenne a stento una risata.

Clint la osservava sbattendo lentamente le palpebre, ripulendosi le labbra con la lingua, alla meno peggio. “La marmellata è dolce, tu sei crudele.”

“Aw,” lo prese in giro, fingendosi addolorata per quella conquistata consapevolezza.

“C'è anche del burro, sul tavolo, fossi in te ci andrei piano.”

“Perché? Hai paura di scivolarci sopra e sbattere la faccia al pavimento?” Gli si accostò, portandosi via, con la lingua, un assaggio di confettura, proprio lì, dalla sua guancia ispida. Si fermò un istante, lo osservò come valutando qualcosa e realizzandone un'altra. “Era un'allusione sessuale?”

“In realtà no, mi stavo chiedendo quale piatto della mia personalissima cucina potrebbe traumatizzarti con più efficacia... una volta ho fatto una torta salata usando degli yogurt.”

Natasha riprese la minuziosa operazione di pulizia del viso che aveva intrapreso solo qualche attimo prima, con concentrazione. Tutto pur di non star a sentire i suoi sproloqui culinari.

“Gli yogurt erano persino andati male. Eppure, ricordavo di aver sentito in tv che quando si dice da consumarsi preferibilmente entro, è solamente per precauzione e non è detto che la cosa non sia effettivamente più mangiabile.”

Scese lungo la mandibola, sul collo fino a risalire all'orecchio, ostacolata dalla barba – sporca di marmellata anche quella – che gli ricopriva le guance.

“Forse era stata Oprah, o Diane Sawyer o... Martha Stewart, non ne sono sicuro,” la sua voce risuonò vagamente distratta, tesa come nel tentativo di risultare naturale. “Te l'ho detto di quanto trovi sexy, esattamente, Martha Stewart? Anche lei è ossessionata dal burro.”

Natasha alzò gli occhi al soffitto, lo respinse leggermente all'indietro.

“Ti devi trovare un hobby, Barton, che non coinvolga signore di mezz'età e grosse quantità di burro.” Pronunciò le parole, non riuscì a bloccare l'immagine, e in fretta svanì anche l'atmosfera, portata via da un brivido d'orrore.

“E adesso?” Clint era ancora inginocchiato davanti a lei, il viso, la barba sporchi di confettura alle more.

“Adesso puoi tostarmi un altro po' di pane.”

“Non sono sicuro che questa cosa mi piaccia.”

“Io ho fatto la spesa, tu tosti il pane.” Aveva valutato se dire cucinare, e deciso – subito dopo – che non sarebbe stata una grande idea.

“E comunque parlavo della marmellata.”

“Una scusa per toglierti tutta quella roba dalla faccia e tagliarti i capelli.”

“Cos'hanno che non va i miei capelli?”

“Niente, Mr. Flinstone.”

“Quando cominci a fare riferimenti alla cultura pop americana mi fai davvero paura,” mormorò impressionato, rimettendosi finalmente in piedi.

Non ebbe il cuore di dirgli che, come i lunghi oziosi pomeriggi cui aveva finito per abituarsi in quelle ultime settimane gli avevano insegnato, la cuoca fissata col burro non era Martha Stewart, ma Paula Deen.

Decise di conservare quell'ulteriore shock per un'altra volta.

 

 

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N.d.A.: grazie a chi è arrivato fin qui e a chi continua a commentarci <3 Alla prossima!

 

 

 

 

  
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