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Autore: thedarknesswillfall    31/01/2014    5 recensioni
I figli di Persefone sono rari per un solo motivo. Dato che a Ade non piace che la moglie abbia dei figli con un altro uomo, questi semidei nascono con una quantità enorme di morte, cioè, hanno più probabilità di morire. Nessuno ha vissuto fino all'età adulta. Sono influenzati dalle stagioni: in primavera ed in estate sono forti e vigorosi, mentre in autunno ed inverno sono più stanchi e deboli e molto vulnerabili alle malattie e spesso muoiono per questo motivo.
"-Accetti?- disse Ade, tendendomi la mano scheletrica. La strinsi. Un ghigno malvagio fiorì sulle sue labbra. Sapeva che avrei perso il gioco. Lo sapeva da sempre.Ed anche io."
Genere: Avventura, Generale, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Gli Dèi, Leo Valdez, Nico di Angelo, Nuovo personaggio, Quasi tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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1.Uccelli ed Ombre.
 

Ricordo una mattina degli ultimi giorni d'estate piena di sole, col cielo spazzato da un vento ostinato che faceva ruzzolare barattoli vuoti, cartacce e sporcizia ai piedi di un muro ai margini del campo. I panni, logori e scoloriti, erano stesi lungo una corda legata da un palo all’altro in mezzo ai carrozzoni, si sgonfiavano e gonfiavano ad ogni folata di vento. Ero ancora rinchiusa nella nostra roulotte impastata di sonno e con gli occhi dalle iridi viola puntati fuori, il naso schiacciato contro il freddo vetro appannato. Alle mie spalle sentivo il respiro pesante di mio padre, che dormiva tranquillo. La trapunta che mi ero messa sulle spalle era scivolata sul pavimento. Mi alzai, stiracchiandomi e mi lisciai il largo e scolorito maglione che indossavo. Raccolsi gli stivaletti da terra ed, infilandoli, aprì la porta della roulotte, la mia casa.
Il vento mi aggredì appena misi i piedi per terra. Sentii le dita intorpidirsi. Le studiai con occhio attento, notando con la coda dell’occhio la voglia sul palmo della mano destra. Era enorme, ed assomigliava vagamente ad un teschio, a detta di alcuni miei coetanei. 
Tornai dentro a prendere la giacca di mio padre. 
Cominciai a correre, calpestando l'erba umida del mattino che inondava il campo, i capelli neri che svolazzavano alle mie spalle. La mattina presto, ero solita andare a ruzzare libera tra i carrozzoni. Mi piaceva ascoltare il cinguettio degli uccelli prima che il campo venisse invaso dagli altri ragazzini, che non facevano altro che litigare e strillare come ossessi. L’abbaiare di un cane mi riportò alla realtà. Voltai lo sguardo e vidi, con grande gioia, Luna. Era una cagna tutta bianca che apparteneva ad un amico di mio padre. Ogni mattina mi veniva accanto, come fosse stata mia. Le accarezzai il muso, lodandola come “la mia brava ragazza” e poi, insieme, ci avviammo verso il falò che accendevamo tutte le mattine, al centro del campo. Seduto, intento a sbucciare una mela, vi era Doson, il membro più vecchio di tutto il campo. Per quanto ne sapevo, era lì fin da quando ne avevo memoria. Era zoppo e camminava con le stampelle, che teneva poggiate sempre accanto a lui. Quella mattina si era accomodato su un ceppo di legno, il coltellino in mano. Tra le labbra gli pendeva una sigaretta. Mi rivolse un caldo sorriso: << Buongiorno Bimba! Buon compleanno! >> mi salutò.
Oh, già, era il mio compleanno. Compivo sedici anni.
Alzai la mano destra, salutandolo a mia volta con un cenno di questa. Lui gettò la sigaretta a terra, spegnendola con il piede.
<< Hai dormito bene? >> mi chiese, tagliando la mela in due parti. Me ne offrì una metà. Lo ringraziai: << Si, abbastanza. E tu Doson? >>.
Il vecchio morse la propria metà di mela: << Diciamo che ci sono state nottate migliori >> gracchiò, sputacchiando pezzettini di mela ovunque: << Ho ricevuto una lettera, da...un vecchio amico... >> rise, cupo << ...il postino aveva una faccia così schifata! >>. 
Risi, anche se brevemente. Era ovvio che il postino non volesse venire a consegnare lettere qui, in mezzo ai poveri e agli zingari. 
Sospirai, mordendo a mia volta la mia metà di mela. Il sapore succoso del frutto mi esplose in bocca. La finii in pochi minuti. Luna si era accucciata ai miei piedi, lo sguardo fisso sul fuoco che scoppiettava allegro, sollevando grosse fiammate per via del vento. 
Doson ingoiò l'ultimo pezzo di mela e tirò fuori dalla tasca del cappotto un flauto. Se lo portò alla bocca e cominciò a suonare. Lente e dolcissime note, che sentivo spesso la mattina presto. 
<< Doson, cosa diceva questa lettera? >> domandai, grattando la testa di Luna. La cagna si girò, a pancia all'aria. Le grattai anche quella. 
L'uomo anziano smise di suonare ed aggrottò le sopracciglia. Gli occhi color nocciola mi studiarono da cima a fondo.
Tentai un sorriso imbarazzato.
<< Questo mio vecchio amico..oggi arriva un ragazzo che lavora per lui, per aiutarmi un po'. Sai, ormai sono troppo vecchio per fare alcune cose e così.. >>
<< Capisco >> conclusi.
<< Poteva avvertirmi prima! Avrei fatto trovare la roulotte pulita! >> ridacchiò << o magari con qualche calzino buttato a casaccio in meno! >>. Non trovai la battuta molto divertente.
Restammo in silenzio qualche secondo, poi lui riprese a suonare. Questa volta, suonò una strana melodia, decisamente molto più allegra della prima. Un pettirosso atterrò ai piedi di Doson, che emetteva col flauto note più acute e dolci, che mi lasciarono a bocca aperta.
Non lo avevo mai sentito suonare così.
Ben presto arrivarono altri due pettirossi accanto al vecchio che presero a cinguettare a loro volta, spalancando le minuscole alette e mostrando orgogliosi il petto rosso, dal quale prendeva il nome la loro specie. 
Doson finì di suonare e gli uccelli volarono via:
<< Piccole creaturine! Cosi graziose, ma allo stesso tempo così schive nei confronti dell'uomo! >>
Annuii: << Chissà come soffrono quelli chiusi in gabbia, deve essere una tortura per loro, non trovi? >> dissi, osservando i tre pettirossi che volavano lontano.
Doson grugnì: << Lilith, gli uccelli rinchiusi in gabbia molto spesso nascono lì, e sono felici. Se venissero liberati, non saprebbero come sopravvivere >> guardò in alto, ripondendo il flauto in tasca << Se poi ne prendi uno libero e lo rinchiudi, è ovvio che soffre >>. Mi rivolse uno sguardo tenero, una strana luce gli faceva brillare gli occhi: << Noi siamo un po' come questi uccelli, vero? E quegli snob ricchi e stra ricchi sono gli uccelli in gabbia! >>. 
Mi morsi un labbro.
In realtà, anche io mi sentivo in gabbia.


Senza nessuna sorpresa, più tardi, il calore estivo decise di farsi sentire. 
Appesi la giacca di mio padre sul ramo di un albero e mi appoggiai al tronco, dalla corteggia ruvida e segnata dal tempo e dalle milioni di incisioni praticate dagli altri ragazzini. 
Sospirai, osservando le roulotte che finalmente avevano cominciato a prendere vita. Le donne erano tutte giù al fiume, a lavare i panni mentre tutti gli uomini, compreso mio padre ed escluso Doson, erano andati in città per cercare qualcosa di soldi.
Mi lasciai scivolare lungo l'albero, sedendomi ai piedi di questo. Attorcigliai attorno al dito un filo d'erba, la canzone di Doson che mi premeva sulle labbra. Chissà perchè, ma oggi tutti mi sembravano strani, compreso mio padre che quando mi era venuto a salutare, raccomandandomi di comportarmi bene, aveva quasi le lacrime agli occhi. Mi aveva consegnato un fazzoletto rosso dentro il quale vi era avvolto un bracciale. Una semplice catena d'argento, dal quale pendeva un prisma viola.
Il regalo per il mio sedicesimo compleanno.
Papà aveva detto che era di mia madre.
Persino Luna sembrava stranamente irrequieta. Ringhiava per cose assolutamente inutili e quando provai a riportarla dal suo padrone, cominciò ad abbaiare così forte che fui costretta a riprenderla e tenerla ancora con me.
Sospirai, alzando lo sguardo verso l'alto, osservando il cielo, che si scorgeva appena tra le fitte foglie dell'albero. 
Presto sarebbe arrivato l'autunno e poi l'inverno.Odiavo quelle stagioni. 
Papà non mi aveva mai permesso di uscire dalla roulotte, durante quel periodo. Diceva che era pericoloso.
Per me, per tutti.
Ed io non ho mai capito parchè. Mi capitava spesso di ammalarmi, anche di cose leggere, come un raffreddore. Mi sentivo sempre debole, la stanchezza s'impossessava di me, dormivo tutto il tempo. Per questo non ho molti ricordi.
Tranne uno, che mi ritorna in mente ogni volta che penso a quei lunghissimi mesi che passo rinchiusa lì, come un uccello in gabbia.
Ricordo che mio padre aveva aperto la porta della roulotte, facendo entrare Doson che reggeva in mano una bottiglietta, contenente un liquido giallognolo dall'aspetto poco invitante. 
Riordo di averne bevuto un sorso e di essermi sentita subito dopo, molto meglio. Quando avevo chiesto spiegazioni a mio padre, lui aveva scosso la testa ed era rimasto in silenzio.
Mia madre? Mia madre non c'è, scomparsa nel nulla, a detta di mio padre. Di lei, so solo che era una donna molto ricca, bella, letale. 
Da lei ho ereditato tutto, in pratica, sono l'unica del campo con la pelle così bianca. Alcune volte mi sento diversa.
Non ho amici qui.
Solo un vecchio matto, un cane bianco e..la mia roulotte, la mia prigione. 
Chiusi gli occhi e dopo qualche secondo, mi addormentai. I miei tormentati pensieri presero vita, lasciandomi sognare. 


Ombre.
Le vidi stagliarsi sul terreno, lunghe, snelle. Paura.
Nell'oscurità che le caratterizzava, non riuscii a scorgere nulla. Nessuno stava proiettando quelle ombre.
Quelle ombre erano vive..!



<< Credi sia sveglia? >> chiese una voce, una voce a me sconosciuta. 
Aprii lentamente gli occhi. Una strana sensazione di calore mi attanagliava le viscere. Ero sudata ed avevo la gola secca. 
Mi ritrovai davanti il volto di un ragazzo, si e no della mia stessa età, dai riccioli scuri. Gli occhi castani, vigili e attenti, puntati su di me. 
Balzai all'indietro, ricordandomi solo dopo di essere appoggiata ad un tronco di un albero. Finii con la nuca a sbattere sulla dura corteccia.
Grugnii, con le lacrime agli occhi: << Accidenti che botta! >> esclamò Doson, che era alle spalle del ragazzo riccioluto.
<< Uoh, visto? Ma che ci faccio io alle donne! >>. 
<< Questo qui è roba tua? >> sibilai tra i denti. Doson mi rivolse un occhiata truce: << E' il ragazzo venuto ad aiutarmi, si chiama.. >>
<< Leo Valdez, al vostro servizio..! Scusa per lo spavento comunque! >> mi tese la mano. 
Mani dalle dita lunghe e sottili, quasi perfette se non fosse stato per le minuscole cicatrici che aveva su queste e sul palmo. 
Doveva lavorare davvero molto con il metallo e roba del genere. 
Gli strinsi la mano e lui mi aiutò ad alzarmi: << Lilith >> mi presentai a mia volta. Luna scodinzolava, contenta ed abbaiava pochi passi più lontano da dove ci trovavamo noi tre. 
Sembrava molto più bianca del solito, quasi trasparente. Sbattei le palpebre.
Luna non era lì, quando riaprii gli occhi.
<< Dov'è Luna..? Non era lì, cinque secondi fa..? >> balbettai, confusa.
Leo mi rivolse uno sguardo serio, che giuro, non si adeguava nemmeno per sogno al suo viso da birbante e poi distolse lo sguardo, incrociando gli occhi di Doson.
<< Non le hai detto nulla? In sedici anni? >>. 
Il vecchio arrancò avanti, sorreggendosi sulle stampelle in legno: << Chirone ha detto che le ombre sarebbero arrivate il giorno in cui le barriere protettive sarebbero cedute! La pergamena mi è arrivata solo questa mattina.. >> e poi persi il filo del discorso.
Non capivo nulla di quello che stava succedendo. Un brivido mi percorse la schiena quando sentii una voce, ancora una volta sconosciuta, provenire dalle mie spalle:
<< Signor Doson, la squadra ovest mi ha appena informato: le barriere magiche della regina Persefone stanno per cedere. Le ombre stanno per arrivare >>. Mi voltai, e per poco non svenni per il terrore. 
La forma gelatinosa e biancastra del padrone di Luna, Hook, vestito con un'armatura che aveva tutta l'aria di essere greca (non chiedetemi come io sia riuscita a capirlo) mi osservava, divertito.
Doson impallidì:
<< E si vede! Stai scomparendo! >> ironizzò, Leo. 
<< Scomparire...? >> mormorai, ancora più confusa. Hook sorrise amaramente: << Lilith, principessa Lilith, non sa quale sia stato l'onore, la gioia, proteggerla contro Ade! Se posso chiedere, mi piacerebbe che voi metteste una buona parola.. >> non sentii ciò che disse Hook semitrasparente, perchè Leo mi aveva afferrato per un polso e mi aveva trascinata via con sé, lungo la collina che portava al campo. 
L'orrore fu enorme.
Tutte le persone che credevo di conoscere bene, tutte quelle che in qualche modo, avevano fatto parte della mia infanzia, stavano scomparendo.
<< Ma che cazzo sta succedendo?! >> strillai, dimenandomi. Doson correva dietro di noi.
Senza stampelle.
Ah, e al posto delle gambe aveva zampe caprine.
<< NO, OKAY. COSA C'ERA IN QUELLA MELA, DOSON?! >> gridai, ancora più forte. Mi avevano sicuramente drogata, sicuramente.
<< Non hai mai visto un satiro, bimba? E tutte quelle leggende che ti raccontavo quando eri bambina? >>.Ammutolii. 

 
"I satiri sono generalmente raffigurati come esseri umani barbuti con corna, coda e zampe di capra."

Leo continuava a trascinarmi, ma questa volta non puntai i piedi per terra. 
Ero troppo spaventata, troppo intimorita troppo tutto quello che volete, per reagire.
<< Sei...s-sei un SATIRO?! >> riuscii ad esclamare, quando il mio cervello prese conoscenza di quello che stava succedendo.
Il palmo della mano destra, quello su cui vi era la voglia a forma di teschio, aveva preso a bruciare.
<< No, guarda. E' solo un uomo che non si è mai fatto la barba, che è cresciuta fino ad arrivare alle gambe! >>. 
Doson gracchiò un paio d'imprecazioni, di quelle simili a "razza di teppistello". Per quanto la scena fosse comica, non riuscivo a ridere.
Anzi, mi veniva da piangere.
<< Ma cosa sono tutte quelle cose gelatinose? >>
<< Fantasmi, Lilith >>. 
Eravamo arrivati davvero al limite dell'assurdo. Un boato risuonò per il campo mentre zigzavamo tra le roulotte.
Sentii gridare qualcuno: << LA BARRIERA, E' CADUTA LA BARRIERA! >>. Leo affrettò la corsa, costringendomi a correre a mia volta ancora più forte. Non riuscivo quasi più a respirare ed ogni piccolo  respiro era come una pugnalata in petto.
Sentivo di star per svenire, mi girava la testa.
Un gelo mi avvolse le membra e poi fu tutto buio.

Nero.
Oscuro.
Una nuvola di vapore viola-bluastra.
La figura di una donna dai lunghi capelli mossi, scuri e gli occhi viola prese il posto di questa: << Figlia mia >> sussurrò. La sua voce assomigliava al fruscio del vento in un campo di grano. Dolce, ma allo stesso tempo triste e cupo. 
<< Sii, forte. La tua ora non è ancora giunta. Tu sei un uccello, un uccello libero... >>
<< Mamma..? Tu sei mia madre? >> singhiozzai. Lei mi sorrise, ed annuì.
<< PERSEFONE! >> un'altra voce, proveniente dall'oscurità più remota. La donna che ammetteva di essere mia madre mi guardò. Una lacrima solitaria le solcò il viso, una sola. 
Poi ancora nero. Oscuro.


Mi svegliai tutta indolenzita, accaldata e sudata. Stesa sull'erba, accanto ad un fuocherello scoppiettante. 
Per pochi secondi pensai di essere ancora al campo.
Ma poi vidi Doson che trotterellava attorno ad un albero, con gli zoccoli che scalpitavano sul terreno. Leo lavorava con un filo sottile di ferro, piegandolo una, due, tre e ancora più volte. Le sue dita si muovevano così velocemente che non riuscivo a capire cosa stesse facendo.
Doson si accorse di me e con un balzo, mi fu accanto: << Ehi, bimba! Ben svegliata! >> un'espressione di puro sollievo gli decorava il volto. 
Scossi la testa, anche se in realtà mi sentivo bene.
Ero solo molto, molto, confusa.
<< Allora...allora non era un sogno! >> gemetti, mettendomi a sedere. La giacca che avevo sulle spalle mi scivolò in grembo: << Se hai freddo, puoi tenerla, quella >> disse Leo, senza distogliere lo sguardo dal filo metallico con cui continuava a trafficare. 
Mi portai una mano alla tempia, esausta: << Qualcuno, qualcuno può spiegarmi cosa è successo? >>. Un pettirosso volò da un ramo ad un altro, fischiettando allegro. Doson aprì la bocca per dire qualcosa, ma la richiuse subito dopo: << Forse..forse è meglio arrivare prima al campo! >>
<< Al campo? Torniamo indietro? >> domandai, stupita.
Leo finì di trafficare con il filo metallico. Sul palmo, ora, aveva un uccellino che sbatteva le ali e pigolava. 
Sorrise, divertito: << Ma no, quel campo a cui ti riferisci è stato distrutto >>
Ed improvvisamente il mondo mi corllò addosso. 
Doson gli rifilò un'occhiataccia: << Magari con un minimo di dolcezza no, eh? >>. Si grattò l'ispida barba grigia: << Non preoccuparti, non è morto nessuno..anche perchè erano già tutti morti..! >>.
Il mondo mi crollò addosso due volte.
<< Alla faccia della dolcezza, Doson >>. Chiusi gli occhi e respirai profondamente: << Mi stai dicendo che mio padre è morto? >> la voce mi si spezzò in gola.
Leo poggiò l'uccellino di metallo per terra e si sedette incrociando le gambe: << No, no. Tu, Doson e tuo padre eravate le uniche persone vive al campo >> rispose.  
Tirai un sospiro di sollievo.
Doson mi accarezzò la testa: << Ce la fai a metterti in marcia? >>.
Annuii: << Ma prima..ma prima voglio delle spiegazioni. E subito >> replicai, con voce roca. Il vecchio (e qui si dovrebbe aggiungere satiro) si mordicchiò il pollice: << Ragazza mia, sto per raccontarti una storia molto triste. Riguarda tua madre e tuo padre..molto tempo fa >>.
Mi preparai psicologicamente ad ascoltare. 
Dopo ciò che avevo visto, sentito, provato, non ero ancora pronta ad ascoltare nuove stramberie, in particolare se quelle stramberie mi venivano raccontate da un uomo con le zampe troppo pelose ed un ragazzino che riusciva a far prendere vita agli oggetti. 


Ciao a tutti!
Ecco la mia prima ff, spero vi piaccia!
Diciamo che è da un po' di tempo che mi frulla in testa questa idea..in praticada quando ho visto una foto su una pagina facebook che raccontava appunto perchè i figli di Persefone sono così rari. Ho voluto sempre pubblicarla, ma..diciamo che ero indecisa su quale personaggio principale maschile dovevo buttare lì in mezzo, lol. La scelta era fra Nico e Leo. Ho optato per il focoso sedicenne. Accetto tutti i consigli, perchè so che non è perfetta! Recensite in tanti!
Beh, al prossimo capitolo!
-Skin_






























 
  
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