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Autore: Carmen Black    31/01/2014    2 recensioni
Quando un’anima ti cerca, un’anima che sarà sempre legata a te indissolubilmente, come puoi voltargli le spalle?
Non puoi.
Genere: Romantico, Sentimentale, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Edward Cullen, Isabella Swan | Coppie: Bella/Edward
Note: AU, OOC | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nessun libro/film
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Questa notte l’abbiamo trascorsa insieme.
Siamo stati nel luogo dove molto spesso ci ritrovavamo a parlare, a litigare e a baciarci: la sua auto.
Era come se il tempo che ci divide non fosse mai trascorso. Eravamo io e lui, quelli di sempre.
Seduto scomposto dal lato del guidatore, i suoi occhi chiari vagavano al di là del parabrezza, verso le palme che ondeggiavano infastidite dalla brezza marina.
E si confidava con me. Mi raccontava di come stesse per costruire le basi della sua vita futura, la vita da adulto, su uno strato di pastafrolla.
Io lo ascoltavo stringendo i manici della mia borsa, in silenzio. Avvertivo una punta di soddisfazione nella sua consapevolezza e solo perché sin dall’inizio della sua nuova storia avevo cercato di fargli aprire gli occhi in tutti i modi.
La mia non era gelosia, come aveva subito pensato, era qualcosa di totalmente diverso che allora non poteva ancora comprendere e forse anche adesso avrebbe qualche dubbio nel farlo.
Volevo solo il meglio per lui . Ecco tutto. Desideravo che al suo fianco ci fosse una brava ragazza che sapesse amarlo e sapesse farlo stare bene. Una ragazza che lui stesso potesse amare a sua volta senza alcuna riserva e non per un semplice ripiego, o peggio ancora per convenienza.
Si passò una mano nei capelli ramati con afflizione, le labbra carnose arricciate. «Ho sbagliato sin dall’inizio», sussurrò a bassa voce.
«Come?», chiesi non convinta di aver capito bene.
«Non avrei dovuto approfondire il rapporto con lei. Non avrei dovuto farmi incantare dai suoi soldi e da tutto ciò che aveva».
Lei. L’altra. Una ragazza dall’aspetto non molto gradevole, ma con la fama di grande amante e grande accalappia uomini.
L’ultimo caduto nella sua rete era stato quello che avevo sempre creduto potesse diventare l’uomo della mia vita e con cui avevo trascorso dodici anni dei miei venticinque. Un ragazzo pulito, forse non molto incline ai rapporti interpersonali… Ma era la luce dei miei occhi. Era mio.
Le persone ci invidiavano chiedendoci quale fosse il nostro segreto. Come facessimo a stare insieme da così tanto tempo senza stancarci l’uno dell’altro.
«Si ha sempre un’altra scelta», gli dissi. «Fai un passo indietro».
«No, non posso. Ormai è tutto pronto. È domani».
Mentre mi guardava i suoi occhi tremavano, sul loro fondo leggevo tante di quelle emozioni contrastanti che per un attimo rimasi basita.
«Non stiamo parlando di una passeggiata… Prendi in mano la tua vita».
Nel tempo mutai da amica a fidanzata e adesso addirittura a consigliera. Che banale cliché.
Ma quando un’anima ti cerca, un’anima che sarà sempre legata a te indissolubilmente, come puoi voltargli le spalle?
Non puoi.
«Quel poco che ho costruito crollerebbe», mi confidò con una punta di vergogna nella voce.
Già… il suo lavoro, la casa, l’auto. I soldi. Mi venne l’istinto incontrollato di dirli che insieme avremmo ricostruito tutto, mattone dopo mattone. Che solo la morte non lascia speranza. Ma non ci riuscii. «Ha comprato il tuo amore».
«Amore?», ridacchiò in quel modo che mi piaceva e che avevo quasi dimenticato.
«Sei uno stupido. E sei qui persino a confessarmelo, dopo tutto il tempo in cui non ci siamo né visti né parlati. Che cosa vuoi ottenere?».
«Volevo solo che tu lo sapessi», bisbigliò.
Mise in moto e ingranò la marcia. Intorno a noi c’era solo buio. Possibile che tutti i lampioni fossero spenti?
Ripensavo di continuo alle sue parole, non riuscendo però a trovare un senso logico.
Io e lui ci eravamo amati un tempo, di un amore che non svanisce nemmeno con la morte, perché nato nella purezza più assoluta. Un tempo in cui i nostri destini camminavano di pari passo. Avevamo condiviso sogni e desideri e fatto progetti per il futuro. Un possibile matrimonio, un giorno. Ci eravamo lasciati, eppure non ci eravamo mai odiati come spesso succede alle coppie che si dividono per sempre. Tra di noi c’era sempre quel filo rosso che non ne voleva sapere di sciogliere i suoi nodi. Io lo sentivo, lui lo sentiva. E non importava se ognuno di noi avesse preso una strada differente, accostandosi ad altre persone. Nel momento in cui ci vedevamo, anche solo da lontano, il mondo scompariva e c’eravamo solo noi.
«Vieni».
Mi destai dalle mie riflessioni, accorgendomi solo allora che aveva parcheggiato l’auto. Conoscevo bene quella via, la percorrevo centinaia di volte al giorno, ma quel negozietto con le tende gialle non l’avevo mai visto. E perché era aperto alle quattro del mattino?
«Vieni dove?».
Aprì la mia portiera e mi porse una mano che non afferrai. Lui strinse i denti e non insistette oltre.
Mi precedette sospingendo la porta specchiata del negozietto e attendendo che anche io entrassi. Uno scampanellio curioso ci accolse.
«Scegli», mi ordinò affiancandosi a me. Il suo petto sfiorava il mio braccio.
La commessa non badava a noi, quasi non ci vedesse. Era indaffarata in altro.
Lui mi indicò una minuscola vetrinetta dov’erano racchiuse alcune graziose ampolle, della grandezza di un dito.
«Vuoi farmi un regalo?», chiesi accigliata.
«Sì, scegli».
«No, non voglio nulla». Feci un passo indietro, ma lui mi afferrò il gomito avvicinandomi di nuovo. «Devi scegliere», ripeté cercando di mantenere la voce ferma.
Non ne capii il motivo, ma sentii di non potermi tirare indietro. Era come se qualcosa di più forte mi impedisse di farlo.
Osservai le ampolle di vetro, una dopo l’altra. Al loro interno c’era qualcosa, ma non riuscivo a vedere cosa.
«Quella», ne indicai una con l’indice macchiando il vetro cristallino della vetrinetta.
Fu lui che la tirò fuori dall’urna. Mi prese una mano, mi aprì il palmo e l’abbandonò su di essa.
«Anche stavolta hai fatto la scelta giusta», si congratulò con soddisfazione.
Lo guardai negli occhi per cercare di comprendere le sue parole. Non mi era così vicino da un tempo che ormai avevo dimenticato. Un tempo a cui mi ero rassegnata e che sapevo che sarebbe diventato sempre più insormontabile.
«Scelta giusta», ripetei le sue parole.
La piccola ampolla luccicava sotto i faretti del soffitto. Ed era leggera e pesante allo stesso tempo. Una strana considerazione. Al suo interno adesso distinguevo qualcosa.
«Rimarrà qui. Sempre. In modo che nessuno possa portarcelo via», sussurrò al mio orecchio.
Feci ruotare l’ampolla. Delle roselline rosse circondavano una targhetta dov’era incisa una parola.
Amore.
 
Un fascio accecante di luce mi fece strizzare gli occhi. Un forte vento mi avvolse facendomi rabbrividire.
Quando riaprii le palpebre un sole splendente brillava in cielo. Lo guardai aprendo un sorriso e respirando a pieni polmoni. Ero felice e non ne ricordavo il motivo.
Nell’aria c’era odore di incenso. A pochi passi da me vidi i battenti di una chiesa spalancati, tantissima gente elegantemente vestita che sorrideva tra i banchi, un parroco che attendeva con le braccia aperte, l’arrivo di qualcuno.
«Eccoci». Era la sua voce.
Era seduto scomposto su una panchina poco distante dall’entrata dalla chiesa, con le braccia allungate sullo schienale e la testa china. Il jeans e la camicia che indossava erano sgualciti.
«Che cosa stai facendo lì? Devi entrare in chiesa», lo rimproverai.
«Come faccio?».
«Come hai fatto fin’ora».
«Non posso», soffiò afflitto.
«Allora ricorda che si ha sempre un’altra possibilità», gli ripetei come avevo fatto poco prima in auto.
«Dici?».
«Sì. Andiamo via».
«No, non posso».
Deglutii e mi morsi la lingua per impedire a me stessa di parlare ancora. Di dire sciocchezze. Non volevo essere io a convincerlo a prendere la decisione di mollare tutto. Doveva essere lui a capire che il prezzo che avrebbe pagato mandando le sue nozze a monte non sarebbe mai stato enorme quanto vivere una vita che non voleva, costretto dalle convenzioni e da quell’orgoglio che lo aveva sempre posseduto fino alla stupidaggine, certe volte.
«Non posso. Non posso. Non posso».
«Prendi una decisione una volta per tutte. Scegli ciò che vuoi per la tua vita e non fare il codardo. Non sei più un ragazzino».
I suoi occhi lucidi incontrarono i miei in una velata supplica.
Si alzò dalla panchina e mi condusse di nuovo nell’auto. La sua espressione era indecifrabile come solo poche volte lo era stata.
Di nuovo il buio totale intorno a noi, un silenzio opprimente che gravava nel corpo e nella mente.
Dal nulla apparve una fontana circolare di arenaria nera che conoscevo molto bene. Lui al mio fianco mi sorrideva e di riflesso ricambiai. Se era felice lui lo ero anche io. Sempre e comunque.
Aprì la mia portiera e mi porse la mano che stavolta accettai. Era caldo. Riconoscevo la sua pelle contro la mia, le sue dita incrociate alle mie.
Di fronte a noi c’era una chiesa, quella della nostra infanzia, da dove spesso eravamo scappati via per non ascoltare l’estenuante predica del parroco, troppo lunga per dei ragazzini di quindici anni.
Insieme salimmo la lunga scalinata mentre in cielo comparivano dei grossi nuvoloni neri che mangiavano i raggi splendenti del sole. Una pioggerellina fresca e fitta iniziò a cadere su di noi.
Alla fine della scalinata c’erano i battenti della chiesa. Sbarrati con delle travi.
«Non si può entrare», sbiascicai confusa.
Lui mi fissò in silenzio trattenendo le mie mani nelle sue. Era serio, il sorriso di poco prima era svanito. «Mi dispiace», mimò con la bocca senza la più piccola traccia di voce.
Mi baciò la fronte. Riconobbi anche il tocco delle sue labbra. Poi fece un passo indietro. E un altro ancora. Si voltò e riscese i cento gradini della scalinata, infilandosi in auto.
I vetri oscurati mi impedirono di vederlo. Sentii solo il rombo del motore, forte come un tuono, finché non si disperse nell’aria, proprio come lui.
Ed io rimasi lì con lo sguardo vacuo, le braccia strette intorno al corpo e la pioggia che mi inzuppava i capelli e i vestiti.
Aveva preso la sua decisione.
Aveva scelto.
 
Mi svegliai di scatto con un sussulto. Non appena aprii le palpebre un fiume di lacrime mi colò lungo le guance bagnando il cuscino.
È un sogno. È  un sogno. È solo un sogno.
E allora perché non smettevo di piangere?
No, che non era solo un sogno.
Sapete… certe persone sono così legate, così profondamente legate, che non basta la distanza o dei rancori a dividerle. Perché lì dove il corpo non riesce ad arrivare per difficoltà mentali o fisiche, lì ci arriva l’anima. E l’anima è priva di orgoglio, di rabbia e di tutte le emozioni umane che condizionano l’uomo. L’anima è pura, è onesta.
È venuto da me perché desiderava farlo e non aveva altro modo che farlo così. In sogno. È venuto a confessare le sue paure e i suoi errori prima di fare il grande passo. Giusto o sbagliato che sia, l’ha fatto.
Ora so. Lui sa.
Qualunque cosa succeda nel corso della nostra vita, a qualsiasi altra persona ci legheremo, rimarremo l’uno per l’altro sempre la stessa cosa…
Il Vero Amore.
 
 
Angolino Autrice

Scusatemi, ma i sogni mi stanno devastando. Questo è fresco fresco, giusto di stanotte. Uno dei protagonisti purtroppo ero io... ma ho voluto associarla ai personaggi per cui ho già scritto tante altre storie. E' meglio così.
Spero vi piaccia. A presto! :)
  
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