Le pécheur remont l’Enfer
Non
so cosa effettivamente mi abbia scatenato, privo di forze
com’ero. Dodici anni
di buio ed ingiustizia ti squartano dentro, e la ferita sembra
sanguinare in
eterno, viva e dolorosa, ogni notte, ogni giorno.
Però
ci ero finalmente riuscito: ero fuori.
Gli
altri detenuti erano troppo stanchi o affranti per notare come un cane,
in
tutta la sua magrezza, scivolasse fra le sbarre incantate quasi fosse
acqua. I Dissennatori
non avrebbero mai potuto percepire una felicità non umana.
Ce
l’avevo fatta. Non ero più umano.
Destreggiarmi
per i cunicoli e le scalinate lerce di Azkaban fu facile,
poiché nessuno si
accorgeva di me. Una volta raggiunta la scogliera rocciosa,
l’aria fredda e
salmastra mi rinvigorì un poco. Ero così felice
che non resistetti all’impulso
canino: feci la pipì della felicità.
Scodinzolando mi guardai indietro
un’ultima volta. Quell’enorme, insormontabile
prisma di ossidiana e ardesia
stava ormai alle mie spalle. Ci avrebbero messo del tempo prima di
scoprirmi,
ma non attesi oltre. Uggiolando, mi lanciai nelle onde spumeggianti del
Mare
del Nord.
Prima
di quel giorno non l’avevo mai saputo, comunque, soffrivo il
mal di mare. Il
moto ondoso mi trascinava e mi sbatacchiava dove voleva, ed io, solo e
senza
forze, non potevo che assecondarlo. Cinquanta chilometri di mareggiata
non sono
esattamente l’ideale per chi trascorre dodici anni a pane
duro ed acqua putrida
una sola volta al giorno.
Quando
l’acqua mi rigurgitò su degli scogli ero ancora
più incredulo di quando fossi
partito, un giorno, un mese, una vita prima. Certo, risalire quelle
sporgenze
rocciose e umide mi procurò una bella ferita e
più di qualche problema. Non
avevo quasi più senso di me stesso, trascinandomi dentro
un’ansa fra gli scogli
neri, mentre la pioggia mi frustava il pelo e al mio naso saliva
l’odore del
sangue. Mi accasciai stremato e infreddolito non sapevo bene dove. La
mia
lucidità andava scomparendo, così tentai
disperatamente di recuperarla.
Ripensai
al motivo per cui ero scappato, al perché desideravo
ardentemente uscire da
quella cella, fuggire alla mia prigionia profondamente ingiusta.
Davanti agli
occhi chiusi mi lampeggiavano degli strani bagliori violacei che
sfumavano in
verde e in rame, poi in giallo, con delle forme stranamente geometriche
e
luccicanti e concetriche. Poi d’un tratto la mia memoria
richiamò l’immagine di
un vecchio giornale, una prima pagina.
La
fortuna gira, i Weasley ne
vengono investiti in pieno.
Titolo particolarmente poco interessante per la mia situazione in quel
momento.
Senza contare che anche Cornelius Caramell, l’illustrissimo
idiota stava ora a
capo di tutti quegli inetti al Ministero della Magia, considerava
quella prima
pagina della Gazzetta del Profeta
una
cosa da poco conto, scaraventandola via al suo passaggio davanti alla
mia umile
cella, senza nemmeno degnarmi di una delle sue vacue occhiate da pesce
lesso.
La brezza mortale che accompagnava un Dissennatore fece arrivare il
foglio a
portata delle mie dita. Così avevo allungato la mano,
constatando quanto esile
fosse ora il mio polso e magre e aguzze le mie dita, in balia
dell’impulso di
verificare se dopo anni di buio, i miei occhi ricordavano cosa
esattamente
significassero centinaia di caratteri affiancati gli uni agli altri.
Quando
però avevo gettato un’occhiata alla foto che
sottostava al titolo, leggere non
fu più una priorità.
Nel
riquadro in bianco e nero si muovevano sette figure, tre delle quali
riconobbi
a prima vista. Molly Prewett era sempre la stessa donnina paffutella e
ricciuta
e suo marito, Arthur Weasley, mio lontano parente, era il solito
babbanofilo
allampanato, anche se sulle sue tempie di faceva strada una calvizie
incipiente
e aveva qualche ruga in più del solito.
La
terza cosa che riconoscevo nel riquadro, accanto a tutte quelle teste
che
dovevano essere di un rosso fiammante – se la genetica non
aveva deciso di
scherzare con i cromosomi di Prewett e Weasley, non poteva essere
esattamente
definita una persona.
Lurido
topo.
Fu l’unica cosa che riuscii a pensare. Era lì,
il voltagabbana, il motivo della mia carcerazione, l’unica
ragione per la quale
mi rifiutavo di lasciarmi morire, la spiegazione che mi rammentava il
mio
essere innocente. Un luridissimo topo, che in una zampa anteriore
mancava di un
ditino artigliato. Stesso colore sbiadito, stesso ventre bianco e
grasso. Se la
spassava, non c’era altra
spiegazione. Quello sporco bastardo traditore che per dodici anni
sarebbe
dovuto stare in quella cella al posto mio,
con il mio dolore, la mia sofferenza, a subire la mia pena, recitava la parte del tenero
animaletto di casa, il simpatico cucciolo da compagnia di un tredicenne
con la
faccia lentigginosa ed una perfetta pettinatura a fungo –
presumibilmente
rossa, in una casa che sapevo essere calda e accogliente, pregna di
profumi
caserecci. Una strana saliva acida m’invase in palato.
Guardando quella foto
ero furente.
Oh,
questo non dovevi farlo,
Codaliscia. È stato un enorme, grosso, strabiliante,
madornale errore.
Degno di te, del resto.
Quella
pagina di giornale, quella foto, quel topastro: questo era il motivo
per cui
ero riuscito a trasformarmi di nuovo in Felpato.
La
vendetta.
Io
ero il burattino di pezza, e l’algida e fredda signora
Vendetta stringeva i
miei fili con cura, senza mai lasciarli andare.
Ricordavo
distrattamente come mi fossi ritrovato ai piedi di una collina,
investito da
una pioggia che poteva essere soltanto inglese. Mi ero Smaterializzato
– non
potevo crederci, né avevo forza e lucidità
sufficienti per farlo. Riaffiorarono
frammenti di azioni indistinte, luoghi sconosciuti, e tutto turbinava
intorno a
me.
Caddi
nuovamente sulla pietra fredda - rocce di montagna, niente a che vedere
con
l’acqua. Non sentivo più l’odore del
sale, ma assieme al sangue un altro
effluvio più morbido sgomitava nelle mie narici
ipersensibili – pioggia e
foglie secche? Fumo? Non capivo, ero troppo stordito.
Prima
di accoccolarmi su me stesso, stringendomi forte la coda fra le zanne
sporche
per non pensare al dolore che mi lacerava il fianco, con sollievo mi
dissi:
peccatore, hai risalito l’Inferno.