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Autore: Mayuko    10/06/2008    2 recensioni
Chi risale l'Inferno ha molto più da raccontare di chi ha conosciuto tutte le meraviglie del mondo.
Genere: Triste, Malinconico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Sirius Black
Note: Cross-over | Avvertimenti: Spoiler!
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Le pécheur remont l’Enfer

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Non so cosa effettivamente mi abbia scatenato, privo di forze com’ero. Dodici anni di buio ed ingiustizia ti squartano dentro, e la ferita sembra sanguinare in eterno, viva e dolorosa, ogni notte, ogni giorno.

Però ci ero finalmente riuscito: ero fuori.

Gli altri detenuti erano troppo stanchi o affranti per notare come un cane, in tutta la sua magrezza, scivolasse fra le sbarre incantate quasi fosse acqua. I Dissennatori non avrebbero mai potuto percepire una felicità non umana.

Ce l’avevo fatta. Non ero più umano.

Destreggiarmi per i cunicoli e le scalinate lerce di Azkaban fu facile, poiché nessuno si accorgeva di me. Una volta raggiunta la scogliera rocciosa, l’aria fredda e salmastra mi rinvigorì un poco. Ero così felice che non resistetti all’impulso canino: feci la pipì della felicità. Scodinzolando mi guardai indietro un’ultima volta. Quell’enorme, insormontabile prisma di ossidiana e ardesia stava ormai alle mie spalle. Ci avrebbero messo del tempo prima di scoprirmi, ma non attesi oltre. Uggiolando, mi lanciai nelle onde spumeggianti del Mare del Nord.

Prima di quel giorno non l’avevo mai saputo, comunque, soffrivo il mal di mare. Il moto ondoso mi trascinava e mi sbatacchiava dove voleva, ed io, solo e senza forze, non potevo che assecondarlo. Cinquanta chilometri di mareggiata non sono esattamente l’ideale per chi trascorre dodici anni a pane duro ed acqua putrida una sola volta al giorno.

Quando l’acqua mi rigurgitò su degli scogli ero ancora più incredulo di quando fossi partito, un giorno, un mese, una vita prima. Certo, risalire quelle sporgenze rocciose e umide mi procurò una bella ferita e più di qualche problema. Non avevo quasi più senso di me stesso, trascinandomi dentro un’ansa fra gli scogli neri, mentre la pioggia mi frustava il pelo e al mio naso saliva l’odore del sangue. Mi accasciai stremato e infreddolito non sapevo bene dove. La mia lucidità andava scomparendo, così tentai disperatamente di recuperarla.

Ripensai al motivo per cui ero scappato, al perché desideravo ardentemente uscire da quella cella, fuggire alla mia prigionia profondamente ingiusta. Davanti agli occhi chiusi mi lampeggiavano degli strani bagliori violacei che sfumavano in verde e in rame, poi in giallo, con delle forme stranamente geometriche e luccicanti e concetriche. Poi d’un tratto la mia memoria richiamò l’immagine di un vecchio giornale, una prima pagina.

La fortuna gira, i Weasley ne vengono investiti in pieno. Titolo particolarmente poco interessante per la mia situazione in quel momento. Senza contare che anche Cornelius Caramell, l’illustrissimo idiota stava ora a capo di tutti quegli inetti al Ministero della Magia, considerava quella prima pagina della Gazzetta del Profeta una cosa da poco conto, scaraventandola via al suo passaggio davanti alla mia umile cella, senza nemmeno degnarmi di una delle sue vacue occhiate da pesce lesso. La brezza mortale che accompagnava un Dissennatore fece arrivare il foglio a portata delle mie dita. Così avevo allungato la mano, constatando quanto esile fosse ora il mio polso e magre e aguzze le mie dita, in balia dell’impulso di verificare se dopo anni di buio, i miei occhi ricordavano cosa esattamente significassero centinaia di caratteri affiancati gli uni agli altri.

Quando però avevo gettato un’occhiata alla foto che sottostava al titolo, leggere non fu più una priorità.

Nel riquadro in bianco e nero si muovevano sette figure, tre delle quali riconobbi a prima vista. Molly Prewett era sempre la stessa donnina paffutella e ricciuta e suo marito, Arthur Weasley, mio lontano parente, era il solito babbanofilo allampanato, anche se sulle sue tempie di faceva strada una calvizie incipiente e aveva qualche ruga in più del solito.

La terza cosa che riconoscevo nel riquadro, accanto a tutte quelle teste che dovevano essere di un rosso fiammante – se la genetica non aveva deciso di scherzare con i cromosomi di Prewett e Weasley, non poteva essere esattamente definita una persona.

Lurido topo. Fu l’unica cosa che riuscii a pensare. Era lì, il voltagabbana, il motivo della mia carcerazione, l’unica ragione per la quale mi rifiutavo di lasciarmi morire, la spiegazione che mi rammentava il mio essere innocente. Un luridissimo topo, che in una zampa anteriore mancava di un ditino artigliato. Stesso colore sbiadito, stesso ventre bianco e grasso. Se la spassava, non c’era altra spiegazione. Quello sporco bastardo traditore che per dodici anni sarebbe dovuto stare in quella cella al posto mio, con il mio dolore, la mia sofferenza, a subire la mia pena, recitava la parte del tenero animaletto di casa, il simpatico cucciolo da compagnia di un tredicenne con la faccia lentigginosa ed una perfetta pettinatura a fungo – presumibilmente rossa, in una casa che sapevo essere calda e accogliente, pregna di profumi caserecci. Una strana saliva acida m’invase in palato. Guardando quella foto ero furente.


Oh, questo non dovevi farlo, Codaliscia. È stato un enorme, grosso, strabiliante, madornale errore. Degno di te, del resto.


Quella pagina di giornale, quella foto, quel topastro: questo era il motivo per cui ero riuscito a trasformarmi di nuovo in Felpato.

La vendetta.

Io ero il burattino di pezza, e l’algida e fredda signora Vendetta stringeva i miei fili con cura, senza mai lasciarli andare.


Ricordavo distrattamente come mi fossi ritrovato ai piedi di una collina, investito da una pioggia che poteva essere soltanto inglese. Mi ero Smaterializzato – non potevo crederci, né avevo forza e lucidità sufficienti per farlo. Riaffiorarono frammenti di azioni indistinte, luoghi sconosciuti, e tutto turbinava intorno a me.

Caddi nuovamente sulla pietra fredda - rocce di montagna, niente a che vedere con l’acqua. Non sentivo più l’odore del sale, ma assieme al sangue un altro effluvio più morbido sgomitava nelle mie narici ipersensibili – pioggia e foglie secche? Fumo? Non capivo, ero troppo stordito.

Prima di accoccolarmi su me stesso, stringendomi forte la coda fra le zanne sporche per non pensare al dolore che mi lacerava il fianco, con sollievo mi dissi: peccatore, hai risalito l’Inferno.

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