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Autore: Maria90    01/02/2014    0 recensioni
Come sarebbe se ci si ritrovasse catapultati all'improvviso in un mondo surreale, incredibile e popolato da strane, violente creature? E se si dovesse lottare per salvare qualcuno che ha chiesto il tuo aiuto?
Questo è quello che è successo a Shana e Jakob, i protagonisti della storia.
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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POV Shana
 
Era una fredda mattina, piovosa; la classica giornata durante la quale l’unico motivo valido per scendere dal letto è quello di sedersi davanti alla tv a guardare film smielati bevendo tazze giganti di cioccolata calda. Magari in compagnia di amiche.
Eppure ero fuori, in lotta perenne contro il vento gelido che cercava di portarsi via il mio ombrello, unico riparo contro la pioggia scrosciante. Ma sembrava essere lui ad avere la meglio rispetto alle mie esili, impotenti braccia.
Infatti arrivai bagnata come un pulcino e completamente intirizzita davanti alle porte scorrevoli dell’ospedale.
Entrai, scrollandomi i capelli quasi come avrebbe fatto un cane giunto al suo appartamento, per la gioia del padrone, ma nessuno ci fece particolare caso per fortuna. Il viavai era il solito di tutti i giorni, con camici svolazzanti a destra e sinistra e pazienti moribondi accalcati nelle varie sedie disponibili.
Quella mattina, però, non mi interessava il Pronto Soccorso; ero diretta al reparto lì accanto, dove andavo con puntualità due volte l’anno per donare il sangue.
Ormai conoscevo la strada, per cui tralasciai l’omino basso e tozzo dietro al reparto informazioni e tirai dritto, proseguendo per il lungo corridoio fino all’altra costruzione. L’odore di sangue misto a medicinali e disinfettante non mi abbandonò un solo istante. Ma lo trovavo piacevole, mi ricordava le ore passate a fare volontariato con la mia Pubblica Assistenza.
Quando arrivai davanti alla porta verso la quale ero diretta, tutti i miei pensieri svanirono in una nuvola di fumo. Attraversai la soglia, sedendomi in uno degli spazi vuoti e osservandomi intorno mentre attendevo di essere chiamata.
La stanza era perfettamente pulita, quasi come se la polvere non riuscisse ad attecchirvi, e tutti i lettini erano disposti in modo ordinato lungo i due muri che correvano parallelamente uno all’altro. Accanto a ognuno di essi era riposto il materiale che, pian piano, avevo imparato a conoscere: la sacca che sarebbe stata usata per contenere il sangue raccolto, la fialetta mediante la quale i responsabili avrebbero svolto le analisi di routine su un campione prelevato, e la bilancia mobile che non solo favoriva il riempimento della sacca, ma si preoccupava anche di emettere un “bip” una volta raggiunta la quantità sufficiente. Infine, nei vari cassetti, non mancavano aghi, lacci emostatici, cerotti e tutto il necessario per gli infermieri adibiti al reparto.
 
«Prego signorina, può venire.»
 
Mi alzai di scatto, tanto da far credere che mi avesse punta uno spillo, e, arrossendo vistosamente, seguii la giovane Dottoressa dentro una delle tre sale visita. La porta venne chiusa alle mie spalle.
 
«Si accomodi pure. E’ la prima volta che dona il sangue?», mi chiese con inflessione gentile e accomodante, mentre prendevo posto davanti a lei.
 
«No, è da parecchio che mi reco qui». Non potevo certo sperare che qualcuno si ricordasse di me; venivo soltanto due volte l’anno e persino io non avevo mai incontrato la stessa Dottoressa o Infermiera.
 
«Allora saremo veloci. Ha subito interventi chirurgici, cure dentistiche o trapianti di recente? Ha fatto viaggi in Paesi a rischio? Ha contratto malattie infettive? Ha avuto rapporti non protetti con partner a rischio? Ha particolari allergie, soffre di asma o sta seguendo una particolare cura farmacologica? E’ a conoscenza di eventuali malattie autoimmuni, neoplasie o malattie cardiovascolari di cui può essere affetta? Ha fatto vaccini, piercing o tatuaggi di recente?».
 
Finalmente l’interminabile sequela di domande ebbe termine. Risposi di no a tutte, visto che dall’ultimo tatuaggio erano passati più di sei mesi, e la Dottoressa riportò le mie risposte sul foglio che stava compilando.
Aggiunse anche i miei dati personali, prima di recuperare lo stetoscopio e lo sfigmomanometro posati sul tavolo.
Strinse l’apparecchio attorno al mio braccio e misurò la pressione.
 
«60-110. Un po’ bassa ma nei limiti».
 
Terminò pungendomi con un piccolo ago la punta del medio, per valutare il livello di ferro nel sangue, ed evitò di pesarmi, valutando probabilmente a occhio che non rischiavo l’anoressia.
Mi fece accomodare in uno dei lettini liberi e mi indicò ad una delle Infermiere. La vidi venirmi incontro subito, col sorriso di circostanza stampato sul viso. Di certo non potevano trattare male le persone che si recavano lì, visto che lo facevano di propria volontà e per fare del bene.
Col tempo avevo imparato che le vere emergenze non erano quelle durante le calamità, ma le giornate normali, quando la gente solitamente non si recava a donare, pensando erroneamente che le scorte fossero sufficienti.
 
«Bene, cara, adesso rilassati e vedrai che faremo in un attimo. Di solito quale braccio usi più frequente?».
 
«Il destro. Ma col sinistro impazziscono sempre tutti nella ricerca della vena, quindi può usare tranquillamente questo». Le sorrisi, mentre allungavo verso di lei il braccio destro, appoggiandolo al ripiano rialzato accanto al lettino.
 
La donna sorrise, infilandosi i guanti e preparandosi a cercare il punto in cui bucare la pelle con l’ago. Dopo una serie di colpetti e uso tattico del laccio emostatico, finalmente la vena riaffiorò leggermente in superficie, e l’abile Infermiera colse al volo l’opportunità, facendo penetrare la punta dell’ago molto lentamente e fermandola poco dopo con del nastro adesivo.
Strinsi i denti mentre percepivo il freddo metallo scivolarmi sotto la carne. Solitamente non mi faceva male, né tanto meno soffrivo alla vista del luccichio dell’ago, ma quella volta provai una fitta considerevole. Forse l’Infermiera non era stata particolarmente capace; a volte poteva capitare, specie in persone come me le cui vene si divertivano a farsi cercare per diversi minuti.
Adesso, però, che l’ago aveva trovato la vena, potevo solo restare lì seduta, ascoltando il lieve rumore prodotto dal dondolio della bilancia, e stringendo ripetutamente la morbida pallina che mi era stata data nella speranza di agevolare il flusso del liquido rosso tanto prezioso.
 
Quanto era passato? Un minuto, dieci minuti, un’ora? Mi sembrava di essere lì da davvero troppo tempo. Possibile che la quantità giusta non fosse ancora stata raccolta? Non ci avevo mai messo così tanto.
E non ero la sola a pensarlo.
Ecco ricomparire l’infermiera, osservando perplessa la sacca semi vuota sopra la bilancia.
 
«Provo a sistemare meglio l’ago». La sentii dire, mentre si chinava nuovamente sul mio braccio, rotando a destra e a sinistra, molto lentamente, la siringa.
Strinsi il pugno, per via del forte dolore che quei minuscoli movimento riuscivano a farmi provare. Odiavo le mie microscopiche e sottilissime vene!
 
«Ok, adesso va decisamente meglio, vedrai che finiremo tra breve. Purtroppo, però, ti verrà un piccolo ematoma dove la pelle è stata bucata».
 
Le sorrisi; quella non era una novità per me, bene o male mi capitava tutte le volte.
Tornai ad osservare il bianco soffitto sopra di me, stringendo e rilasciando la pallina rossa, quando un leggero “bip” mi distrasse; a quanto pareva avevo finalmente finito.
Venni costretta a bere un’intera bottiglietta d’acqua, che ingurgitai con grande sforzo, prima di potermi alzare nuovamente.
 
«Sei sicura di farcela?». L’Infermiera era carina a preoccuparsi, ma ero assolutamente padrona del mio equilibrio, e mi sentivo esattamente come quando ero entrata nella sala.
Se da un lato le mie vene facevano impazzire tutti, per lo meno potevo vantarmi del fatto che il mio corpo non risentiva mai del prelievo; ero sempre stata in grado di tornare subito in piedi, senza fastidiosi giramenti di testa o svenimenti.
Ringraziai e uscii, desiderosa di poter finalmente gustare una meritata colazione.
Di solito mi piaceva recarmi nel bar che si trovava nella via vicino all’ospedale, ma non aveva ancora smesso di scrosciare, così mi infilai spedita in quello interno alla struttura, lieta di scoprire che era più fornito di quanto immaginassi.
Fatta eccezione per qualche camice, pareva non esservi molta gente a quell’ora; questo significava che potevo concedermi di stare un po’ seduta al tavolo senza dovermi limitare a bere, in piedi e velocemente, il mio adorato cappuccino.
Mi incamminai verso il bancone, costeggiando i tavoli sistemati in una fila ordinata alla mia destra, quando un lieve capogiro mi colse alla sprovvista. Mi portai una mano alla fronte e con l’altra cercai istintivamente un appoggio.
Incespicai.
All’improvviso, però, due mani mi afferrarono per le spalle, impedendomi di cadere.
 
«Attenta. Ti senti male?». La voce, così calda e dolce, mi fece alzare lo sguardo, incontrando due occhi di un azzurro incredibilmente chiaro, quasi trasparente.
 
Rimasi totalmente incantata, senza riuscire a spiccicare parola, rapita da quel colore così simile all’oceano. Il capogiro era svanito, alla stessa velocità con cui si era presentato, ma ancora il mio corpo sembrava non voler reagire, restando appoggiato alla presa ferrea di quelle mani così gentili e premurose.
 
«No, scusa, non è niente. Tutto apposto». Esclamai con un filo di voce, imbarazzata e sicuramente rossa in volto come mi capitava sempre in situazioni del genere.
 
«Hai avuto un lieve mancamento? Vieni, siediti un momento, ti prendo io qualcosa da bere e mangiare». Non feci in tempo a declinare gentilmente l’invito, che le mani che prima mi avevano afferrata al volo, cominciarono a spingermi verso la sedia vuota al mio fianco. Mi lasciai condurre, non del tutto certa di poter mantenere davvero l’equilibrio una volta smarrito quel sostegno, e lasciai che il mio salvatore mi portasse un cappuccino e una brioche.
Mentre si allontanava verso il banco notai il suo camice bianco che svolazzava leggermente e i suoi capelli neri lunghi fino alla nuca. Pareva giovane, a giudicare dalle spalle larghe e muscolose e dal vestiario che si poteva intravedere da sotto il bianco della divisa da lavoro. Ma quanto giovane poteva essere se già prestava servizio in un ospedale?
Giocherellai distratta con una ciocca dei miei capelli mentre aspettavo che tornasse. Lo osservai in volto, notando che le mie supposizioni non erano particolarmente sbagliate: gli avrei dato ventisette anni, non di più. Ma poteva anche darsi che li portasse discretamente bene. E comunque non mi interessava quel dettaglio, non mi doveva interessare!
Era impossibile, però, non pensare a quanto il suo viso fosse incredibilmente bello. Il naso regolare, il mento sottile e gli occhi di un azzurro intenso a incorniciare il tutto.
 
«Ecco il tuo cappuccino e una gustosa brioche alla marmellata». Vidi le sue labbra incresparsi in un sorriso mentre appoggiava il tutto davanti a me. «Mangia con calma, io ti terrò compagnia».
 
Abbassai lo sguardo, imbarazzata, e iniziai a masticare un boccone alla volta, accompagnando con brevi sorsi della calda bevanda, proprio come il giovane medico mi aveva suggerito.
Non mi era mai successa una cosa simile e continuavo a ripetermi nella mente quanto imbarazzante fosse. Certo, era probabile che non fosse la prima volta che lui salvava una damigella in difficoltà, anzi lo vedevo proprio bene nella parte del cavaliere senza macchia e senza paura, ma questo non escludeva che una ragazza timida come me non fosse nel massimo dell’imbarazzo possibile.
Anche il giovane restava zitto, ma pareva valutare attentamente ogni mio movimento, come temesse potessi rischiare nuovamente di svenire. Odiavo essere osservata in quel modo, specialmente quando mangiavo, ma un cantuccio della mia mente non riusciva a evitare di sentirsi lusingata per quelle attenzioni. Forse perché a riservarmele era un ragazzo incredibilmente bello.
 
POV Jakob
 
Ancora brutto tempo, ancora pioggia e vento; sinceramente cominciavo a esserne vagamente stufo. Ma non potevo evitare di uscire sotto quella bufera, anzi dovevo muovermi se non volevo rischiare di arrivare in ritardo.
“Il Professor Dale non sarebbe affatto contento se dovessi tardare.” Pensai con un’amara inflessione nella voce. Andare d’accordo con quell’uomo scorbutico non era facile, ma era indiscusso il suo valore nel campo della cardiologia e non potevo non rendermi conto dell’enorme fortuna che avevo a svolgere con lui i miei anni di praticantato.
Ormai ero quasi alla fine, dovevo cercare di tenere duro.
Uscii fuori dalla porta di casa, stringendomi nella sciarpa per creare un minimo scudo contro il vento gelido, e mi gettai di corsa verso la fermata dell’autobus. Evitai persino di aprire l’ombrello, sostituendolo col cappuccio della giacca impermeabile che avevo indosso; sicuramente mi sarebbe stato più utile.
Per fortuna la fermata non distava troppo da casa e in pochi minuti saltai a bordo del mezzo, diretto verso l’ospedale dove avrei iniziato il servizio verso le 9.
 
Ovviamente arrivai con larghissimo anticipo. Avevo previsto un arco di tempo maggiore immaginando il traffico che avrei incontrato per via della pioggia, ma, proprio perché ne avevo tenuto conto, avevo impiegato meno tempo del solito per giungere a destinazione.
“Mi pare ovvio.” Pensai.
Ma non era un problema così grave, avrei trascorso il tempo che mi restava al bar interno, gustando una colazione che di solito non avevo il tempo sufficiente per permettermi.
 
«Un caffè, grazie». Chiesi all’uomo al bancone.
 
Pareva che fossi uno dei pochi presenti; forse il resto dei colleghi era impegnato o aveva già cominciato il proprio turno. Non conoscevo molte persone, e quelle poche ovviamente non erano presenti al momento, così presi posto a uno dei tavoli più vicini all’ingresso, iniziando a sorseggiare con tutta tranquillità il mio caffè.
Fu proprio in quel momento che la vidi entrare.
Lunghi capelli neri, mossi e leggermente sbarazzini, occhi verdi e naso piccolo e grazioso, un poco all’insù. Non l’avevo mai vista da quelle parti, ed ero sicuro che non lavorasse nella struttura. Ma era un vero incanto, più bella di ogni altra ragazza su cui i miei occhi si fossero mai posati.
Non avevo mai compreso realmente cosa significassero le parole “amore a prima vista” ma mi bastò posare gli occhi su di lei per rendermi conto di quanto potente fosse il loro contenuto.
 
“Datti un contegno, Jake. Tanto non la rivedrai più una volta uscita dal bar.”
Era quella la dura verità, la sapevo fin troppo bene. Nel mio lavoro non mi era possibile affezionarmi troppo a qualcuno, perché quel qualcuno in un modo o nell’altro se ne sarebbe andato.
Stavo per allontanare le mie attenzione da lei quando mi accorsi di qualcosa di strano. In un istante la vidi barcollare, portandosi una mano alla fronte e cercando sostegno da qualche parte; e agii d’istinto. Mi fiondai da lei, afferrandola per le spalle e guidandola verso una sedia libera.
Lo sguardo mi cadde istintivamente sul cerotto che aveva nell’angolo interno del braccio. Era reduce da una donazione, sicuro; anche l’ora poteva confermare la teoria.
Ma perché l’avevano fatta alzare così presto? Era ancora pallida, si vedeva chiaramente.
Mi offrii di portarle qualcosa da mangiare e restai a osservarla mentre si gustava una sostanziosa colazione.
Ero preoccupato che potesse nuovamente sentirsi male ma, da un lato, non potevo smettere di ammirare i suoi tratti così delicati e fini, approfittando della giustificazione che la situazione mi stava offrendo.
Non era certo etico e professionale, ma era più forte di me; in fondo non stavo facendo niente di male.
Quando mi resi conto che aveva terminato la colazione, cercai di verificare le sue condizioni.
 
«Coma va? Stai un po’ meglio adesso?». Le chiesi, perdendomi nella profondità del suo sguardo per qualche istante. Allungai quasi inconsciamente una mano, a sfiorare la sua; con lentezza, per non spaventarla. Le cercai il polso e delicatamente vi posai sopra due dita. Quasi subito percepii il battito sotto la sua pelle morbida; era regolare e pieno.
Ritirai la mano, per non sembrare un poco di buono, e le sorrisi.
 
«Si grazie. Ma vorrei pagarti per la colazione, non mi piace avere debiti». Disse, mettendo mano al portafoglio dentro la borsa.
 
«Non dirlo neanche per scherzo. Nessun debito, mi basta sapere che stai bene». Le diedi una mano ad alzarsi, sostenendola fino a che non mi assicurò di farcela da sola.
 
Non volevo metterla eccessivamente in imbarazzo, ma il suo volto lasciava trasparire ancora un lieve sentore di malessere, e quasi senza rendermene conto la seguii fuori dal locale, fino alla porta scorrevole che collegava con l’esterno.
Osservai la sua figura mentre si allontanava sempre più, con l’ombrello aperto sopra la testa spazzato continuamente dal vento. Pareva riuscire a stare in equilibrio, forse mi ero immaginato io il suo volto leggermente pallido. Probabilmente perché avrei voluto chiederle almeno il nome.
 
“Forse, se è una donatrice abituale, potrei anche riuscire a incontrarla nuovamente.”
Era la sola speranza cui potevo aggrapparmi, anche se sapevo che non sarebbe stato così e che, dopo un po’ di tempo, l’avrei dimenticata, facendomene una ragione. In fondo se non era destino non ci si poteva fare più di tanto.
Stavo per voltarmi quando i miei occhi scorsero la sua figura scivolare a terra. Era all’inizio di un vicolo non molto lontano; forse il suo equilibrio era venuto meno o forse era svenuta come le stava per accadere al bar.
Non mi interessava quale fosse la motivazione. Non ci pensai due volte e corsi sotto la pioggia scrosciante, nella sua direzione. Pochi istanti dopo ero accanto a lei, svenuta in una pozzanghera. Le cercai il polso, sospirando di sollievo quando constatai che il suo cuore batteva in modo regolare.
Feci per girarla, così da poterle sollevare le gambe, quando un bagliore davanti a me, nel vicolo buio, attirò la mia attenzione. Quasi non riuscii a credere ai miei occhi quando notai un vortice di luce che, sospeso per aria, puntava verso di noi.
Tutto fu talmente veloce che qualsiasi reazione normale sarebbe stata impossibile. Mi ritrovai presto risucchiato al suo interno, mentre tutti i miei sensi cominciavano ad abbandonarmi e sentivo la mano della ragazza scivolare dalla mia.
L’ultima cosa che riuscii a capire era che l’avevo persa in tutto quel vorticare; non sentivo più il calore della sua pelle tra le mie dita. Che cosa stava succedendo?
A quel punto persi i sensi.
  
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