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Autore: Hastatus    01/02/2014    4 recensioni
Quando ti ha detto che ti comportavi da idiota?
Genere: Introspettivo, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Greg House, James Wilson, Lisa Cuddy | Coppie: Greg House/Lisa Cuddy
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nel futuro
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Gran bel paesaggio.

Lo osservava poggiato con il gomito sul bordo del finestrino dell’autobus, gli occhi socchiusi. la luce del sole di metà pomeriggio lo colpiva in pieno viso, scaldandolo come se stesse arrossendo. Sentiva caldo e, sebbene cercasse di ignorarlo muovendosi il meno possibile, ciò non poteva contrastare la realtà dei fatti: completo nero e camicia alla fine di aprile fanno sudare.

La strada di campagna che l’autobus percorreva era come tutte le strade di quel tipo, ovvero mortalmente noiosa. Campi verdi, campi arati, pannocchie, girasoli, una casa solitaria. Niente di cui appassionarsi. Eppure, nel profondo di sé, sentiva che qualcosa di quel paesaggio lo struggeva, come se le costole si serrassero intorno al cuore per proteggerlo, stringendolo.

La donna anziana che sedeva di fronte – l’unico passeggero oltre a lui – scese alla fermata successiva, nel mezzo della campagna. Chissà se la figlia l’avrebbe perdonata. L’aria abbattuta e il pacchetto incartato con carta rosa parlavano chiaro. Passò ancora del tempo, impossibile capire se fossero dieci minuti o un’ora; non aveva prestato attenzione né al sole né all’orologio.

“Siamo a fine corsa. Dovrebbe scendere”

Alzò lo sguardo. L’autista era in piedi di fianco al suo sedile e lo osservava con espressione compassionevole. Quanto detestava quegli sguardi ipocriti. Sembravano dire “La mia condizione è migliore della tua, e dispiacendomene confermo la mia superiorità”. Si alzò – era molto più alto di lui – ringraziò con un cenno del capo e scese i gradini di metallo con quanta meno goffaggine il bastone gli permetteva.

Le costole abbracciarono il suo cuore ancor più strettamente. Doveva percorrere una strada in ciottoli bianchi che proseguiva dentro uno steccato dello stesso colore. Se non fosse stato per la commovente bellezza di quel luogo, avrebbe pensato che ciò che stava andando a fare sarebbe stato completamente inutile. Se non altro, invece, avrebbe potuto godere del bello che lo circondava.

Camminò con deliberata calma. Pensò che quell’ampia strada, in quella stagione, avrebbe dovuto percorrerla correndo un bimbo felice, non certo un cinquantenne disilluso e zoppicante. Più disilluso di quanto non fosse mai stato.

 

Un uomo sconosciuto parlava di fronte a una silenziosa platea. Egli non si aggregò a loro, ma si fermò di fianco a un tiglio secolare qualche metro indietro. Qualcuno si voltò verso di lui e lo osservò per qualche secondo con curiosità, salvo poi rivoltarsi verso l’oratore per non sembrare scortesi. Che ipocriti, quasi quanto le vuote parole che l’uomo vestito di nero pronunciava di fronte agli altri. Erano tutte astratte, insipide, di circostanza. Burocrazia funebre.

 

L’uomo smise di parlare. Sei persone in nero afferrarono altrettanti capi di spesse corde e, lentamente, calarono la bara nella fossa. Guardò da lontano. Una donna anziana piangeva sulla spalla di un giovane uomo terribilmente trasandato. Doveva essere suo fratello. Lo era di sicuro, i capelli erano della stessa sfumatura fulva.

Per alcuni minuti si udì solo il rumore delle pale e i tonfi sordi del terriccio. Quando tutto fu concluso, un brusio diffuso indicò che era arrivato il momento delle condoglianze. Che idiozia. Non sarebbero servite certo a consolare; anzi, avrebbero rinnovato il dolore e, soprattutto, erano false. Chi veramente soffriva non aveva bisogno di comunicarlo al prossimo.

Sospirò, aggrottò la fronte e decise che era abbastanza. Diede le spalle a tutti e, incurante di chi stava sicuramente notando quanto poco rispettoso fosse il suo gesto, cominciò a percorrere la strada a ritroso. Attraversò il prato, uscì dallo steccato e raggiunse la fermata dell’autobus, in mezzo al nulla. Non c’era una panca, solo il palo con il tabellone degli orari. Si rassegnò ad aspettare in piedi, e sperò che la gamba non cominciasse a dolere.

 

“House”

 

Chiuse gli occhi e alzò il volto al cielo. Ci avrebbe scommesso una mano. Qualche mese prima si sarebbe voltato, avrebbe messo in piedi uno sguardo altezzoso e avrebbe risposto qualcosa come “Diamine, cosa ti è successo? Hai una faccia da funerale!”. Ma in quel momento non aveva alcuna voglia di parlarci. Così non rispose alla chiamata.

 

Lei si avvicinò. Non si voltò a guardarla, ma continuò a fissare l’orizzonte al di là dei campi di girasoli davanti a sé. Chissà com’era vestita.

 

“House” – disse, e si fermò di fianco a lui. “So che sei a pezzi”.

 

Aspettò una reazione, che non arrivò. Non che non avesse parole; semplicemente non trovava alcuna utilità nel dirle. Non si sarebbe sentito meglio. Lei esitò, a disagio.

 

“Sono in auto” – pausa. Il verso dei merli e il profumo dell’oleandro in fiore riempirono il vuoto. “Se vuoi posso portarti a casa”.

 

Ancora i merli.

 

“Andiamo, non puoi tornare da solo”

 

Non rispose,non gli importava. Non gli importava di cosa lei avrebbe provato, anche se le sarebbe stata bene un bel po’ di frustrazione. Lei sospirò sommessamente, e lui capì che si sentiva affranta.

 

“Sai meglio di me che correrai alle pillole”

 

Ecco, era ovvio, lo stava aspettando: l’affondo sul senso di colpa e sulla dignità, l’ultima arma a sua disposizione. In lontananza, sulla strada, si poté scorgere la sagoma dell’autobus che si avvicinava con una lentezza esasperante. Frenò sbuffando alla fermata dopo istanti che parvero ore, e lui salì aggrappandosi al corrimano d’acciaio, tenendo con l’altra mano il bastone.

 

“House!”

 

Non salutò. Le porte si richiusero mentre le dava le spalle, e l’autobus ripartì mentre la donna lo guardava con gli occhi spalancati dallo sconcerto.

 

*

 

Aprì la porta di casa, per la prima volta dopo mesi, con un colpo secco, e la richiuse mandandola a sbattere contro lo stipite. Gettò la giacca sull’appendiabiti senza curarsi di fare centro: quella scivolò e cadde scompostamente a terra. Guardò le chitarre appese al muro, il pianoforte, il televisore e il tavolino. Impugnò il bastone come una mazza da golf e lo centrò in pieno, mandandolo a gambe all’aria e frantumando la lampada che appoggiava su di esso. Pensò di sedersi sul divano e cercare di calmarsi, ma era impossibile. Preferì marciare in preda alla rabbia lungo la stanza, finché decise che fare definitivamente a pezzi il tavolino forse l’avrebbe rilassato. Mosse il braccio per alzare il bastone, ma non ci riuscì.

Abbassò lo sguardo. Il bottone del polsino della camicia si era impigliato sull’orlo della tasca. Strattonò per liberarsi, incurante che il bottone sarebbe potuto saltare, ma quello resisté. Furibondo, si arrese a doverlo sfilare e, mentre si chinava verso la tasca, notò qualcosa.

 

Da essa usciva un lembo di carta. Diede poco peso alla cosa. Finalmente si liberò e alzò ancora il bastone.

 

No, non poteva, ormai la scintilla era scattata. Non ricordava quel foglietto. Forse era uno scontrino. D’altra parte, non usava spesso quel completo, che infatti odorava ancora di naftalina. Era riservato a occasioni idiote come un funerale, quindi a cerimonie cui aveva partecipato si e no un paio di volte.

Infilò la mano in tasca. Il tatto gli comunicò che era poco più grande di uno scontrino del bar. Anche la carta era più spessa, sembrava carta da fotocopie. Un lembo era irregolare e sfrangiato, quindi era stato strappato. Lo sfilò dalla tasca e lo portò davanti agli occhi: la vista confermò quanto aveva dedotto.

 

Ma il tatto non poteva rivelare la presenza o meno di inchiostro.

 

Suppongo che userai queste. Smetti di fare l’idiota.

 

Blu su bianco, corsivo. La grafia era indiscutibilmente la sua. Doveva essere lì da mesi, dall’ultima volta che erano stati lì in casa. Le costole, traditrici, si strinsero nuovamente sul cuore, mozzandogli il fiato.

Non fare l’idiota.

Quando gli diceva di non fare l’idiota? Praticamente sempre, spesso perché aveva appena mancato di tatto a un paziente morente. Eppure, i momenti in cui gliel’aveva detto in modo più veemente erano quelli in cui cercava di autodistruggersi. Era arrivato persino a cercare di entrargli in casa di soppiatto, dalla finestra della cucina, per sincerarsi del suo stato emotivo. Certo, lui era così di natura: non sarebbe mai stato in grado di imitarlo spontaneamente. Ed era infelice.

 

Fissava i resti del tavolino, e d’un tratto sentì i visceri andargli a fuoco. Certo, l’autocombustione non era un fenomeno approvato dalla comunità scientifica, ma se lo fosse stato era certo che la sensazione provata dalle vittime sarebbe stata proprio quella. Dannazione! Sfasciare il tavolino era stato un gesto completamente razionale, e gli aveva permesso di sfogarsi, di sentirsi meglio, seppur limitatamente.

Ogni neurone che possedeva urlò la sua protesta quando le sinapsi effettuarono il collegamento: perché allora non fare qualcosa di altrettanto irrazionale, ma a un livello più alto, se l’effetto era benefico? Perché non cercare di essere felice con un atto irrazionale?

Perché non c’erano garanzie di funzionamento, si disse, e perché ogni dato sperimentale confermava che la felicità era effimera e limitata. Ma, dopotutto, cos’aveva da perdere? Non sarebbe potuto stare peggio di così. Che paradosso: razionalmente, un atto istintivo sembrava la scelta migliore.

 

Allora se ne accorse. Per la prima volta, sentì di voler vivere, e non di osservare la vita. Che stesse cambiando? Veramente anche lui stava cambiando?

 

Sferrò un calcio ai residui del tavolino, schizzò verso la porta, si sfilò la camicia rimanendo in maglietta e afferrò la prima giacca che gli arrivò sotto le dita. Con la coda dell’occhio si accorse che era la sua giacca da motociclista. Uscì sbattendo di nuovo la porta alle sue spalle.

Al diavolo la moto. Camminò per decine di minuti, senza curarsi del dolore alla gamba e della primavera che gli scorreva davanti agli occhi. Attraversò il parco centrale, ma non degnò di uno sguardo né i bambini che giocavano, né le persone che facevano jogging, né le magnolie in fiore. Fortuna che aveva deciso di mettere le scarpe da ginnastica anche con il completo, perché altrimenti si sarebbe riempito i piedi di vesciche.

Il sole si stava abbassando quando raggiunse il luogo che mirava. Il suo emisfero sinistro gli disse che era scontato, ma lui decise deliberatamente di non ascoltarlo. Percorse il primo terzo del vialetto che portava alla villetta, un’ala della quale era visibilmente più recente del resto, quando la porta di questa si aprì, e lei uscì.

 

Si fissarono in silenzio. Ancora quei merli! Non sapeva quali parole usare che non sembrassero una giustificazione o un insulto. Lei lo fissava a occhi spalancati ma, per il resto, impassibile.

Resisté finché non poté più sopportarlo, poi istintivamente lasciò cadere il bastone.

 

“Non prendo più pillole da cinque mesi”

 

Lei lo squadrò, sospettosa. “Dimostramelo”.

 

L’uomo si tolse la giacca e gliela gettò. Rivoltò le tasche dei pantaloni verso l’esterno e il suo respiro si fece affannoso. Lei continuava a fissarlo, gli occhi appena più aperti.

 

“Controlla” – disse lui – “Controlla. Non ne ho nessuna dose. Le ultime sono in casa, nell’armadio, in un sacco di plastica nera. Tieni” – continuò, e le lanciò le chiavi – “Se vuoi puoi andare a controllare. Fruga tutta la casa, e se vorrai controllare nel muro c’è un piccone nello sgabuzzino”

 

“Forse dovrei controllare nel muro. Abbatterlo dovrebbe essere liberatorio”

 

“Se ti renderà felice, fallo”

 

“Perché sei qui?”

 

“Per questo” - disse, mostrando il foglietto. Lei si avvicinò, lo prese tra le mani e lo lesse con gli occhi spalancati. Poi rivolse verso lui quello stesso sguardo.

 

“Nei miei pantaloni, tre quarti d’ora fa” – rispose alla domanda silenziosa.

 

La donna non mutò espressione. “Che cosa significa? Che cosa vuoi che faccia?” – disse, scuotendo appena la testa.

 

Che tu sia felice” – disse l’uomo, il respiro agitato. “Chiediti solo questo, e poi sappimi dire se questo implica la mia assenza. In ogni caso non ho intenzione di ritornare nella mia vecchia casa”

 

Si chinò e raccolse il bastone. Indietreggiò di qualche passo, mentre lei continuava a fissare il foglietto con le sopracciglia aggrottate. Sospettava già la risposta, e sapeva che quella dipendeva in gran parte dal recente restauro della facciata della villetta. Si voltò chiudendo gli occhi e si avviò lungo il vialetto, verso l’uscita.

 

“House”

 

Non aveva fatto in tempo a raggiungere il cancello, quando si sentì richiamare. Non si voltò.

 

“Quanto ci hai pensato?” – chiese. Fece qualche passo verso di lui. “Dimmi, quanto hai pensato alle parole che mi hai appena detto?” – si fermò a una decina di passi da lui. “Suppongo siano il frutto dell’applicazione di una logica ineccepibile, dell’imbastimento di un piano dettagliato. Dimmi, mi sto comportando come da programma?”

 

Egli si voltò verso la donna, distante una dozzina di passi. Non riuscì ad arrabbiarsi.

 

“Non c’è nessun programma” – rispose, e si stupì di quanto tenue fosse il tono della sua voce. “Ho trovato quel biglietto meno di un’ora fa. Sono venuto qui a piedi. Ma non posso convincerti di non aver razionalizzato, e nemmeno voglio”

 

Fece per voltarsi di nuovo, ma lei parlò di nuovo.

 

“Come posso fidarmi?”

 

Se l’aspettava, e ne aveva ben donde. La domanda era legittima.

 

“Vorresti poterlo fare?”

 

“Mi piacerebbe” – rispose lei con un tono più rauco.

 

L’uomo si voltò completamente.

 

“Wilson mi dava dell’idiota in due occasioni: quando rendevo infelici gli altri e, soprattutto, quando rendevo infelice me stesso. Questo è quello a cui ho pensato quando ho letto quel biglietto” – disse, e sentì distintamente i suoi occhi fremere. “Wilson voleva che io fossi felice rendendo felici gli altri. Lo stesso James Wilson che tre giorni fa non riusciva quasi a parlare nel reparto di lungodegenza oncologica del Memorial di Trenton, e che da questo pomeriggio si trova sotto due metri di terra”.

Sbattè con il bastone sul selciato. “se credi che io abbia razionalizzato anche su questo, sei libera di farlo. La verità è che sono uscito di casa e sono venuto qui seguendo l’istinto”.

 

Il sole si era ancora abbassato, allungando le ombre e portando con sé una brezza lieve e tiepida, che lo carezzò come una mano delicata. Deglutì, chiudendo gli occhi. Si sentiva stanchissimo. L’effetto dell’adrenalina stava svanendo.

 

Lei si stava allontanando, ritornando verso il portone. Beh, a quel punto la risposta era ovvia. Attese che arrivasse alla soglia e che scomparisse al di là di questa prima di andarsene.

Eppure non la varcò. Aprì la porta e rimase lì di fianco.

 

“Non fare troppo rumore. Rachel dorme. Lascia le scarpe nel solito angolo”

 

Non riuscì a muoversi.

 

“Dai, su” – lo incalzò con fretta.

 

Mentre si avvicinava al portone, lo colse con una domanda.

 

“Ti fa male la gamba?”

 

Lu la toccò istintivamente. Spalancò gli occhi, sorpreso. Si voltò a guardarla nel viso.

 

Lasciò cadere il bastone, arrivò al portone e varcò la soglia.

 

fine

 

 

 

 

 

  
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