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Autore: AnnabethJackson    01/02/2014    8 recensioni
| Percabeth | AU |
---------------------------TRAMA---------------------------
Annabeth ha 18 anni quando viene violentata. Subisce un trauma così profondo che non riesce più a sorridere, a ridere,a vivere. Nessuno è in grado di aiutarla ad uscire da quella bolla di indifferenza in cui è intrappolata.
Due anni dopo Annabeth non è diversa da quella maledetta sera, e il padre, l'unico uomo di cui lei si fidi ancora, non riesce più a vederla riversa in quello stato. Così convince la figlia a partire per il Brasile in veste di insegnante, ed è così che la ragazza fa una promessa a sé stessa: nulla avrebbe dovuto rinvangare il suo passato.
Annabeth però non sa che la scintilla perduta è proprio dietro l'angolo della bella Rio, mascherata da un ragazzo da cui deve stare lontana, dei bambini che amano la vita, e un amore inaspettato, per nulla voluto, ma in grado di innescare il processo di rinascita inevitabile.
------------------------DAL TESTO------------------------
«Non voglio spaventarti, non voglio allarmarti e sopratutto non voglio metterti fretta. Accettalo e basta. È importante che tu ti prenda tutto il tempo necessario, ma ho l'urgenza di dirti che...» mormorò.
E poi accadde, senza alcun preavviso. «Ti amo, Annabeth.»
Genere: Generale, Romantico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nico di Angelo, Percy/Annabeth
Note: AU, OOC | Avvertimenti: Tematiche delicate
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Love the way you live - La raccolta'
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Disclaimer: Questi personaggi non mi appartengono, ma sono proprietà di Rick Riordan; questa storia è stata scritta senza alcuno scopo di lucro.
  

Capitolo 2
 

______________________

New York, Giugno
__________________

Due anni dopo.

Avevo cinque anni quando mia madre se ne andò.
Non fu qualcosa di studiato in precedenza, nulla venne programmato o, almeno, lei non si preoccupò di avvisare qualcuno della sua sparizione improvvisa. Perché, diciamolo, non si può decidere di essere stanchi della propria vita tutto d'un tratto: certo, lo scatto che mette in modo il processo di cancellazione del file contenente tutto quello che hai fatto nell'arco di quindici, venti, trent'anni può azionarsi in un momento, ma l'idea è radicata nei tuoi pensieri molto prima che ciò accada, ne sono certa. Quindi, presumo che lei covasse l'idea che poi mise in atto già da molto tempo, ma sicuro come la morte mio padre non ne sapeva nulla e io, anche se fossi stata testimone di qualche segnale, ero troppo piccola per ricordarlo.
Così il giorno prima lei era lì, in cucina la mattina a fare i pancake – era quel genere di mamma che cucinava solo la colazione la domenica – in piedi davanti all'armadio per scegliere il tailleur che più l'avrebbe aiutata a superare la giornata in ufficio, accovacciata accanto al mio letto mentre mi rimboccava le coperte, posando un bacio sulla mia fronte e dicendomi che mi voleva bene; il giorno dopo, invece, non c'era più.
Ironia della sorte, fui io l'ultima a vederla – mio padre, a causa degli orari assurdi che faceva, probabilmente era stato la prima persona che lei non avrebbe mai più rivisto.
Per molti anni non capii perché avesse voluto vedermi per ultima, poi un giorno, non molto tempo dopo che anch'io divenni madre, una mattina mi svegliai con la consapevolezza di aver compreso il motivo: per quanto il suo gesto fosse condannabile e discutibile, il legame che si forma tra una madre e il proprio figlio rimane uno dei misteri più grandi della vita stessa.
Il giorno in cui decise di andarsene era un mercoledì e io ero uscita dall'asilo alle quattro, come sempre. Ero rimasta ferma sull'apice della scalinata che portava al cortile, scrutando con estrema attenzione la folla di genitori che guardavano con un sorriso fiero sul volto i propri figli, i quali correvano loro incontro. Di solito mi univo a quella matassa imbizzarrita di corpi minuscoli, portatori di cartellette più grandi di loro, non appena individuavo la mia mamma, ma quel giorno non accadde: lei non c'era.
Con la coda dell'occhio venni attirata da un movimento sulla destra e mi girai, trovandomi ad osservare il volto sorridente della mia migliore amica di allora, Kelly. Lei infilò brevemente la sua mano nella mia, stringendola nel gesto che facevamo sempre. Non so che fine abbia fatto Kelly... Sinceramente non ricordo nemmeno per quale motivo ci allontanammo l'anno successivo: penso che l'andare in scuole diverse abbia contribuito. Eppure, malgrado ciò, la ricordo ancora come una persona solare, la migliore amica che avessi mai avuto seconda solo a Piper. Ma, dopotutto, eravamo anche più piccole e, a quell'età è difficile stabilire con basi pertinenti se un'amicizia è meglio di un'altra.
«Domani andiamo allo zoo, Annie! Non sei contenta?» mi aveva domandato, gli occhi luminosi e un sorriso contagioso. Il cappellino a pois rosso che portava sempre le era caduto sopra gli occhi oscurandole la vista, finché lei non lo aveva spostato con un gesto automatico, senza mai perdere l'espressione eccitata sul suo volto. Qualche giorno prima era arrivata in classe gridando entusiasta che sua mamma le aveva promesso di portarla allo zoo per vedere gli animali, la sua passione più grande dopo i capellini rossi a pois, e lei aveva subito insistito perché andassi con lei: le nostre madri si erano accordate e, alla fine, io avevo ottenuto il permesso per passare la giornata in compagnia di Kelli.
Con la mano libera tirò la cordicella della bretella dello zaino che teneva sulle spalle per stringerlo, poi lasciò la mia, chinandosi in avanti per darmi un bacio amichevole sulla guancia. Sorrisi di riflesso.
«Ciao Annabeth, ci vediamo domani» disse, ritraendosi e lasciando dietro di sé una leggera fragranza di lillà, profumo che sempre avevo attribuito alle giornate passate a giocare con la corda nel parco.
Senza aspettare una risposta da parte mia, corse giù per le scale impazientemente, ma allo stesso tempo con una certa grazia, finendo dritta tra le braccia accoglienti di sua madre, che la stava aspettando pochi metri più in là. E poi se ne andarono, mano nella mano: fu allora che io ripresi a guardami attorno, consapevole di essere l'unica bambina rimasta nel piazzale. Incredibile come tutte le persone avessero impiegato poco meno di una decina di minuti per sparire all'orizzonte. Le bretelle della cartelletta mi pesavano sulle spalle e il grembiule rosa, indumento obbligatorio imposto dalla scuola, era leggermente più piccolo della mia taglia – recentemente ero cresciuta parecchio in seguito a un periodo di febbre alta – e mi faceva sudare in quel clima settembrino.
Non passò molto tempo prima dell'arrivo di mia madre. La sua figura comparve da dietro al grande pioppo del sentiero che portava alla strada principale, perimetrato da dei fiori gialli che in primavera rilasciavano un profumo così intenso d'attirare uno sciame di api per molte settimane. Teneva il cappuccio del cappotto leggero calato sopra la testa, ma esso non gli copriva abbastanza la testa e così alcune ciocche di capelli castani, molto diversi dai miei, svolazzavano all'indietro, sospinti dal vento. Con una mano teneva i bordi del cappotto, mentre nell'altra portava stretta a sé una busta di cartone, di quelle che ti davano in drogheria in seguito all'acquisto di qualche prodotto piccolo. Con il capo chino e il mento basso, le era comunque impossibile nascondere il bel viso dai lineamenti delicati, ma che cominciava a subire i segni del tempo che passava. Lo si poteva vedere dalla leggera ruga disegnata al centro della fronte, sul lato destro, che diventava più marcata nel momento in cui si trovava a dover risolvere uno di quei problemi complessi a cui il suo lavoro di architetto la sottoponeva molte – troppe – volte.
Si fermò sul primo gradino della scalinata, cinque sotto quello su cui stavo io, e finalmente alzò il volto per guardarmi. Avevo solo cinque anni, non potevo accorgermi che qualcosa non andava solo guardandola: ai miei occhi lei rimaneva la mia mamma, la persona a cui volevo più bene al mondo insieme al mio papà. Forse questo fu uno dei motivi per cui, nel corso degli anni, imparai a studiare le persone prima di fidarmi ciecamente: non avevo mai avuto dubbi che quel fatto avesse condizionato in parte la mia crescita.
Perciò mi ritrovai a fissare i miei stessi occhi grigi, le stesse labbra rosse, lo stesso lineamento del mento. Tutto in me rievocava la sua figura, ad esclusione dei capelli e dello sguardo: quello, senza ombra di dubbio, non poteva che essere diverso.
Non esitai un'istante a fare due gradini alla volta, con una velocità tale che mi sembrò di essere afferrata e poi venir trasportata da un essere dotato di ali.
«Mamma! Sei arrivata, finalmente. Perché sei in ritardo?» cinguettai felice di vederla, ma allo stesso tempo curiosa. Dopotutto, capitava assai di rado che mia madre ritardasse: odiava coloro che non rispettavano l'orario prestabilito a priori e non perdeva mai occasione per ricordarmelo.
Lei mi guardò per qualche istante con un sorriso rassicurante, ma solo allora mi accorsi che i suoi occhi avevano qualcosa di strano, come se fossero distanti, ancora concentrati su qualche sorta di piantina sul tavolo di lavoro nel suo ufficio.
«Scusami, tesoro, ho trovato traffico» disse, passandomi una mano sulla testa. «Su, forza, sbrigati. Dobbiamo andare» aggiunse poi, spronandomi in avanti. Mi porse la busta di carta e dopo, afferrata la mia mano libera con la sua, si avviò nella direzione opposta da dove era arrivata prima.
Non riesco a ricordare bene come fossimo tornate a casa né quanto tempo impiegammo o che percorso facemmo, ricordo solo che a un certo punto mi trovai ferma in mezzo al corridoio che portava alle camere da letto, fissando un paio di valigie vecchio stile, che sicuramente avevano visto anni migliori, poste sull'uscio di casa. Erano palesemente piene e probabilmente molto pesanti.
Per tutta la mia infanzia e l'adolescenza non avevo viaggiato molto, un po' perché mia madre non si fidava ad andare lontano con una bambina piccola ma, sopratutto, a causa del lavoro dei miei genitori che occupava loro la maggior parte del tempo. Eppure anche a cinque anni ne sapevo abbastanza per capire che il contenuto di quelle valigie era molto maggiore di quello necessario per un solo weekend fuori casa.
«Mamma, a cosa ti servono queste valigie?» avevo chiesto a un punto, ancora in piedi in mezzo al corridoio. Con una mano stavo giocherellando con l'orlo dei miei pantaloni, ma la mia attenzione era rimasta puntata solo ed esclusivamente su quell'immagine. Se cercassi di rivivere ora il momento, probabilmente mi sembrerebbe di essere un'osservatore onnisciente, quel genere di punto di vista che viene dato nei film solitamente.
Ignorando la mia domanda, mia madre aveva continuato a camminare dalla cucina alla sua camera da letto, e poi in bagno, con ancora il cappotto indosso. E ciò era strano perché lei era solita togliere gli indumenti da viaggio non appena entrava in casa.
Ascoltai dei rumori e dei tonfi provenire dal fondo del corridoio per qualche minuto finché mia madre non comparve all'ingresso, accanto alle valigie, con un borsone a tracolla, anch'esso ricolmo di abiti e oggetti vari. Lo lasciò cadere a terra e poi, piegandosi sulle ginocchia per essere alla mia stessa altezza, mi fece cenno di avanzare, puntandomi i suoi occhi in faccia.
Non appena ero arrivata abbastanza vicina per sentire il suo calore, lei mi aveva avvolto le braccia intorno al corpo, le mani dietro la schiena, stringendomi a sé in un abbraccio che sapeva di disperazione. E poi con tutta la calma del mondo, aveva preso ad accarezzarmi i capelli partendo dalla nuca fino alle punte, sussurrandomi delle parole che mai nella vita avrei più scordato.
«Immagina un posto lontano, Annabeth, il sole caldo, un grande prato verde e tanti fiorellini colorati, come quello della favola che ti ho raccontato ieri sera a letto. Riesci ad immaginarlo, tesoro mio?»
Sì, riuscivo a vederlo nella mente e sembrava anche un pensiero felice, ma avevo questa strana sensazione che mi aveva obbligato a rimanere concentrata sulla voce di mia madre. Perciò avevo annuito.
«Ci sono anche i cavalli che corrono, mamma?»
L'avevo sentita sorridere, con la guancia premuta sul mio collo e la tempia a contatto con la mia mandibola.
«Certo, amore. Ci sono tanti cavalli che corrono e si divertono tutti assieme» aveva risposto, temporeggiando poi per qualche istante. «La mamma ora ha bisogno di andare in quel posto perché qui sente tanto freddo. Riesci a capirlo, Annabeth?»
Io avevo annuito ancora. Per qualche motivo, poi, i miei occhi avevano preso a lacrimare, silenziosamente, macchiandomi il volto di gocce di rugiada calde. Avevo cinque anni, ma ero una bambina piuttosto sveglia per la mia età e quindi avevo capito quello che stava per fare nel momento in cui avevo visto quelle valigie. Solo il luogo e la durata del suo viaggio mi sfuggivano.
«Shh... Non piangere, tesoro mio. Non ce n'è bisogno, davvero» aveva detto con la bocca vicina al mio orecchio. E poi aveva cominciato a cullarmi avanti e indietro stringendomi a sé e ripetendo con cadenza regolare quel suono, simile al fruscio che produce il muoversi delle foglie degli alberi di Central Park in autunno.
Shh... Shh... Shh...
«Annabeth, arriverà il giorno in cui farai parte di una famiglia tutta tua. Avrai tanti bei bambini con i capelli biondi che amerai più della tua stessa vita e per cui ti sacrificherai, mettendo la loro felicità davanti alla tua. Avrai al tuo fianco un marito che ti sarà fedele e che ti amerà incondizionatamente fino alla fine dei tuoi giorni. Sarai felice, molto felice, te lo assicuro. Sarai tutto ciò che io non sono: una donna forte e coraggiosa, con un cuore grande abbastanza da permettere che niente ti fermerà. Avrai il coraggio di combattere le tue battagli e di vincere, vivendo la tua vita come è giusto che sia, ne sono sicura.» Le sue parole mi entrarono dentro: probabilmente ero troppo piccola per comprendere appieno ciò che mia madre stava cercando di dirmi, ma non ho dubbio di pensare che il suo discorso rimase impresso nella mia mente tanto da condizionare le mia vita per sempre. Quando raggiunsi l'età sufficiente per comprendere, decisi che quel giorno mia madre aveva voluto regalarmi uno dei segreti per cui molte persone avevano sprecato la loro esistenza, andando alla circa di qualcosa che li soddisfacesse, ma senza mai accorgersi che stava proprio davanti ai loro occhi: la consapevolezza di essere vivi. Eppure, malgrado tutto, lo dimenticai in fretta quando lui mi fece quel che fece.
«Ma io voglio essere come te, mamma» avevo mormorato quasi impercettibilmente, ferma nella mia convinzione che lei fosse la persona migliore del mondo. Mamma si era limitata a scuotere il capo sulla mia spalla, stringendomi a sé ancora più forte, come se avesse avuto paura di lasciarmi andare.
Quel giorno non rimase nella mia mente solo per le parole di mia madre e per la sua successiva partenza, ma anche per la nascita del mio sogno di partire e viaggiare, raggiungendo quel bellissimo posto caldo e lontano che accompagnò la mia crescita infantile e buona parte dell'adolescenza. Quando mio padre mi accompagnava a scuola, dal finestrino della sua auto puntavo lo sguardo al cielo, nella speranza di vedere qualche aereo in partenza per una meta esotica. Se era un giorno fortunato le nuvole si spostavano, scoprendo una massa di metallo grigia, la cui forma ricordava vagamente un uccello viaggiatore. Con le sue ali imponenti e il corpo snello, lassù alto nel cielo, l'aereo mi sembrava qualcosa di irraggiungibile, ma allo stesso tempo di essenziale per sfuggire a una vita monotona e banale.
Quel mio sogno era rimasto vivido dentro di me finché la mia, di vita, non si era trasformata in un inferno.
Un inferno di cui, per due anni, non riuscii a trovarne l'uscita d'emergenza.



 
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Appoggiai la fronte sul vetro del finestrino freddo dell'auto, lasciando che il senso di annullamento che accompagnava sempre le temperature basse delle superfici mi occupasse la mente, perdendo lo sguardo al di fuori dell'abitacolo. Il cielo era grigio di nuvoloni carichi di pioggia imminente: le previsioni del “New York Times” confermavano ciò che sembrava stesse per accadere. Le precipitazioni erano previste su tutta la città, ma non me ne dovevo stupire più di tanto: con il caldo torrido dominante per tutta la primavera, era normale che prima o poi venisse a piovere. Il giornale comprato da papà appena prima di salire in macchina si limitava a sottolineare l'evidenza. Nemmeno il traffico mattutino di New York mi stupiva più: sembrava che nel guidare le persone si fermassero ogni cento metri per lanciare uno sguardo preoccupato al cielo. Inutilmente, secondo il mio modesto parere. Se doveva accadere, così sarebbe stato, punto. Sicuramente a loro non sarebbe cambiata la vita. Che piovesse o meno, il tettuccio di metallo sopra le loro teste li avrebbe protetti da qualsiasi minaccia le nuvole avessero fatto loro. Perciò mi trovavo stranamente d'accordo con mio padre quando questo si attaccava al clacson, inveendo contro qualche stupido ingenuo.
Con la coda dell'occhio vidi un lampo in lontananza, seguito un minuto dopo dal rombo basso del tuono e ricordai come, da piccola, avessi una paura spropositata per quel fenomeno climatico. I lampi e i tuoi mi spaventavano a tal punto che correvo sempre a nascondermi nel letto di papà, tra le sue coperte, e lui mi abbracciava stretta stretta finché il peggio non passava. Poi, dopo che mi ero tranquillizzata, cantava la mia canzoncina preferita sottovoce e io mi addormentavo tra le sue braccia calde e rassicuranti. Ma da un po' di tempo la pioggia non mi turbava più. Era solo diventata la colonna sonora del mio inferno, l'atmosfera che meglio risvegliava i miei ricordi: guardavo le gocce d'acqua scontrarsi con il vetro della finestra della mia camera e dentro di me sentivo il gelo e il tormento di quella notte.
La pioggia, il freddo, il conflitto interno facevano parte di me: la nuova Annabeth Chase.
Mi concentrai su una nuvola, più chiara delle altre e con i tratti più marcati, assomigliava a un peluche. Un tenero, morbido e paffuto orsacchiotto per una ragazzina innocente.
Tutto ciò che io non ero più.
«Tesoro, sei sicura di stare bene?»
Al semaforo rosso papà frenò bruscamente e io venni balzata in avanti, tornando all'improvviso alla realtà.
Mi guardai attorno, notando che eravamo ancora in centro malgrado fossimo in macchina da parecchio tempo: sul marciapiede al lato della strada una donna giovane spingeva un passeggino, al cui interno sedeva comodamente un bel bambino che sembrava avere due o tre anni. Il piccolo sembrava concentrato in quello che faceva, ovvero giocare con una macchinina di plastica rossa. Le sue labbra erano arriciate e il mento era sporco di bava. Probabilmente stava cercando di riprodurre il rumore di un motore. Un sorriso involontario curvò le mie labbra mentre sbattevo le palpebre per schiarire la vista, diventata opaca per aver passato troppo tempo senza sbattere le palpebre.
Mi voltai verso papà, il quale era concentrato sulla sua guida non proprio sicura. Se la cavava molto meglio con gli elicotteri.
«Papà, non ti preoccupare, sto bene. Starò bene» dissi per rassicurarlo, sollevando l'angolo destro della bocca con fatica. Per fortuna, lui non se ne accorse.
«Sei sicura? Perché non sei obbligata a partire, lo sai. Puoi rimanere a casa con me. Sono certo che sei ancora in tempo per iscriverti a quel corso estivo di architettura di cui mi hai parlato qualche mese fa» aggiunse con palpabile preoccupazione nei miei confronti. Non che quello stato d'animo fosse una novità, ma ciò che stava dicendo non aveva molta importanza dato che non era realizzabile.
«Papà, sei stato tu a propormi questa cosa. E sei stato sempre tu a convincermi a partire, ricordi?» gli feci notare con tutto il tatto di cui ero provvista.
«Giusto. Hai ragione. Non che sia una novità...» borbottò tra sé e sé mentre parcheggiava la macchina e spegnava il motore con un movimento del polso nel parcheggio dell'aeroporto. «Dunque, eccoci qua. Ci siamo» mormorò con le mani strette intorno al volante e gli occhi azzurri fissi da qualche parte dietro agli occhiali squadrati.
Lo osservai aprire la portiera e scendere mentre giocavo distrattamente con un filo scucito dal taglio sui miei jeans: il vizio era rimasto. Me la presi comoda, rimanendo seduta nell'autovettura ancora un po', scrutando il paesaggio al di là del finestrino anche se non c'era veramente qualcosa di interessante da vedere: la gente entrava e usciva dall'aeroporto in una successione continua con al seguito valigie e carrelli più o meno ricolmi, incurante della battaglia che stava avendo luogo dentro di me.
Erano passati quasi due anni da quella notte e tutto era cambiato. Io ero cambiata.
Avevo fatto di tutto per dimenticare e per superare quell'ostacolo che mi si era posto davanti, per riprendermi in mano la vita, ma evidentemente la mia volontà non era stata sufficiente. Negli ultimi tempi mi ero ritrovata anche a pensare se davvero avessi mai avuto l'intenzione di cambiare, se il mio subconscio avesse agito contro la mia razionalità per lasciare dentro di me quell'opprimente sensazione per sempre, in modo che non potessi mai più dimenticare quanto la vita possa fregarti.
Papà aveva fatto tutto il possibile per aiutarmi nel mio cammino di recupero, non potevo negarlo. Prima aveva sborsato una somma spropositata per coprire la parcella della migliore psichiatra di New York, e quando mi era stato evidente che il miglioramento era solo apparente, il senso di colpa per essere diventata un peso economico non indifferente aveva fatto in modo di convincermi a fingere di star guarendo perché continuavo a svegliarmi nel bel mezzo della notte con il fiato corto, la fronte sudata e il fantasma delle mie urla che rimbalzava tra le pareti.
Papà non era sordo, papà sapeva. Dentro di me non ero cambiata affatto, dentro di me continuavo a non voler ricordare, ma allo stesso tempo ero impossibilitata a dimenticare.
Dopo la psichiatra, ero finita nei gruppi di sostegno, ottenendo il risultato opposto di quello sperato da mio padre e dalla dottoressa. Ascoltare per giorni le storie di quelle ragazze, alcune persino più giovani di me, era servito solo a farmi capire quanta merda ci fosse nel mondo, quando fosse patetico accettare di avvicinarsi al proprio aggressore e permettergli di fare ciò che voleva senza urlare o scalciare.
Le loro storie erano un loop, un cerchio di vicende la cui trama era messa in comune: l'inizio era lo stesso, la fine pure. Bastava che chiudessi gli occhi la notte per conoscere approssimativamente ciò che era accaduto a tutte le altre ragazze sedute in quel cerchio. Tutto sommato, poi, a me era anche andata bene, perché le più sfortunate ora si trovavano a dover crescere un figlio bastardo, che non avevano chiesto né voluto. Presi parte a quegli incontri una dozzina di volte, senza mai azzardarmi ad aprire bocca: trovavo già difficile ascoltare le parole delle altre ragazze, figuriamoci articolare dei suoni. Non facevo fatica ad ammettere di avere un fottuta paura che dire ad alta voce la verità avrebbe risvegliato la parte della mia mente destinata ai ricordi anche durante lo stato di coscienza, di giorno, rendendomi impossibile fingere di stare bene. Così il segreto rimase tale per me, papà e Piper, il magico triumvirato.
Il giorno prima di mettere un punto fermo anche agli incontri di sostegno comparve una nuova ragazza. Si chiamava Emily e bastava guardarla per capire il motivo per cui il suo aggressore l'avesse violentata: aveva solo sedici anni ed era bellissima, malgrado la nota di tristezza che si poteva scorgere nei suoi occhi.
Rimasi a guardarla a lungo, cercando di capire l'emozione che il suo corpo trasmetteva, e poi ci arrivai: violazione. Per tutta la durata dell'incontro rimase in un silenzio opprimente, gli occhi puntati su una sedia vuota e le braccia incrociate sotto il seno, sopra la pancia rigonfia: Emily aspettava un bambino, ma quella non era un novità.
La volta successiva lei non tornò. Alcune volte succedeva.
Passai molto tempo pensando a lei, a come si sentisse e a cosa pensasse, e alla fine mi accorsi che non conoscevo neppure la sua storia: a parte il nome, non aveva detto una parola, proprio come me. Così presi la decisione di smettere di andare agli incontri definitivamente: non ne vale la pena ed era solo una perdita di tempo ed energie. Ripresi con le mie sedute sporadiche con la psichiatra e lei non impiegò molto a capire che il mio fingere che tutto fosse apposto era solo un tentativo disperato di non far soffrire chi mi voleva bene più di quanto non avesse già sofferto per colpa mia.
E poi, un paio di mesi prima, ecco che arrivò La Chiamata.
Mi era stata offerta la possibilità di partecipare a un progetto che si occupava di mandare volontari in alcuni paesi del terzo mondo in veste di insegnanti elementari, per istruire i bambini che non avevano la possibilità di andare a scuola. Con le mie ottime referenze scolastiche, secondo loro ero la candidata perfetta per quel ruolo: avendo studiato per anni il portoghese, lo spagnolo e il francese – amavo le lingue neolatine – ed essendo una delle migliore studentesse del mio corso universitario, rispondevo a tutti i loro requisiti. E poi ero giovane.
Il problema era che il loro progetto non rispondeva alle mie esigenze: partire per un paese anonimo voleva dire lavorare a stretto contatto con persone che non conoscevo. Persone che sfoggiavano un sorriso cordiale durante il giorno e si trasformavano in mostri durante la notte. Persone oscure, persone maligne. Non potevo nascondere a nessuno che la mia paura più grande dopo il fatto fosse proprio quella e che il solo pensarci mi mandava in panico: era come se la mia vita si fosse ridotta al contatto delle poche persone che già conoscevo in precedenza, amici e parenti.
Ma non ero stata la sola a cambiare da quel punto di vista: Piper, nei primi periodi, aveva cominciato a trattarmi come una bambina, la quale poteva scoppiare a piangere da un momento all'altro se solo un qualsiasi cosa fosse andato storto. Avevo tirato un sospiro di sollievo quando, qualche mese prima, si era lasciata sfuggire per errore un commento casuale su quanto fossi cambiata, quanto fossi chiusa e schiva. A quelle parole, il sollievo non era durato molto più a lungo: mi ero stretta nelle spalle, perdendo all'improvviso tutta la forza e la voglia di controbattere. A che sarebbe servito? Nulla, perché lei aveva ragione.
Non era passato molto tempo dalla proposta che mio padre aveva cominciato ad insistere tenacemente: prima tirava fuori l'argomento durante la cena, poi veniva a bussare alla porta della mia camera, interrompendo qualunque cosa stessi facendo per fare una chiacchierata. Ero arrivata persino a tirar fuori una brochure pubblicizzante il progetto da sotto il cuscino. L'argomentazione di mio padre a sostegno della proposta stava nel sostenere che, se fossi partita, avrei potuto capire davvero ciò che mi stavo perdendo nel chiudermi in casa per la maggior parte del tempo, quello per cui valeva la pena combattere e non lasciarsi andare alla deriva.
Ciò che, alla fine, mi aveva fatto cedere era stata l'espressione che gli si era dipinta in volto per qualche istante in seguito al mio ennesimo diniego: l'avevo già visto triste in passato; dopo la partenza della mamma, dopo il rifiuto ricevuto da una casa editrice per il libro su cui aveva lavorato per anni, dopo il mio risveglio in ospedale quella sera. Ma mai e poi mai avrei immaginato di vedere mio padre provare pietà nei miei confronti. Una persona che si era lasciata usare senza muovere un dito non meritava la pietà di nessuno, nemmeno del proprio genitore.
Io l'avevo visto nei suoi occhi e io avevo scelto di accettare.
Malgrado mi fossi mossa con un leggero ritardo, l'associazione aveva risposto nel giro di pochissimo tempo alla mia domanda di accettazione, mettendo in allegato una lunga lista di possibili Paesi tra cui scegliere e aggiungendo qualche riga di apprezzamento ed entusiasmo per la mia decisione di contribuire.
Ghana, Madagascar, Cile, Thailandia...
Alla vista di tutti quei nomi, la realtà di quello che stavo per fare mi aveva improvvisamente colpito, lasciandomi un senso di immediatezza che più volte ero stata sul punto di gettare la spugna ancor prima di scegliere il Paese. Come potevo partire senza sapere chi ero veramente? Potevo davvero illudermi che quella fosse la cosa giusta per me? Al diavolo, nemmeno sapevo se ce l'avrei fatta ad arrivare viva al giorno della partenza!
Tutto ciò mi aveva portata alla decisione di non pensare assolutamente e di mettermi nelle mani di mio padre: speravo solo che la mia scelta lo avrebbe reso finalmente un po' più felice quando mi guardava. Perciò, una sera, seduta al tavolo della cucina con lui e una tazza di latte caldo, avevo chiuso gli occhi e appoggiato il dito su un punto casuale del foglio.
Brasile.



 
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Trassi un respiro profondo e aprii la portiera dell'auto, spostando dietro all'orecchio la ciocca di capelli che mi era finita davanti agli occhi a causa del vento forte che soffiava, effetto collaterale della brutto tempo.
Non badai alle poche gocce di pioggia che stavano cominciato proprio in quel momento a cadermi addosso e nemmeno tentai di ripararmi utilizzando il bavero della maglia leggera che indossavo; feci semplicemente il giro della macchina senza alterare il mio passo abituale, raggiungendo papà, il quale stava scaricando le mie valigie dal bagagliaio.
Una goccia d'acqua cadde sulla punta del mio naso. La toccai con una mano distrattamente, come se mi fossi accorta solo in quel momento di cosa stesse cadendo dal cielo, poi stesi l'avambraccio all'infuori, godendomi la sensazione di fresco dettata dall'accoppiamento dell'aria e del tempo atmosferico pessimo.
«Ecco qua. Ci dovrebbe essere tutto, no?» domandò papà dopo aver appoggiato l'ultima valigia accanto alle altre sul marciapiede paonazzo di pioggia.
Annuii senza nemmeno controllare, prendendo con una mano il manico di un trolley, e con l'altra la mia borsa da viaggio azzurra: al resto ci avrebbe pensato lui. Il progetto aveva la durata di sei mesi abbondanti e ciò andava a significare che avrei perso un intero semestre di corsi all'università. Mi dava fastidio? Sì. Mi importava davvero qualcosa? No, decisamente no. Ciò che davvero mi scocciava era il dover ritardare la laurea, il momento in cui avrei potuto decidere della mia vita senza la preoccupazione di non avere un'adeguata istruzione per potermi garantire il mantenimento. Non lavorare significava dover pesare sulle spalle di mio padre ancora e ancora, come se tutto ciò che aveva fatto fino a quel momento non fosse stato abbastanza. Per come la vedevo io, nessun padre avrebbe mai potuto pareggiare ciò che il mio aveva sacrificato.
Grazie al mio rendimento, all'ultimo anno di superiori ero riuscita a farmi accettare da molto prestigiose università, prima fra tutte la Columbia University. Allora il mio obiettivo, nonché sogno di sempre, era diventare architetto un giorno. Ma durante quell'estate era stato difficile pensare al futuro perché il presente era fin troppo opprimente e ingombrante nella mia testa. Come potevo pensare a “un giorno” quando non sapevo come superare l'”oggi”? Avevo finito per frequentare davvero la Columbia solo con un paio di giorni di ritardo, costretta dalle suppliche di mio padre e dal bisogno di dover tenere occupata la mente: ricordavo bene che lo studio era un ottimo repellente contro la noia e i pensieri scomodi. Insomma, l'alternativa era restare in casa e non fare niente e pensare, e non credo fosse una buona cosa in definitiva.
Le persone che entravano e uscivano dall'aeroporto, chi trasportando un carrello e chi solo un piccolo trolley, avevano cominciato a correre per trovare riparo dalla pioggia che, in pochi minuti, era diventata implacabile e torrenziale. Dopo che mi padre ebbe chiuso la macchina premendo il bottone centralizzato sulla chiave nera, attraversammo la strada che separava il parcheggio dall'entrata, avanzando a passo spedito in direzione delle porte scorrevoli poste al centro dell'ala dedicata alle partenze.
Non avevo mai viaggiato molto è vero, ma non era mai stata mia abitudine uscire con zaini o borsette, in qualunque posto dovessi andare, che fosse il supermercato sul ventesimo isolato o il bar sotto casa. Quindi mi pare ovvio presupporre che non fossi stata io a decidere di partire con tre valigie più un trolley che fungeva da bagaglio a mano e una borsa da viaggio: a causa della mia accettazione tardiva per il progetto, avevo dovuto tirare assieme tutto in fretta e furia. Di certo non mi sarei mai aspettata che mio padre si improvvisasse personal shoppers – ovviamente, senza chiedere nulla in cambio – quando era arrivato il momento di preparare i bagagli.
Così la settimana prima mi aveva svegliata di buon ora, entrando nella mia camera di soppiatto e tirando le tende per far entrare la luce nella stanza. La sera prima mi ero attardata nella lettura di un saggio di storia antica che avevo trovato nella biblioteca personale di mio padre ed ero crollata sul libro solo a notte fonda.
Tutto allegro se ne era uscito con l'assurda e spiazzante idea di passare la giornata a fare shopping in vista della mia partenza, sfruttando il suo giorno libero dalle lezioni in università. Molto spesso la sua presunta allegria era solo uno sforzo per tenere su di morale la sottoscritta – anche se non ce n'era bisogno, ma quel giorno pareva davvero felice ed entusiasta, il che era insolito visto che odiava come la peste bubbonica i centri commerciali (diceva che erano degli imbrogli per famiglia e che ci avrebbero portati a un disfacimento generale della società). Ma chi ero io per rovinare il suo ottimo morale?
Avevamo passato praticamente tutta la mattina e buona parte del pomeriggio nei diversi negozi di quel posto, comprando non solo il necessario, ma qualsiasi cosa mi potesse tornare utile a suo dire – poco importava che per la maggior parte l'utilizzo mi era ancora del tutto ignoto. Il giorno dopo era tornato a casa con due enormi valigie che aveva appoggiato all'entrata. Se anche mi era tornata in mente la partenza della mamma alla vista di quell'immagine, non lo avevo dato a vedere. Anzi, non c'era nemmeno stato il bisogno di fingere: papà mi aveva preso per mano e aveva cominciato a riempirle di qualsiasi cosa gli era capitato per mano, recuperando anche quello che io scartavo di nascosto. Avevo imparato in fretta che era inutile rifiutarsi: alla fine l'aveva vinta lui su tutti i fronti.
Così ora mi trovavo a dover viaggiare da un emisfero all'altro carica come un bisonte da monta e con il grande dubbio di non riuscire a trasportare tutto una volta rimasta da sola. Per mia fortuna, papà ebbe la brillante idea di prendere in prestito un carrello per trasportare le valigie più pesanti. Dopodiché mi porse il manico con un sorriso che si allargava pian piano.
Sembrava quasi... commosso?
Oh, no. No. No, no, no e ancora no. Conoscevo fin troppo bene quell'espressione: era la stessa comparsa sul suo viso quando mi ero diplomata. Sapevo con fin troppa certezza che stava per mettersi a piangere in aeroporto e io non potevo assolutamente permetterglielo.
I suoi occhi si fecero lucidi e una grossa lacrima comparve all'angolo del suo occhio destro, mentre tirava su rumorosamente con il naso.
«Oh, no, papà! Ti prego, ti prego, non piangere» lo implorai ad alta voce mentre sentivo già la malinconia travolgermi la pancia, il petto, la gola. Tutto il corpo. Il mio stomaco si strinse in una morsa stretta. Gli appoggiai una mano sul braccio, accarezzandolo piano.
«Lo sai vero che sei la mia bambina? Non importa se hai quasi vent'anni. Sei e sempre resterai la mia piccola stellina» mormorò stringendo le labbra.
Erano anni che non mi chiamava più così: “stellina” era il diminutivo che papà usava da quando ne avevo memoria. Un sorriso involontario, ma spontaneo, si disegnò sul mio volto.
«Papà, sei stato tu a convincermi a partire, ricordi? Posso sempre rimanere qui, non c'è problema, lo sai...»
Una piccola parte di me sperava veramente che cambiasse idea e che mi stringesse a sé, spingendo il carrello in direzione della macchina, per tornare a casa insieme e riprendere la vita degli ultimi due anni.
Ma la mia frase sembrò ridestarlo da una realtà parallela perché con un gesto fulmineo della mano si asciugò le guance dalle traccie solitarie della sua malinconia, scosse la testa e accennò un piccolo sorriso.
«No. Tu devi partire, Annabeth. New York non può aiutarti in alcun modo nel tuo cammino verso una vita migliore. Questo non è il posto in cui devi essere ora. Troverai nel Brasile la tua casa e un rifugio per i prossimi mesi» disse prendendomi per le spalle a attirandomi a sé in un caldo abbraccio confortevole che sapeva di famiglia, di quelli rari, unici.
«Annabeth, ascoltami attentamente, okay? Sono passati quasi due anni e tu non sei più quella si una volta. Lo sai tu e lo so io, non c'è più bisogno di fingere. Ciò che ti è successo, ciò che ti ha fatto quel ragazzo non è giusto e mai lo sarà. Nessuno merita di provare quello che è accaduto a te, nemmeno la persona più ignobile di questo mondo. Ma non è tuo il compito di rimediare al suo errore, e nemmeno puoi permettere che questo condizioni tutta la tua vita. Sei giovane, troppo giovane, ma abbastanza grande per comprendere di non poterti lasciare andare. Ora, in questo momento, hai bisogno di vedere con i tuoi occhi ciò che ti perderai se continuerai ad essere quello che sei adesso. E c'è solo un modo per farlo, figlia mia. Quello di cambiare strada e percorrerne un'altra» sussurrò al mio orecchio tenendomi stretta a sé.
Non volevo piangere, ma quelle presero a bagnarmi il volto come se possedenti di una volontà propria.
«Quando verrà il momento di affrontare l'ostacolo che ti blocca ti troverai in difficoltà perché sarà dura, molto dura. Ma io so che ce la farai. La mia Annabeth è una combattente nata» disse. «Forse in alcuni momenti ti sentirai sola, forse soffrirai, forse riderai fino a lacrimare. Non so cosa accadrà, ma tu devi sempre pensare che da qualche parte nel mondo qualcuno ti è vicino e ti vuole bene. Io sarà uno di quelli. Devi solo imparare ad ascoltare il tuo cuore e a seguirlo» aggiunse poi, e con l'indice picchiettò un paio di volte sul mio petto, appena sopra il seno.
Poi mi strinse a sé con maggior tenacia, lasciandomi andare fin troppo presto. Prese a passare le mani nervosamente sulla giaccia grigia che indossava: era domenica, ma papà si ostinava ad indossare il completo professionale che portava durante la settimana lavorativa.
Non potevo negare che le sue parole mi avessero colpita nel profondo: era tanto che non mi parlava a viso così aperto e che non nominava il Fatto. Decisi di non pensarci per il momento, e attendere di essere sola per analizzare le sue parole anche se una parte di me già pensava che le sue erano solo illusioni.
«Bene. Bene, credo sia ora che tu vada, tesoro, altrimenti rischi di perdere il volo.»
Con una mano spostò dietro all'orecchio la ciocca di capelli che mi era finita davanti agli occhi, spostando poi il palmo sulla mia guancia per un'ultima carezza.
«Ci vediamo a Dicembre, okay? Al tuo ritorno preparerò il miglior pranzo di Natale che tu abbia mai mangiato, contenta?» domandò, cercando palesemente di alleggerire la tensione creatasi in seguito alle sue parole.
Feci una smorfia, ma sotto sotto ero contenta che avesse cambiato argomento. «Forse è meglio di no, papà. Non voglio rischiare di dover passare la vigilia di Natale in ospedale per la seconda volta» dissi sdrammatizzando. Una cosa simile era già successa tre anni prima, quando mio padre aveva voluto provare a cucinare il tacchino ripieno per il Ringraziamento.
Ci fu un ultimo abbraccio, un ultimo bacio, un ultimo saluto, un ultimo sguardo e poi la sua immagine venne oscurata dalle porte scorrevoli dell'entrata.
Mio padre se n'era andato, io ero rimasta sola e un aereo per il Brasile mi stava aspettando.
Presi un respiro profondo e cominciai a trafficare un po' con il carrello che non ne voleva sapere di andare nella direzione giusta, riuscendo poi finalmente a raggiungere lo sportello del bagaglio di stiva che, a dispetto di tutte le dicerie, non era affatto affollato di gente in fila d'attesa. Solo un'anziana signora stava gesticolando bonariamente con l'uomo seduto dietro al bancone il quale, dal canto suo, l'ascoltava con sguardo annoiato e disinteressato mentre attaccava una lunga striscia bianca al manico della grossa valigia a fiori appoggiata sul nastro trasportatore.
Mi avvicinai, fermandomi un paio di metri dietro alla signora per rispettare la privacy consigliata dalla riga gialla sul pavimento. Il dubbio che avessi sbagliato orario o addirittura – e qui mi vennero i brividi – giorno mi assalì. Che figura ci facevo se nemmeno riuscivo a prendere un benedetto aereo al momento giusto? Come potevo occuparmi di gestire una classe di bambini quando nemmeno riuscivo a gestire me stessa? Litigando con la grossa borsa da viaggio che portavo sul braccio, riuscii a recuperare i documenti e il biglietto con le indicazioni del volo dalla tasca interna.
Non mi accorsi nemmeno del leggero tremolio della mano quando lanciai un'occhiata a quel foglio.

Partenza: Aeroporto Jonh F. Kennedy, New York, stato di New York, USA
Destinazione: Aeroporto Antonio C. Jobin, Rio de Janeiro, Brasile
Chiusura Check-in: 9:30
Partenza volo prevista per le: 10:15


Feci scorrere il dito sul campo contrassegnato dalle parole “Giorno di partenza” e con un sollievo tale da farmi rilasciare il fiato trattenuto fino a quel momento rumorosamente, constatai che il giorno era giusto. Mi bastò una rapida occhiata all'orologio che portavo al polso per accertarmi che fossi anche in perfetto orario sulla tabella di marcia. Non essendoci altro motivo per pensare di essere in errore, alzai di nuovo lo sguardo sullo sportello, accorgendomi solo in quel momento che la signora anziana aveva finito di parlare ed era sparita, lasciando l'impiegato a battere sulla tastiera di un computer postogli davanti.
Avanzai un po' più sicura, ma all'improvviso venni spinta di lato bruscamente e la mia borsa cadde a terra, riversando buona parte del suo contenuto sul pavimento di marmo dell'aeroporto.
Dopo un attimo di smarrimento, mi guardai attorno in cerca di chi che mi aveva spinto. Con mia grande sorpresa constatai che il chi era un ragazzo in piedi davanti allo sportello verso cui mi stavo dirigendo, nella posizione esatta dove prima c'era la signora. Se ne stava in piedi di spalle, quindi non riuscivo a vederlo in volto, ma era evidente che fosse stato lui.
Strinsi la mascella, sentendo la rabbia nascere da dentro di me: non ero affatto stupita che un ragazzo si fosse comportato in quel modo – non era una sorpresa per me, insomma, ma ciò non voleva dire che giustificassi il suo comportamento.
«Ehi, tu! Potresti almeno chiedere scusa» dissi, aggrottando le sopracciglia e appoggiando una mano sul fianco.
Lui, che aveva appena posato la sua valigia sul nastro trasportatore, si voltò appena, sul volto uno sguardo interrogativo e perplesso. Ah, bene, faceva pure finta di niente!
«Parli con me?» chiese dopo un attimo di smarrimento.
«Certo che parlo con te, vedi qualche altro maleducato qui in giro? Mi hai spinto per passare avanti!» Allargai il braccio, indicando gli oggetti ancora sparsi sul pavimento per sottolineare la mia tesi.
«Non so di cosa tu stia parlando» ebbe il coraggio di dire, continuando a negare l'evidenza. Assurdo, erano mesi che non mi capitava di incontrare una persona così maleducata e bugiarda.
Certo, è un ragazzo, disse una vocina nella mia testa, che ti aspettavi?
L'istante successivo lui aveva già riportato l'attenzione sull'uomo dietro al bancone, il quale gli stava porgendo dei documenti.
«Ecco a lei, signor Jackson, le auguriamo un buon viaggio con la Delta Airlines» disse monotono l'impiegato, come se stesse leggendo una frase prescritta.
Il tipo fece un cenno di assenso con il capo, per poi prendere il manico di un trolley al suo fianco e dirigersi a destra, senza degnarmi più di un'altra parola.
Assurdo, in tutti i sensi. Come poteva una persona spintonarne un'altra e nemmeno degnarsi di chiedere scusa? Non pretendevo certo che si inchinasse con la faccia a terra implorando la remissione di tutti i peccati, ma qualche parolina di conforto non lo avrebbero i certo ucciso. Ricordai a me stessa che era un maschio e che, di conseguenza, la cosa non doveva affatto stupirmi. Non dopo ciò che uno della loro specie mi aveva fatto.
«Signora? Deve lasciare i bagagli per caso?»
La voce dell'uomo dietro al bancone mi riportò alla realtà.
Sbuffai, passandomi una mano sulla faccia per scacciare quel senso di rabbia e rassegnazione. «Certo, mi dia solo un attimo» risposi, accovacciandomi a terra per raccogliere tutto quello che era caduto.
Pensai che quel ragazzo mi aveva dato solo un'altro motivo per giustificare il mio odio eterno verso gli uomini e la paura di interagire con loro. Se la maggior parte tendevano a mascherare la loro vera natura, c'era ancora qualcuno che non si faceva problemi nel mostrarla apertamente fin dal primo istante.
Poi le parole di mio padre rimbombarono nella mia testa: non puoi permettere che questo condizioni tutta la tua vita. Decisi senza un attimo di esitazione che aveva ragione e da quella consapevolezza derivò la promessa che feci a me stessa.
Nessuno mi avrebbe più fatto del male, anche a costo di rimanere da sola per sempre.
L'unico modo perché ciò si avverasse era mantenere il segreto del mio passato, quello che mi rendeva debole ed inerte davanti al mondo. Che sarebbe successo se qualcuno avesse usato il mio passato per ferirmi ancora e ancora?
Ero pronta a tutto pur di far rimanere la verità un segreto. Proprio tutto.
 

CAPITOLO REVISIONATO IN DATA 29/07/2016


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Ehilà! Come state? Ho finito giusto ieri di scrivere il capitolo e mi sono accorta che probabilmente non riuscirò ad aggiornare fino a settimana prossima ç.ç Mi aspettano delle settimane lunghe e piene di verifiche/interrogazioni (stupido liceo, perché esisti).
Ma questo non vi deve deprimere perché avete appena letto il capitolo (sempre se lo avete letto) e questo dovrebbe evervi reso felici (?). Si non ha molto senso quello che dico... Fateci l'abitudine.
Passando al capitolo: sono passati due anni dalla fatidica sera (capitolo 1) e Annabeth, come avrete sicuramente capito, è cambiata diventando chiusa e schiva. La psicologa e i gruppi di sostegno non sono serviti a nulla. Così la dottoressa convince prima suo padre poi la ragazza a partire e andare in Brasile (non chiedetemi il perché io abbia scelto proprio quel paese perché sinceramente non lo so neanche io). In questo capitolo potete scorgere un pezzetto del passato di Annabeth... e, sorpresa delle sorprese, per ultimo fa la comparsa il nostro amato Percy, che si ritrova a prendere lo stesso aereo di Annabeth (e.e). Ve lo aspettavate? Cosa succederà? (sinceramente non lo so con certezza neanche io XD Ma ho qualche idea qua e là...). Beh, fatemi sapere cosa ne pensate u.u
Baci, Annie
  
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