Libri > Harry Potter
Segui la storia  |       
Autore: Trick    02/02/2014    5 recensioni
Erano amici e ridevano, si prendevano in giro e sì, avrebbero giurato con entrambe le mani sul fuoco che loro erano davvero amici e che lo sarebbero stati per sempre.
A dodici anni si giura su molte cose.
Anche sulle bugie.

L'amicizia fra Remus e Sirius non è mai stata particolarmente limpida: hanno già subito le conseguenze di ogni loro scelta sbagliata, ma ora è il momento di accettarle senza più maschere.
Genere: Angst, Malinconico, Triste | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: I Malandrini, Remus Lupin, Sirius Black
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica, II guerra magica/Libri 5-7
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Note: Ve l'avevo detto che avrei aggiornato in fretta. (:
In questo capitolo ci sono dettagli tratti da Pottermore (in particolare da ciò che viene raccontato sui Lupi Mannari), ma confesso di essermi presa la libertà di ignorare qualche punto che non mi interessava particolarmente...







*
La lingua delle maschere





I.
Il bugiardo




Nessuno di loro aveva ancora ben chiaro cosa rappresentasse davvero l'amicizia. E dire che erano buoni amici, di quelli che non avevano mai litigato e si spintonavano scherzando per i corridoi di Hogwarts. Erano amici e ridevano, si prendevano in giro e sì, avrebbero giurato con entrambe le mani sul fuoco che loro erano davvero amici e che lo sarebbero stati per sempre.
A dodici anni si giura su molte cose, anche sulle bugie.
«Tua madre è di nuovo malata?».
Remus si immobilizzò con le dita serrate attorno al pigiama che stava infilando nello zainetto: la nota diffidente nel tono di voce di Sirius gli aveva fatto tremare le ginocchia. Si mordicchiò nervoso il labbro inferiore con la sgradevole sensazione di avere gli occhi dell'amico conficcati nella schiena come due lame roventi. E giravano, giravano, giravano nella carne e facevano un male dannato.
«Già» mormorò tristemente, voltandosi appena per rivolgergli un sorriso tirato.
Sirius era un ragazzino dotato di un'invidiabile eleganza: aveva solo dodici anni, ma i suoi lineamenti decisi ne rendevano il viso più maturo. Aveva il naso dritto, le labbra ben disegnate e ogni altro dettaglio della sua piccola persona sembrava perfetto esattamente nel modo in cui era uscito fuori.
«Che cos'ha?».
«Te l'ho già spiegato».
«Ma io non ho capito».
Remus chiuse gli occhi e sospirò.
«È una malattia rara, Sirius. Una malattia Babbana».
«C'è una cura?».
«No».
La risposta lasciò Sirius piuttosto insoddisfatto. Incrociò le braccia e si appoggiò con naturalezza allo stipite della porta del dormitorio, senza smettere di scrutare l'amico con espressione accigliata. E Remus non poté fare a meno di notare che perfino in quel modo, con una ruga pensierosa in mezzo alla fronte e il naso storto, il volto di Sirius era comunque perfetto.
«Mi dispiace, Remus».
«Grazie» tagliò corto mentre richiudeva lo zainetto con un gesto frettoloso. Lanciò un'occhiata preoccupata alla sveglia sul comodino e si costrinse a sorridere. «Ora devo proprio andare».
«Certo». Sirius si spostò di qualche decina di centimetri per farlo uscire. «James e Peter sono in sala comune. Credo che Peter stia di nuovo stracciando James a scacchi».
«La tenacia di James è ammirevole».
«Tenacia?» ripeté Sirius con un sogghigno sarcastico. «Io lo chiamo “essere scemi”. Non potrei proprio giocare una partita che non so vincere. E tu?».
Remus si gettò in spalla lo zaino e cercò di individuare i due amici fra gli studenti che affollavano la sala comune. Li vide seduti accanto a una delle finestre: James aveva le mani nei capelli e Peter sghignazzava soddisfatto.
«Non lo so» disse vago. “Sì, invece. Lo faccio a ogni Luna Piena. Lo faccio ogni giorno e ogni secondo...”.
Sirius gli rivolse un'ultima occhiata penetrante. Remus trattenne un brivido: nel suo sguardo brillava una tacita accusa e una parte di lui temette che fosse arrivata la fine – che Sirius avesse intuito, che avesse scoperto...
Si rilassò solo quando l'altro si limitò a salutarlo con un'amichevole pacca sul braccio. “Se davvero lo avesse scoperto, non mi toccherebbe nemmeno”.
«Spero che tua madre si riprenda».
«Grazie».
Non si voltò indietro mentre scendeva le scale, ma continuò ad avvertire su di sé la pungente attenzione di Sirius. Superò un gruppetto di ragazze del quarto anno che ridacchiavano oltre le pagine del Settimanale delle Streghe e si avvicinò ai due compagni di dormitorio. Gli fu sufficiente una sola occhiata alla scacchiera incantata per capire chi dei due amici fosse nuovamente a un passo dalla sconfitta.
«Accidenti a te, Peter!» strepitò con sconforto James, passandosi una mano fra i capelli scarmigliati e lasciandosi scivolare nella poltrona. «Sono ai ferri corti e... ehi, Remus!».
Remus si aggiustò lo zaino sulle spalle e sorrise.
«Vai a trovare tua madre?».
«Sì, sono venuto a salutarvi. Tornerò entro un paio di giorni».
James annuì con aria mesta.
«Bel guaio, quello...».
«Starà bene».
«L-lo speriamo tutti».
«Grazie, Peter».
Rimasero qualche secondo in silenzio, fissando l'alfiere nero di Peter fare a pezzi la torre bianca di James. Remus inclinò pensieroso il capo e studiò rapido le posizioni sulla scacchiera. Aveva sempre amato gli scacchi, sebbene avesse potuto giocare con quelli magici solo una volta arrivato a Hogwarts. Suo padre era un mago, ma sembrava trovare la violenza rumorosa degli scacchi incantati un po' troppo fuorviante per la concentrazione.
“L'istinto e la ragione non vanno mai d'accordo, Remus” gli aveva detto una sera di molti anni prima nel tentativo di spiegare al figlio la facilità con cui gli aveva dato scacco matto. “O combatti con l'una o combatti con l'altra; se combatti con entrambe, hai già perso”.
«Regina in E4, James» consigliò con innocenza.
«Ehi!» protestò piccato Peter. «Sto vincendo!».
Remus ridacchiò della sua espressione indignata e infilò le mani nelle tasche.
«Hai già vinto».
James guardò prima lui, poi la scacchiera e poi Peter. Poi ancora Remus, la scacchiera e Peter, e più li guardava più il suo viso si incupiva.
«Ho perso, eh?».
«Cercavo di salvarti un briciolo d'onore» ammise amabilmente Remus. «Ora devo proprio andare...».
«Fa' buon viaggio, Remus».
«E porta i nostri auguri a tua madre».
«Grazie, ragazzi. Ci vediamo presto».
James e Peter fissarono l'amico dirigersi verso il passaggio nascosto dietro il ritratto della Signora Grassa. Attesero che l'orlo sdrucito del suo mantello fosse svanito oltre la parete prima di scambiarsi un'occhiata d'intesa. Sirius li raggiunse pochi istanti dopo, si accomodò su una terza poltrona e allungò le gambe sul tavolino incurante della partita in corso. James e Peter non dissero nulla: la sconcertante sconfitta di James sembrava già dimenticata.
Fu Sirius il primo a prendere a parola.
«C'è la luna piena anche questa sera».
Peter trasalì. James non si mosse. Teneva gli occhi ancora puntati sui resti della sua torre, ma Sirius sapeva che non stava pensando alla partita – stavano tutti pensando alla stessa identica cosa da mesi.
«Forse è meglio rientrare nel dormitorio, Sirius» consigliò con voce sepolcrale James. Si sporse oltre la poltrona per scrutare cauto gli altri ragazzi di Grifondoro. «Dico davvero. La sala comune non è il posto adatto per parlare di... questo».
Sirius annuì. I tre si alzarono in piedi e si diressero a passi svelti verso le scale. Non appena ebbero raggiunto il dormitorio, Sirius si richiuse la porta alla spalle con un calcio rabbioso. Sentiva ogni nervo fremere sotto la pelle, ogni centimetro dei propri muscoli tendersi a causa del dispetto... si morse l'interno della guancia e guardò i due compagni.
«È un dannato Lupo Mannaro».
Lo aveva già detto, ma mai come quella volta ne era stato convinto. Lo aveva pensato, se lo era ripetuto decine di volte mentre fissava Remus chino sui libri, Remus che faceva colazione, Remus che rideva e scherzava con quel suo umorismo delicato che gli era sempre piaciuto tanto... Remus che era un Lupo Mannaro, e ora che quelle parole erano davvero uscite dalla sua bocca si sentiva in qualche modo preda dello sconforto – e lui detestava sentirsi sconfortato.
Peter si era acciambellato nel suo letto e aveva nascosto metà volto nel cuscino. James si era avvicinato alla finestra e pareva intenzionato a non voltarsi. Teneva lo sguardo incollato al cielo.
«Forse è vero che sua madre è molto malata...» commentò Peter, ma la sua voce era colma di dubbio. «Insomma... un Lupo Mannaro a Hogwarts? È contro le regole, giusto?».
«È contro la legge» sibilò Sirius. Si lasciò cadere a schiena bassa sul proprio letto e incrociò le braccia dietro la testa. «Sia dannato Salazar... non posso crederci».
«Credete che dovremmo dirlo agli insegnanti?».
Sirius gli rivolse un'occhiata sprezzante. Talvolta l'ingenuità di Peter gli dava il voltastomaco e quella sera la sua pancia era già di per sé fin troppo agitata.
«Credi che non lo sappiano? Remus se ne va via una volta al mese! Come potrebbero non saperlo?».
«Ma se lo sanno...». Il tono della sua voce si fece ancora più timido e impacciato. «Com'è possibile che--».
«Non dire fesserie, Peter» lo interruppe deciso James. Si voltò finalmente verso di loro. Sul suo viso c'era un'ombra di biasimo. «Ne abbiamo già parlato. È Remus».
“È Remus” pensò Sirius. “Remus, Remus che studia, Remus che mangia, Remus che ride, Remus che è un Lupo Mannaro...”. Emise un grugnito infastidito mentre la parola “Lupo Mannaro” continuava a rimbombargli nella testa. “I Lupi Mannari sono Creature Oscure”.
«Credete che dovremmo dirglielo?» domandò Peter.
Sirius chiuse gli occhi e inspirò profondamente. Quella situazione assurda lo stava facendo impazzire e di certo Peter non era di alcun aiuto. Provò l'impulso di testare su di lui gli effetti dell'Incantesimo Immobilizzante di cui il professor Vitious aveva parlato durante l'ultima lezione, ma poi ricordò che su alcune Creature Magiche non aveva effetto e i suoi pensieri tornarono su Remus – Remus il Lupo Mannaro. Si chiese se l'Incantesimo Immobilizzante potesse funzionare anche su di lui. “Peter però non è una Creatura Magica. Starebbe zitto per almeno una decina di minuti...”.
«Io dico di sì» affermò James con sicurezza.
«E se si arrabbia?».
Questa volta la risata di James scoppiò alta e fragorosa. Sirius si accigliò. Come poteva James ridere in un momento simile? Aveva riso anche diversi mesi prima, quando Sirius aveva suggerito che Remus potesse essere un Lupo Mannaro. E all'epoca lo aveva detto con così poca convinzione che era stato il primo dei due a riderne. Ma poi le settimane si erano succedute e non era più stato in grado di ignorare tutti quei dettagli che forse avrebbe potuto notare fin da subito: mano a mano che il plenilunio si avvicinava, Remus diventava più pallido e debole, prestava meno attenzione durante le lezioni, si distraeva, parlava poco... e spariva ogni sera con la luna piena – e per quanto Sirius non capisse nulla né di Babbani né delle loro strane malattie, non era certo un ragazzo stupido.
Guardò James con aria contrariata.
«Non c'è niente da ridere, James».
James sgranò gli occhi e fissò stupefatto l'amico con quel sorriso quasi ebete che Sirius aveva imparato a riconoscere. Era quel sorriso di James, quello che diceva: “Ehi, non posso credere che tu sia tanto stupido, mi fai ridere a crepapelle”.
«È Remus» ribadì con voce incredula. «Andiamo, qualcuno di voi l'ha mai visto arrabbiato? L'avete mai visto gettarsi sulla cena e fare a brandelli cosciotti di pollo, l'avete mai sentito ringhiare o sputare palle di pelo o marchiare la porta del dormitorio?».
«A volte sviene durante le lezioni del professor Lumacorno...».
James si grattò pensieroso il mento.
«Magari è solo colpa della bilancia d'argento». Scrollò le spalle e aggiunse: «Non vedo l'ora di chiederglielo».
«James» ribatté tetro Sirius. «Hai la più pallida idea di cosa sia un Lupo Mannaro? Intendo davvero».
«Mio padre ha un libro sui Lupi Mannari...» disse Peter incerto. «Lupi Fuorilegge: perché i Licantropi non meritano di vivere. Ci sono delle fotografie orrende». Si strinse le braccia allo stomaco con espressione nauseata.
«Mio padre invece conosce l'autore» sostenne piccato James. «Emerett Picardy lavora al Ministero insieme a lui. E mio padre pensa che sia un idiota tronfio e che quel libro sia pieno di sciocchezze».
«E se lo dice tuo padre, deve essere così, no?». Sirius scattò a sedere con aria truce. Odiava quel discorso, odiava sentire frasi come “mio padre dice che...” o “mio padre è convinto che...”. Anche suo padre diceva un sacco di cose – ed erano sputi e grida e pugnalate che Sirius non voleva sentire. «Beh, lascia che ti dica una cosa, James: tuo padre non ha capito niente. I Lupi Mannari sono Creature Oscure, non distinguono il bene dal male. Non hanno morale, non hanno ragione, non sono... umani» sputò l'ultima parola con disprezzo feroce, ma mentre l'accusa gli scivolava dalle labbra una parte di sé si chiese se davvero ci stesse credendo. “Non sono umani” ripeté nella sua testa. “Remus non è umano, Remus ha mentito”.
James non si mosse. Rimase fermo nel cono di luce che la luna piena proiettava sul pavimento del loro dormitorio. Non si muoveva, ma Sirius riconobbe un'improvvisa furia agitarsi al di là delle lenti dei suoi occhiali. Era strano vedere quell'ombra feroce sul viso dell'amico: James era James, era gentile e onesto e poneva l'amicizia sopra qualunque altra cosa – ed era il suo dannato migliore amico che non voleva capire a quale pericolo tutti loro stessero andando incontro.
«Dimmi che non pensi sul serio che Remus non distingua il bene dal male. Dimmi che non pensi non abbia morale o ragione o...». James chiuse gli occhi come se non fosse in grado di sopportare la vista di Sirius e fece un profondo respiro. «Dimmi che non lo pensi. E dimmelo in fretta, Sirius, o giuro che ti prendo a pugni».
Sirius si alzò in piedi.
«Ci ha mentito».
Quello sì, che faceva male. E doveva far male anche a James, Sirius ne era certo – perché James era James, il gentile e onesto James che poneva l'amicizia sopra qualunque altra cosa. Non poteva non capire come si sentisse. Non James, non il suo migliore amico. Eppure il suo viso era ancora marmoreo, spietato, e per la prima volta Sirius notò il fantasma del disprezzo nei suoi occhi.
Forse il pugno non sarebbe partito da James.
«Hai appena definito Remus una “Creatura Oscura”» scandì pungente l'altro. «Hai detto che non è umano. Chissà, magari è per questo motivo che non ti ha detto niente».
«È un Lupo Mannaro!» strepitò Sirius. «Con quale altra parola avrei dovuto definirlo?».
«Non saprei» rispose James con sarcasmo piccato. «Che te ne pare di “amico”?».
Sirius tacque. Lanciò un'occhiata a Peter, ma il ragazzino sembrava intenzionato a non prendere parte nella loro accesa discussione – la prima, realizzò improvvisamente. “Stiamo litigando per colpa di un Lupo Mannaro. Bell'affare”. Si lasciò cadere con pesantezza sul materasso, ignorando lo sguardo accusatorio di James. Non c'era nulla di sbagliato nella sua posizione. James poteva scegliere di giocare al bravo samaritano fino ad avere la nausea di bontà e misericordia – o fino a quando la sua ingenuità lo avrebbe fatto ammazzare o sbranare – ma Sirius conosceva la realtà. Sirius non viveva nel suo stesso castello di cioccolato e marzapane. “Amico” mormorò una voce maligna nella sua testa. “I miei amici non sono Lupi Mannari. I miei amici non mentono”.
Si rigirò testardo sulla schiena e affondò il volto nel cuscino, nascondendosi nell'ombra delle tende rosse del baldacchino.
«Sirius?» lo richiamò James con più gentilezza.
La sua risposta fu un brontolio scocciato.
«Fa' quello che ti pare, James. Non ho potere di farti cambiare idea e tu non hai potere di farla cambiare a me. Fine della questione, buona notte».
Nessuno aggiunse altro e Sirius serrò gli occhi. Non si alzò per sfilarsi né la divisa né la cravatta di Grifondoro – non si levò nemmeno le scarpe. Restò fermo in un angolo del suo letto, ascoltando il rumore dei suoi compagni che indossavano i pigiami e si cacciavano sotto alle coperte senza parlare. Il tempo parve trascorrere con fastidiosa lentezza. Solo dopo diversi minuti riconobbe il respiro di Peter farsi lento e pesante. Attese ancora e ancora e ancora... ma per la prima notte da quando l'aveva conosciuto, James non russò.


*


La mattina dopo non era del tutto certo di aver davvero dormito. A un certo punto aveva semplicemente aperto gli occhi ed era stato come un battito di ciglia poco più lungo del normale. Si sentiva a pezzi.
Peter e James si alzarono pochi istanti più tardi – e Sirius sapeva di non essere stato il solo a non dormire. A differenza di Peter, che aveva iniziato a chiacchierare nervosamente come se nulla fosse accaduto, James si era stropicciato con lentezza gli occhi arrossati. Poi aveva fissato Sirius con aria interrogativa. Sirius si era alzato, si era sistemato la camicia sgualcita nei pantaloni, aveva afferrato la borsa dei libri e si era defilato dalla stanza senza nemmeno salutare.
“Al diavolo James” continuò a ripetersi mentre scendeva in sala comune. “Al diavolo Peter” pensò mentre sgusciava al di là del buco nel ritratto della Signora Grassa e si avviava verso la Sala Grande per la colazione. “E al diavolo Remus” concluse mentre prendeva posto alla tavolata praticamente deserta di Grifondoro. Non aveva mai mangiato da solo – e anche quello era colpa di Remus.
Quando James e Peter lo raggiunsero, lui aveva ormai terminato di sbocconcellare la sua colazione. Abbandonò ciò che restava del suo succo di zucca e se li lasciò entrambi alle spalle, intenti a scambiarsi occhiate preoccupate. Fu solo al termine della lezione di Trasfigurazione che James si arrischiò a parlargli. Si affrettò ad avvicinarsi a lui mentre l'amico infilava i libri nella tracolla.
«Puoi piantarla di comportarti come un completo idiota per almeno dieci minuti?».
Sirius alzò il capo e scostò un ciuffo di capelli dalla fronte. I suoi occhi erano stretti in un'espressione minacciosa.
«Va' al diavolo, James» soffiò arrabbiato. Pronunciarlo a voce alta fece ruggire di soddisfazione il suo stomaco. «Tu e Peter e quell'altro».
«Bene» concluse l'amico con tono efficiente. «Volevo solo informarti che io e Peter abbiamo deciso di parlare a Remus non appena sarà tornato. Gli diremo che sappiamo cos'è e che non ci importa perché sappiamo chi è. Gli diremo che la nostra amicizia vale molto di più di questo suo...» si interruppe per cercare le parole adatte. Guardò Peter, ma tutto ciò che ottenne fu una confusa scrollata di spalle. «Beh, di questo suo “piccolo problema peloso”, ecco. E io e Peter ci stavamo chiedendo se tu volessi o meno farlo con noi. Se tu fossi ancora nostro amico». La sua voce si era fatta d'un tratto sconfortata. «E mi dispiace, Sirius, mi dispiace davvero tanto... ma se ora scegli di voltare le spalle a Remus, io non credo di...». Si fermò ancora, si passò una mano fra i capelli e scosse agitato la testa. Sembrava preda della sofferenza. «Non posso essere anche amico tuo. Non quando so che sei disposto a mollarci tutti perché la situazione si fa più difficile. Non è così che si comporta un amico».
Sirius aveva tenuto il capo chino e i pugni stretti per tutto il tempo. Si era morso il labbro inferiore e aveva cercato di controllare il respiro, ma le sue spalle trepidavano e i suoi muscoli premevano per colpirlo, per fargli male, per spaccare la dannata espressione di accusa che James si era appiccicato sulla faccia. Si alzò dal banco, afferrò la propria borsa e rivolse al compagno una gelida occhiata di sfida.
«Non sono io quello che sta voltando le spalle al suo migliore amico, James».
Se ne andò di nuovo, determinato a non parlare oltre con nessuno dei due. Uscì dall'aula a passo svelto, si infilò nella calca di studenti che si affaccendavano nel corridoio e si infilò nel bagno.
«C'è qualcuno qua dentro?» domandò.
Fu estremamente felice di non ricevere alcuna risposta. Gettò a terra la borsa e si aggrappò con entrambe le mani a uno dei lavandini. Chiuse le palpebre con decisione non appena si accorse che gli occhi pungevano e le lacrime erano proprio lì, a un passo dallo scappare. Sirius detestava piangere – non lo aveva mai fatto spesso, ma ogni volta aveva fatto un male infernale. Ed era una cosa stupida e ridicola e debole, ma la voce di James non smetteva di echeggiare nella sua mente, e suonava sempre più forte, sempre più definitiva... “Non posso essere anche amico tuo”. Piangere quella volta fece più male di quanto non avesse mai fatto – forse l'inferno non era Grimmauld Place, pensò fra i singhiozzi. L'inferno era lì, era in quel momento... e la colpa era solo di Remus.
Trascorsero altri due giorni tremendi prima che Remus tornasse finalmente al dormitorio. Sirius non aveva fatto che ignorare ogni tentativo con il quale Peter aveva tentato di farlo ragionare. James si era chiuso in un silenzio altrettanto testardo, ma Sirius sapeva che le parole di Peter erano quelle di James – erano sempre quelle di James, Peter era solo il suo grassoccio e fastidioso pappagallo.
Non appena Remus aveva fatto la sua comparsa sulla soglia del dormitorio con il suo colorito pallido e l'aria affranta e depressa, Sirius aveva arrangiato una smorfia indispettita e si era defilato nella Guferia. Non voleva nemmeno assistere a loro patetico teatrino. Gli era sufficiente immaginarlo per farsi montare la collera. “Oh, povero Remus, non è colpa sua. Povero Remus, deve aver sofferto così tanto. Povero Remus, sempre solo, sempre abbandonato...”.
I trespoli di legno erano quasi tutti vuoti: la maggior parte dei gufi stava probabilmente cacciando qualche roditore lungo i confini della Foresta Proibita. Sirius si appoggiò con i gomiti sul davanzale di pietra e scrutò stizzito il cielo. Nonostante fossero passati due giorni dal plenilunio, ai suoi occhi la luna sembrava ancora piena. Se ne restò per parecchio tempo a fissare le stelle e a rimuginare su quanto la situazione fosse ingiusta.
Poi sentì stridere i cardini arrugginiti della porta e si voltò per apostrofare qualunque studente avesse avuto il malaugurato pensiero di mandare una lettera proprio in quel momento, proprio da quella torre, proprio mentre lui non vedeva l'ora di prendere a calci l'umanità intera.
Era Remus.
Sirius era convito di avere un sacco di cose da dirgli, ma mentre lo guardava entrare nella Guferia con passo timoroso come se temesse di venirne scacciato, scoprì di non avere nemmeno desiderio di vederlo. Le luci delle torce del corridoio illuminavano il suo viso cereo e tumefatto. Sul suo sopracciglio destro c'era un cerotto bianco e Sirius contò almeno sette nuovi graffi.
«Come sta tua madre?» proruppe con rude sarcasmo. «Mi auguro bene».
Remus abbassò gli occhi e spostò il peso da un piede all'altro con profondo disagio.
«James e Peter me l'hanno detto» mormorò piano. «Che sapete, intendo. Che lo sapevate da un bel po'...».
«Oh, davvero? Ti hanno dato una pacca sulle spalle anche da parte mia, spero».
L'altro ragazzo si ritrasse come se Sirius gli avesse appena lanciato addosso una pietra. Inspirò forte e richiuse la porta. Tutto ciò che ora poteva far luce fra di loro era il candido riverbero della luna – e Sirius ne colse l'ironia come un'ennesima presa in giro ai suoi danni.
«Volevo solo dirti che sto andando da Silente per...» iniziò Remus, ma la voce parve spezzarglisi in gola. «...perché ho intenzione di tornare a casa mia. E di restarci. Non c'è bisogno che tu dica niente...» aggiunse con urgenza. «In realtà, Sirius, preferirei non dicessi niente».
Sirius sbuffò.
«La verità fa paura, eh?».
«Fa solo un po' male» replicò l'altro con un sorriso doloroso. «Ma va bene, non importa, non sono certo venuto per... per accusarti. Va bene così, dico davvero, tu hai ragione e la colpa è solo mia. Non avrei dovuto mentirvi, non sarei dovuto venire a Hogwarts, non... non avrei dovuto dire e fare un sacco di altre cose... è giusto che io me ne vada».
Aveva parlato in un rapido soffio agitato. E Sirius, che odiava i pianti e le lacrime e si era preso a schiaffi solo due giorni prima per fermare i propri, aveva riconosciuto quelli di Remus. Era un pianto diverso, il suo. Quello di Sirius era stato uno scoppio feroce di nervi e testa, era stato rabbia e frustrazione. Remus era solo disperato. E forse fu la vista del compagno tanto debole e vulnerabile, forse fu la lieta consapevolezza di sapersi ancora una volta più forte e resistente di lui, ma Sirius sentì scemare ogni suo desiderio di vendicarsi. La rudezza e il sarcasmo lasciarono spazio a un atteggiamento ben più serio e controllato – ma ancora indignato, ancora deciso a non scendere ad alcun compromesso.
«Cosa ti hanno detto James e Peter?» domandò con improvvisa curiosità.
Remus tentò di arrangiare un sorriso educato, ma ciò che ottenne non fu né più né meno di una smorfia sconfitta.
«Ha importanza?».
«Sì».
«Potresti semplicemente chiederlo a loro».
«Lo sto chiedendo a te».
«A loro non interessa» mugugnò fra i denti Remus, distogliendo ancora una volta lo sguardo. «Non so perché. Ti prego, non chiedermi anche questo, io... non lo so».
«Non gli interessa che tu sia un mostro?».
Remus serrò gli occhi. Rimase in silenzio qualche istante, prima di bisbigliare flebile:
«Non ha importanza».
«Perché no?».
«Perché a te importa. Credo sia sufficiente».
Sirius lo fissò a lungo. Osservò il pallore spettrale della sua faccia, la linea rigida della sua bocca, gli occhi rossi e lucidi, l'espressione derelitta e vuota. Si sentì nuovamente preda della rabbia.
«Non cercare di farmi sentire in colpa, Remus. Non provarci nemmeno, non funzionerebbe. Non sono io, quello cattivo. Non sono quello a cui non importa niente della nostra amicizia, non sono quello che volta le spalle, non sono quello che ha finto per quasi due anni di essere una persona normale». Remus sussultò ancora, ma restò zitto, così Sirius aggiunse con più decisione: «Sei tu, quello sbagliato».
Forse fu il tono distaccato con cui lo disse, forse fu il fatto che il suo viso era privo di qualsiasi emozione, come se avesse cancellato tutto ciò che avevano condiviso da quando si erano conosciuti, ogni scherzo e ogni risata e ogni attimo che per lui avevano significato ogni cosa. Forse fu solo il fatto che lo disse sul serio a far esplodere anche Remus.
«Smettila» sibilò irritato. «Cos'altro vorresti sentirti dire? Vuoi che ti ripeta che mi dispiace? Ho mentito e mi dispiace, ma immagino che arrivati a questo punto non abbia davvero alcuna importanza. A te non importa sentirtelo dire e io non intendo sprecare parole al vento». Si bloccò per fare un respiro tremante e scosse sdegnato la testa. «Me ne vado e la storia finisce qui. Non posso sopportare oltre...».
«Devi sopportare quello che--».
«No!» strillò isterico l'altro. «No, non devo! Non posso! Ho già sopportato abbastanza e fa male, Sirius, mi fa male! Ho appena ascoltato due dei miei migliori amici raccontarmi che a loro non interessa ciò che sono, che non importa, che non fa niente, che andrà tutto bene, ma non è vero. Non c'è niente di vero perché niente andrà bene. Credi forse che non sappia riconoscere la paura quando la vedo? La conosco, la paura... la conosco da quando avevo quattro anni». Il suo incessante gridare stava scemando in un basso singhiozzo, i suoi occhi si facevano sempre più lucidi e arrossati mentre le lacrime iniziavano a scendere sulle sue guance magre. Remus se le asciugò con aria umiliata. «E mentre Peter parlava e balbettava e continuava a ripetere che era tutto a posto, lei era lì, nei suoi occhi, e mi guardava... guardava me, aveva paura di me. Era terrorizzato. E James...». Tirò in su con il naso e iniziò a muoversi avanti e indietro come un animale in gabbia. «Oh, James è un ragazzo straordinario, ma non può davvero credere che io l'abbia bevuta. Non può non aver paura di me, nemmeno lui, nemmeno il coraggioso James, non quando io per primo ho paura di me stesso e di quello che sono e di tutto quello che potrei fare... e fa male, Sirius, ma non quanto il modo in cui tu mi stai guardando» ripeté fra i denti. «Tu non hai paura di me. Provi solo disgusto. E questo fa ancora più male, e qualunque cosa orrenda tu possa dirmi non mi farà che stare peggio. Preferirei che gridassi, che scappassi, che mi prendessi a pugni...». Il pianto incessante rendeva ormai incomprensibili le sue parole, ma Sirius continuava a restare fermo, con le labbra appena dischiuse dalla sorpresa di quell'improvvisa disperazione mentre Remus non smetteva di piangere e di biascicare sempre più velocemente. «Ma non questo, Sirius... non il disgusto, ti prego».
Remus parve aver oltrepassato il limite. Affondò le dita nei capelli biondi e si lasciò scivolare sul pavimento sporco della Guferia sulle ginocchia, con il viso nascosto fra le mani. Non smetteva di tremare, di piagnucolare senza sosta, e più Sirius lo fissava struggersi ai suoi piedi, più si sentiva a disagio. “È un Lupo Mannaro” pensò. Eppure questa volta il pensiero era insicuro, debole, evanescente. “È Remus, Remus che piange, Remus che mi aiuta nei compiti di Storia della Magia e ora sta piangendo”. Sirius conosceva sicuramente meglio di James e Peter cosa fosse davvero un Lupo Mannaro. I suoi genitori erano sempre stati piuttosto eloquenti, a riguardo – e per quanto li disprezzasse, per quanto li odiasse, Sirius non poteva realmente scordare ciò che aveva visto e sentito. Davanti agli occhi gli balenavano decine di prime pagine della Gazzetta del Profeta che dichiaravano dove e quando e con quanta malvagità i Lupi Mannari avessero fatto a pezzi questa e quella rispettabile persona...
“Un'aggressione di una violenza inconcepibile” scrivevano talvolta. “Una furia cieca, selvaggia, bestiale”. Rivedeva il libro di Emerett Picardy che aveva sfogliato con curiosità insanabile, ricco di immagini di corpi straziati e dilaniati che non erano più corpi, che non avevano più un braccio, una gamba, un volto... senza l'aiuto delle didascalie non avrebbe mai capito che quegli uomini erano stati davvero uomini. “Queste Oscure Creature non meritano la vita” sosteneva l'emerito professore. Ma in quella Guferia c'era anche Remus che non smetteva di piangere e una parte di Sirius non riusciva ad accettare che stesse piangendo a causa sua.
Si avvicinò a lui, ancora incerto su come comportarsi. Gli si inginocchiò davanti e tese una mano, molto lentamente – come se ancora stentasse a credere a quanto stava facendo. Gliela appoggiò sulla spalla, strinse appena le dita attorno al tessuto della sua divisa di seconda mano.
«Per favore, Remus...» lo supplicò. «Smetti di piangere».
«N-non riesco... q-questa v-volta non riesco...».
Sirius chiuse gli occhi e respirò una, due, tre volte... respirò fino a sentire i polmoni premere nello sterno come se volessero schizzargli fuori dal torace. Respirò senza dire altro, con il pianto di Remus che gli perforava le orecchie, la testa e tutto ciò che stava lì attorno, e il calore del corpo dell'amico nel palmo della mano. “Amico” realizzò d'un tratto. Lo aveva pensato davvero. “Amico”. Ricordò i volti marmorei dei suoi genitori, l'espressione alienata di sua cugina Bellatrix, ognuna delle raccapriccianti storie lette sul giornale, su quel dannato libro di Picardy, e quelle ascoltate dalle voci terrorizzate del resto del mondo... ed ebbe paura.
Non di Remus. Non del Lupo Mannaro.
Per la prima volta fu terrorizzato dall'idea di essere esattamente come la sua famiglia, di non poter scappare, di essere condannato – e Remus aveva ragione: faceva malissimo.
«Mi dispiace» mormorò piano. «Non voglio che te ne vada. Non andartene».
Remus alzò il volto, incapace di parlare.
«Per favore...» lo implorò Sirius. «Resta con noi».
 






   
 
Leggi le 5 recensioni
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Libri > Harry Potter / Vai alla pagina dell'autore: Trick