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Autore: Love_in_London_night    02/02/2014    10 recensioni
Shannon per tutti questi anni ha avuto un segreto. Una donna che ha conosciuto per caso, davanti a una delle sue più grandi passioni: il caffè.
E, da schivo e taciturno quale è, nessuno ne sapeva nulla. Nemmeno quando dopo anni di relazione lei è rimasta incinta.
Poi tutto è precipitato.
Cosa gli è rimasto? Come reagirà a tutto quello?
Non è pronto per il passo più difficile da fare – ovvero dirle addio – eppure è costretto.
Inoltre c’è Daphne, l’artefice e la vittima della situazione.
Perché i segreti di Shannon sono venuti allo scoperto?
E perché il mondo esterno deve infierire su di lui e la sua vita privata?
Mia gli mancava, ed era l’unica cosa che non poteva essere cambiata.
C’era solo una cosa da fare, una parola da dire.
… Goodbye.
Dal testo: “Le aveva voluto bene sottovoce, troppo geloso della propria intimità per condividerla con gli altri data la vita da pazzi che conduceva, ma per lei provava un sentimento sincero e totalizzante. L’aveva amata all’ombra del suo successo, al centro del suo mondo; quell’universo composto da piccoli gesti e quotidianità dove raramente qualcuno sarebbe potuto entrare, a parte gli affetti più veri.”
Genere: Introspettivo, Malinconico, Sentimentale | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Shannon Leto
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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A chi sopporta i miei scleri di continuo riguardo queste idee e questi soggetti.
Soprattutto a chi mi spinge a metterli per iscritto e non lasciarli in un angolo della mente a fare la muffa.


Vuoto.
Era davanti allo specchio per sistemarsi la cravatta, ma non vedeva il proprio riflesso, non vedeva niente.
Aveva perso l’attenzione verso il mondo che lo circondava esattamente come non gli importava nulla di ciò che lo riguardava.
A Los Angeles era una bella giornata di sole, ma per Shannon non c’era nulla di bello.
Jared gli spuntò dalle spalle con il suo solito fare silenzioso.
«Stai bene» sussurrò il fratello mentre gli sistemava al meglio il nodo della cravatta, quasi a voler imitare la carezza che loro madre era solita dar loro fin da piccoli nelle occasioni peggiori, ma anche quel misero tentativo falliva davanti al suo dolore.
Era semplicemente troppo grande.
Troppo per essere ignorato o lenito da delle semplici parole; c’erano dei vuoti così grandi che non sarebbero stati riempiti nemmeno da tutto l’amore del mondo.
Lo stesso amore che aveva conosciuto e che non aveva più.
Inoltre, lui non stava affatto bene.
Alzò un angolo della bocca in quel sorriso amaro che negli ultimi tre giorni non l’aveva abbandonato.
«Scusa, io non volevo dire quello…» Jared in imbarazzo. Fosse stata un’occasione normale l’avrebbe preso in giro a vita.
Vita, che significato poteva assumere in quel giorno la vita di Shannon? Nonostante fosse ancora in piedi e il suo cuore continuasse a battere, si sentiva morto.
«Dov’è Daphne?» un altro sussurro intriso di dolore e timore di dire la cosa sbagliata, come se il suo, di dolore, non fosse stato abbastanza.
Come se quella morsa che non gli permetteva di respirare a dovere non fosse lì in agguato da giorni. Come se niente in quel tempo fosse cambiato. Come se il sentirsi vuoto e rotto non si stesse ripercuotendo sul suo viso così come sul cuore. Come se gli importasse qualcosa di Daphne, dato che era tutta colpa sua.
«Penso con Kayla, anche se non lo so con certezza e non mi interessa». Fu la risposta secca del batterista. La voce asciutta di chi conviveva da troppo con un nodo alla gola e aveva consumato tutte le proprie lacrime.
«Shannon…» provò a intervenire il minore.
«No, Jared. Shannon un cazzo. Non voglio sentire altro. Non oggi. Non riguardo a Daphne». Si sistemò stizzito il collo della camicia, inforcò gli occhiali da sole scuri e diede le spalle allo specchio, quel riflesso così inanimato di se stesso lo infastidiva. «Andiamo, è ora».
Non aggiunse nient’altro dopo il rude invito rivolto a Jared, non lo avrebbe fatto per giorni.
Settimane.
Mesi.
Ma era troppo presto per guardare così lontano. Era ancora là, in mezzo a quel prato cosparso da pietre semplici e levigate, Constance alla sua destra e Jared a sinistra. Tutti e tre in piedi e con le facce contrite, gli occhi bassi sulla bara in legno scuro e, in lontananza, i paparazzi che scattavano foto.
Il segreto era venuto allo scoperto nel modo peggiore, e nonostante tutto non avevano il coraggio di lasciare che dessero l’addio che una persona amata meritava?
Non avevano il minimo rispetto per il dolore dei vivi e per la dipartita di chi non c’era più.
Morta, Shannon, si diceva morta. Ma lui non riusciva ancora a metabolizzarlo quel pensiero, non senza provare odio e sentire un nodo alla gola tale da soffocarlo. E davanti ai paparazzi aveva saputo soltanto digrignare i denti, solo al tocco della mano della madre era tornato alla funzione, perdendosi nei ricordi.
La giornata in cui si sedette in quel bar, all’ombra di un grande telo avorio, era bella come quella del funerale di Mia.
Lui era uscito per prendersi la sua razione di caffè amaro e bello forte come era solito berlo. Si era seduto ai tavolini esterni per concedersi qualche sigaretta. Era circa la fine del duemilaotto e ai tempi fumava ancora.
Dio, in quel momento, al solo ricordo, avrebbe pagato oro per una sigaretta, anche se Mia non sarebbe stata affatto d’accordo. Ma Mia non c’era più ed era lì proprio per ricordarselo.
Era seduto da solo al tavolino, mentre Mia era accomodata vicino a lui con un tizio. Un ragazzo insulso che, privo di tatto alcuno, stava cercando di portarsela a letto senza prestare attenzione alla donna che aveva di fronte.
Di sicuro non aveva notato la fossetta che si formava accanto alle labbra in quel sorriso che – oltretutto – non era rivolto a lui. Non poteva aver fatto caso al ciuffo di capelli che era sfuggito al cerchietto a pois, e nemmeno quanto il suo ridere fosse così caldo e contagioso.
Shannon invece aveva adorato l’inflessione del sud con cui arrotondava e allungava tutte le lettere, si era soffermato sui denti che morsicavano le labbra e sulle unghie che tamburellavano sul tavolo. Il tizio la lasciò sola per andare in bagno, con grande gioia del batterista.
Prima la guardò, poi sorrise spavaldo con gli occhi sulla propria tazza di carta.
«Cosa c’è?» fu la domanda irritata di lei, conscia di quello sguardo così maledettamente insistente e lascivo. Adorava essere fissata in quel modo, ma non gliel’avrebbe detto, non subito almeno. Era pur sempre uno sconosciuto, anche se di fama mondiale.
«Penso che quel tipo sia una perdita di tempo per una come te». Non distolse le lenti scure dal bicchiere di caffè, anche se in realtà gli occhiali da sole coprivano l’avidità del suo sguardo, un tipo come lui di solito non si faceva certo scrupoli a mostrare il proprio interesse, ma c’era qualcosa di così ingenuo e puro in quella ragazza che lo costrinse ad andarci piano, d’altronde era stato proprio l’atteggiamento sbruffone del ragazzo di fronte a lei a infastidirlo tanto.
«Ah sì? E come fai a dirlo?» un sopracciglio alzato, le braccia al petto mentre – con delicatezza – si appoggiava allo schienale in ferro della sedia, sempre con un sorriso divertito sul volto. Chi era lei per non flirtare con un uomo così bello?
«Perché ho ascoltato la vostra scarna conversazione». Al contrario suo, pensò. Alzò un solo angolo della bocca per sottolineare la propria accurata diagnosi. Lo sconosciuto era un egocentrico a cui non interessava nulla di quella ragazza, non di certo come fregava a Shannon. L’aveva ascoltata mentre, con fervore, descriveva il proprio lavoro di traduttrice di libri, aveva sentito quando si era lamentata degli uomini che sembrava dovessero morire per qualche linea di frebbre, ed era riuscito a sorridere, riconoscendosi un po’.
«E quindi cosa hai capito?!» a questo punto era curiosa di conoscere fino a che punto Shannon Leto l’avesse osservata e studiata.
«Che meriti un uomo migliore»
«Del tipo?» Mia si concesse di sbattere gli occhi più volte, sconvolta da tanta franchezza.
Shannon si tolse gli occhiali da sole, rivelando due occhi troppo sicuri in cui lei riuscì a leggere fin troppe cose. Infine si piegò sul tavolino per avvicinarsi alla ragazza e non dover urlare la propria risposta.
«Tipo me».
Dopotutto non era così bravo ad andarci piano.
Vide lo sguardo di lei correre verso l’interno del locale per cercare di capire quanto tempo le rimaneva prima di decidere cosa fare della propria vita, se dargli ragione o meno.
Solo quando gli chiese di riportarla a casa lui sorrise più rilassato. Era stato dunque felice di essere uscito in moto, gli avrebbe permesso di sentire le braccia di Mia – così aveva detto di chiamarsi – attorno a sé senza dover per forza provarci o passare per un depravato.
Lei aveva scritto un bigliettino a Luke, il tizio che stava abbandonando al bar, in cui gli diceva che quel caffè lui glielo doveva, dato il tempo che le aveva fatto sprecare in quella caffetteria. Eppure non tutto il male veniva per nuocere, e quel viaggio di ritorno in cui aveva percepito le gambe nude della ragazza a contatto con i propri jeans ne erano la prova.
Si ricordava ancora come la gonna di Mia si gonfiava e si alzava mentre correvano verso Venice, distraendolo non poco, e nonostante qui piccoli dettagli non riusciva a ricordarsi – invece – come tutto ebbe inizio.
Forse da quando, scesa dalla moto, lei gli aveva scansato i capelli dagli occhi, oppure da quando Shannon passò a trovarla sotto casa quasi ogni giorno, presentandosi sempre con una scusa meno convincente della precedente.
Ed erano passati da brevi e assurde visite, a caffè o cene conditi da lunghe chiacchiere. C’era voluto tempo a entrambi per aprirsi, non erano inclini a lasciar entrare dentro di loro sconosciuti che, armati di fin troppa sicurezza, offrivano passaggi e li accettavano pure.
Erano anime delicate nascoste da caratteri forti, avevano capito che per parlare ci voleva poco, ma per comunicare servivano tempo, intimità a fiducia, concetti che loro avevano costruito all’ombra di una candela poggiata sul tavolo di un piccolo ristorante per nulla lussuoso, piuttosto che sulla ruota panoramica del luna park situato lungo il molo.
Ricordava la prima volta in cui avevano fatto l’amore, ma non quando aveva iniziato davvero ad amarla, perché Shannon era convinto che fosse dovuta andare così fin dall’inizio: se no non avrebbe avuto senso portarla via da Luke.
E riusciva a riassaporare la sensazione di abbandonarsi in un’altra persona, a ogni sua cura. A come Mia fosse riuscita a fargli apprezzare lo stare stesi in mezzo agli alti fili di erba secca, a come la sua mancanza risultasse fondamentale per cercare la sua presenza.
Mia era più estroversa, Shannon più taciturno. I dialoghi che riempivano i loro momenti erano dominati dalla ragazza, anche se con il tempo il batterista aveva imparato a pareggiare i conti, senza però esporsi come faceva lei.
Lui era quello con i piedi per terra, lei quella con la testa tra le nuvole.
Un rapporto costruito tra equilibrio e follia che funzionava splendidamente, che riusciva a coinvolgerli senza sopraffarli.
Le aveva voluto bene sottovoce, troppo geloso della propria intimità per condividerla con gli altri data la vita da pazzi che conduceva, ma per lei provava un sentimento sincero e totalizzante. L’aveva amata all’ombra del suo successo, al centro del suo mondo; quell’universo composto da piccoli gesti e quotidianità dove raramente qualcuno sarebbe potuto entrare, a parte gli affetti più veri.
Shannon rimembrava il rumore ovattato di ogni piccolo passo avanti affrontato con lei nella vita: il dividere una casa, il voler tenere quella storia per sé, perché c’erano cose così importanti che si volevano condividere solo con le persone che si amavano, specialmente se si era schivi come lui.
Poi era successo: nei primi mesi del duemilatredici Mia aveva aspettato che tornasse a casa da qualche incontro con Jared e Tomo, poco prima della partenza del tour, e gli aveva detto che la loro casa avrebbe accolto un cuore in più per l’inizio dell’anno nuovo.
E, nonostante non si fosse mai visto padre, aveva pianto di gioia. Mia era riuscita a fargli credere in un mondo diverso da quello a cui era abituato, lei gli aveva mostrato una vita migliore, piena. Le sfumature colorate che mai aveva provato nei suoi infiniti grigi che avevano caratterizzato il passato così burrascoso.
Non era stato presente durante la gravidanza, occupato com’era con il tour, ma seguiva Mia in ogni suo passo, il cellulare come prolungamento naturale della propria mano. Skype era diventato il luogo per i loro lunghi incontri, resoconti delle visite e dei miglioramenti della gestazione. Di mese in mese la pancia lievitava e le guance si scarnificavano, e lui se n’era accorto.
Shannon aveva voluto sapere cosa c’era dietro, e Mia aveva detto che non era una gravidanza facile, così le aveva detto il dottore, prescrivendole il riposo più assoluto.
Ad agosto si era così precipitato a casa, e se avesse dovuto l’avrebbe legata al letto: il piacere personale era venuto meno, voleva preservare il bene delle proprie donne.
Perché ad accoglierlo c’era stata una notizia: quel piccolo girino era una femminuccia.
Gli ultimi mesi di gravidanza si erano divisi tra le date mondiali e la scelta del nome, la stanchezza e la felicità. L’eccitazione e l’ansia per l’ignoto che li circondava.
La scadenza era fissata per metà gennaio, a qualche settimana dalla ripresa del tour.
La sua principessa però, da donna che già sapeva il fatto suo, aveva sorpreso tutti.
Era arrivata in anticipo, prendendo di sicuro dalla regina che l’aveva cresciuta nove mesi dentro di sé.
Nonostante fosse stata messa nell’incubatrice, Daphne era perfetta nel suo essere piccina.
Il regno di Shannon poteva dirsi completo.
Il tutto, però, era crollato in poche ore.
Non credeva di dover fare i conti con il destino: pensava di aver già pagato il proprio debito con un passato che era stato tutto, fuorché tranquillo, e l’aver incontrato Mia così tardi. Era convinto di meritarsela la felicità dopo quello che in quarant’anni gli era successo, non era preparato al fatto che di lì a poco gli venisse porto il conto, un debito troppo alto pure per uno come lui, abituato al peggio.
Delle complicazioni inaspettate durante il parto, un attacco cardiaco postumo avevano messo fine a Mia.
Shannon l’aveva vista spegnersi sotto i suoi occhi. Ricordava le lacrime di lei: la paura e al contempo la gioia di aver messo al mondo Daphne, la tristezza per non avergli detto che sapeva a cosa andava incontro portando avanti la gravidanza, il conseguente modulo sulla non rianimazione firmato all’insaputa di Shannon.
L’uomo che aveva amato, l’uomo che amava al punto da volere a tutti i costi la loro bambina, la piccola Daphne che, era sicura, avrebbe amato più di se stesso. Gli ricordò un’ultima volta quanto lo amava, che li avrebbe tenuti con sé per sempre e, con le lacrime e le labbra di Shannon sulla propria guancia, chiuse gli occhi per non riaprirli più.
La funzione si concluse nel silenzio generale, tranne che nella testa del batterista. I ricordi pulsavano come erano solite fare le bacchette sui piatti e la grancassa, in quel rumore che percepiva dentro di sé e che piano lo stava annullando.
Com’era possibile passare, in un paio d’ore, dall’avere una famiglia a cui dichiarare amore eterno, al seppellire poi la persona che aveva creato tutto quello?
Non era riuscito nemmeno a stringere la figlia tra le braccia, e quella era diventata un nemico. L’estranea da cui difendersi e non la vita da proteggere con la propria.
Odiava un esserino che nemmeno aveva facoltà di parola e non si sentiva nemmeno in colpa.
Daphne l’aveva trasformato in un mostro.
«Forza, torniamo a casa». Constance l’aveva guidato lungo le altre lapidi dopo la cerimonia, l’ultimo saluto con un mazzo di margherite depositato sulla vernice che lo separava per sempre da Mia. Il gesto più freddo e più faticoso della sua intera esistenza.
Seguì la sua famiglia e, senza dare risposta alle frasi dei paparazzi, si chiuse in auto per lasciarsi cadere sul sedile posteriore, il corpo privo di sensi come quello della donna che amava.
 
Avevano ripreso il tour, nonostante Jared e Tomo non fossero convinti.
Ne avevano parlato a lungo seduti attorno al tavolo del loro Lab, e Shannon li aveva pregati di continuare: non solo per i fan, ma per lui. La musica l’aveva salvato una volta, poteva farlo di nuovo.
Solo quando suonava arrivava a sfogarsi, picchiando sui piatti riusciva a liberare il dolore e la rabbia che nel corso della giornata lo attanagliavano, era soltanto durante i live e le varie prove che riusciva a distrarsi, perché non pensava ad altro che alla musica e al ritmo. A tutto quello che amava oltre Mia.
Gli altri due sapevano quanto fosse vero, ma per loro il problema era un altro: Daphne.
Ormai, sotto l’occhio del ciclone mediatico, era una questione da prendere in considerazione.
I giornali volevano sapere cosa sarebbe successo ora al gruppo con l’arrivo di questa bambina.
Jared, il più coinvolto oltre al fratello, non voleva che fosse lasciata a sua madre, non era giusto che la nipote crescesse senza l’unico genitore in vita, senza contare che non era corretto pensare che se ne occupasse Constance, togliendo così la patata bollente dalle mani di Shannon, che si ostinava a non voler vedere la realtà dei fatti: aveva una figlia e doveva prendersene cura.
Peccato che il maggiore non fosse d’accordo: una volta uscita dall’ospedale non l’aveva mai toccata, nemmeno per sbaglio. Aveva cercato una soluzione sbrigativa alla faccenda, ma ormai l’aveva riconosciuta, dato che era stata la prima cosa fatta dopo il parto, quindi non era facile sbarazzarsene per darla in affidamento.
Aveva dunque optato per prendere una tata che fosse anche disposta a viaggiare e a occuparsi totalmente della bambina, in modo da non farlo lui.
Il suo era un rifiuto totale verso la figlia. Jared sapeva che non l’aveva mai toccata, nemmeno con lo sguardo, era troppo uguale a Mia: gli occhi vispi sempre alla ricerca di qualche stimolo da imprimere nella mente, il naso dritto e le labbra grandi come quelle di entrambi i genitori.
Alla fine avevano ceduto e, per far tacere il gossip, avevano deciso di caricare la tata e la bambina sul bus che li avrebbe condotti per mezza Europa. Non una scelta poi così sensata, ma Jared non aveva il cuore di abbandonare la nipote come aveva fatto il padre, inoltre sperava che un giorno la situazione potesse cambiare.
 
Era arrivato inizio marzo e stavano raggiungendo il nord Europa.
Il silenzio di Shannon andava di pari passo con il suo rifiuto verso la figlia. Daphne aveva da poco compiuto i due mesi di vita, era diventata la mascotte del tour e tutti la adoravano, tutti tranne il padre.
Durante le interviste Shannon sedeva passivo al proprio posto senza aprire bocca, nemmeno davanti alle domande insistenti e dirette degli intervistatori.
«Abbiamo saputo che tua figlia è con te, devi essere davvero legato a lei se non riesci a separartene, è una bella cosa. Com’è affrontare il tour con una neonata?»
«Le hai dedicato qualche canzone?»
«Si addormenta sentendovi suonare o le dà ancora più carica?»
Jared, indispettito da quell’atteggiamento così indisponente e negativo, aveva ormai preso in mano la situazione rispondendo per il fratello.
«Oh, lui è così innamorato della figlia da non sapere mai cosa dire».
«Lei è la nostra Echelon numero uno, spero solo che gli altri non si offendano anche se ci seguono da più tempo»
«Le cantiamo un sacco di canzoni per farla dormire. Da grande sarà più brava di noi». Ripeteva ogni volta.
Non era divertente, non lo era per nulla, ma era sempre meglio del mutismo carico d’odio che Shannon permetteva gli aleggiasse intorno, scatenando la curiosità dei più cinici.
Sapeva che non era una situazione facile, ma conosceva bene quel mondo: prima davi loro quello che volevano, prima ti avrebbero lasciato in pace. Continuare a creare mistero con il suo ostentato silenzio l’avrebbe portato al logoramento, e Shannon lo sapeva. Peccato non gliene importasse nulla.
«Quella bambina è la scusa ideale per farle testare i miei fantastici passati, ma non vi preoccupate: prima o poi ci passerano anche loro due» disse Tomo all’intervistatrice indicando i propri amici.
Jared stette al gioco, mentre Shannon aveva usato ancora una volta i propri occhiali da sole come scudo per tenere fuori il mondo. Gioco difficile da fare quando eri una star mondiale che viveva sotto i riflettori della ribalta.
Ma il fratello minore sapeva che dietro le lenti scure si celavano due occhi che ancora non erano riusciti a liberarsi del dolore della perdita di Mia, perché sapeva che Shannon ancora non aveva pianto, non volendo accettare il lutto che l’aveva colto.
 
«Sei la nipote più bella che ho». Stavano arrivando in Russia, il tour bus era in perfetto orario e Jared sorrideva beato alla donna che, da una culla, l’aveva fatto innamorare con il proprio sorriso sdentato.
«Per forza, è l’unica» rispose Shannon concentrato sul videogioco che gli faceva compagnia durante i lunghi viaggi. Almeno i rumori degli spari coprivano i pianti di Daphne.
E riusciva a pensare al suo nome senza sentire le mani tremare, era un gran passo avanti.
«Come è l’unica tua figlia, eppure non mi sembra che venga trattata come tale». Non si divertiva a rimproverare il fratello, ma era impossibile non voler bene a quella piccola paffutella tutta rosa.
«Vieni dallo zio» disse Jared rivolto alla bambina mentre la sollevava per prenderla in braccio. La fissava con amore incondizionato, gli occhi azzurri colmi di gioia. Daphne gorgogliava contenta, muoveva le gambine e agitava le braccia in aria nel tentativo di accarezzare la faccia dello zio.
Tra di loro si era formato un tacito accordo: si adoravano e stavano insieme ogni volta che potevano. Daphne avrebbe amato il proprio zio in modo incondizionato, e Jared l’avrebbe protetta a curata finché non l’avesse fatto Shannon, perché prima o poi l’avrebbe messo davanti alle proprie responsabilità.
«Una figlia che non era programmata. La stessa figlia che ha ucciso la madre». Aveva serrato la mascella, come a voler chiudere quel discorso scomodo. Non aveva più parlato della morte di Mia, in realtà non l’aveva mai fatto e non affrontava il discorso volentieri, men che meno quello della sua paternità e degli obblighi verso la figlia.
«Una bambina che è rimasta senza madre Shannon, una bambina che non la conoscerà mai e che non avrà la fortuna di essere cresciuta dalla donna che ha dato la vita per metterla al mondo». Non poteva credere che suo fratello fosse così meschino, non dopo quello che loro stessi avevano affrontato da piccoli.
Si strinse Daphne al petto, cullandola un po’ per calmarla, le urla l’avevano innervosita ed era in procinto di piangere con tutta la voce che aveva in corpo. Raggiungeva grida degne dello zio, pensò Jared, di certo la voce l’aveva ereditata da loro; anche perché ricordava quanto fosse stonata Mia.
«Non sono stato io a volere che le cose andassero così».
Jared si era alzato e Daphne, in braccio a lui, lo fissava stranita: «Ma dove ce l’hai il cuore Shannon? È l’unica cosa che ti è rimasta, inoltre sei stato il primo a crescere senza padre».
Shannon mise in pausa il videogioco, posò il joystick e si girò per fronteggiare il fratello, stufo delle accuse gratuite che era così bravo a rifilargli. Ok, non era mai stato lui quello perfetto, quello così talentuoso da essere attore, regista, designer e polistrumentista. Ma in quel caso non era Jared ad aver perso la donna che amava e con cui pensava di dividere la sua intera esistenza, non era lui a provare un dolore così grande che non permetteva di respirare a dovere, figurarsi a vivere in modo decente. Non era ancora lui a non riuscire a sanguinare da quella ferita mortale che sentiva nel petto, quello squarcio che al posto di rimarginarsi, giorno dopo giorno si ingrandiva, trascinando dentro di sé un piccolo pezzo di Shannon ogni volta.
Non poteva giudicare, non doveva permettersi.
«Il mio cuore è seppellito tre metri sotto terra a Los Angeles, ecco dov’è. E se ti chiedi perché è lì, beh, la risposta te la ritrovi tra le braccia». L’indice dritto puntato verso il petto del fratello, dove Daphne guardava il padre additarla come se fosse stata colpevole, l’assassina che lui pensava fosse.
«Io stringo l’unica cosa che ti sia rimasta di Mia, ed è ben diverso». Jared continuava ad accarezzarle la testa, il proprio petto che si gonfiava di rabbia e il pianto isterico della piccola alle porte, influenzato dalla percezione della tempesta che si stava scatenando nello zio.
«Di Mia m’è rimasto solo il ricordo, nulla più».
La voce rotta di chi dentro aveva demoni da affrontare più grandi di quelli che vedeva con i propri occhi; il dolore graffiante che, fermo in gola, faceva capire quanto il fantasma del passato offuscasse la vista della realtà.
«Principessa, vieni con lo zio Tomo. Mi sa che hai bisogno di essere cambiata». Era salito al piano di sopra del bus dopo aver sentito i toni scaldarsi e, con una scusa, aveva deciso di portare via la piccola da lì. In fondo gli piaceva occuparsi di lei, non erano affatto male con i bambini.
Una volta al sicuro dalle tensioni famigliari, Tomo si prese la briga di calmare Daphne con dei piccoli baci sulle guance piene e rosee, poi si fece una foto con un’espressione buffa mentre la piccola lo fissava curiosa e decise di inviarla alla moglie.
Quando torno ne facciamo uno nostro, cosa ne dici?
Infine la posò sul fasciatoio, sistemato prima della culla e delle loro cuccette. Lo spazio a disposizione era poco e il casino che loro tre creavano era ai limiti dell’umano, ma gli piaceva avere Daphne tra loro, nonostante Shannon non riuscisse ad accettarla era per tutti una ventata d’aria fresca che sconvolgeva ogni giornata rendendola diversa. Era stato questo aspetto a fargli pensare che forse anche per lui e Vicki era giunto il momento di allargare la famiglia a cuccioli bipedi e non solo quadrupedi.
Tese l’orecchio verso il piano superiore del bus ma non giunse nessun rumore sospetto. Decise così di abbassare la guardia e concentrarsi sul pannolino da cambiare: la sfida era stata accettata.
Jared, di sopra, cercava di aprire gli occhi al fratello.
Si avvicinò lento, in modo da dargli il tempo di assimilare la cosa. Gli mise una mano sulla spalla poi, senza preavviso, decise di abbracciarlo.
«Smettila di farti del male in questo modo».
Solo dopo qualche attimo Shannon rilassò i muscoli e rispose al gesto del fratello, abbandonandosi tra le sue braccia, esausto.
«Non so smettere»
«Datti tempo»
«È come se non l’avessi più». Rispose smarrito il batterista.
 
«Kayla, vai tranquilla, per stasera dormirai sull’altro bus, un po’ di riposo non guasta nemmeno a te». Jared le sorrise affabile mentre la vide sospirare di sollievo e accettare di buon grado quella strana decisione, dato che era stata assunta per badare alla piccola.
Non chiese nemmeno conferma per la paura di vedere la speranza di un buon riposo infranta su una sillaba diversa da quella che si aspettava. Prese le proprie cose per la notte e alla prima tappa utile dove avrebbero potuto sgranchirsi le gambe sarebbe salita sull’altro bus.
«Mofo, tieni, stanotte ne avremo bisogno». Sorrise stanco mentre gli porgeva dei tappi per le orecchie.
«Jared? I tappi, la baby sitter che se ne va. Cosa stai combinando?»
«Non urlare!» lo ammonì il cantante indicando il piano superiore da dove provenivano i rumori del solito videogioco. «Shannon non sa nulla. Diciamo che ricorro a metodi estremi per aiutare mio fratello e, di conseguenza, tutti noi».
Davanti all’urgenza sapeva che Shannon avrebbe ceduto o, perlomeno, lo sperava con tutto il cuore.
Il concerto in Russia si sarebbe tenuto il giorno successivo, così avrebbero sfruttato quella sera libera per riposarsi un po’ a bordo del bus, giusto per recuperare un po’ di energie.
«Dov’è Kayla?» chiese Shannon scendendo da basso per una veloce tappa in bagno.
Jared alzò le spalle, fingendo indifferenza. «Non stava bene, è salita sull’altro bus per farci riposare e non contagiarci».
Lo aggiunse schifato, il fratello sapeva bene quanto fosse terrorizzato dai germi.
Annuì indifferente e, dopo aver espletato i propri bisogni, si diresse verso la piccola dispensa della cucina per accaparrarsi un pacchetto di patatine.
Cercarono di mantenere un clima disteso per l’intera serata. Tomo e Jared si prendevano cura di Daphne nel tentativo di tenerla buona per far sì che Shannon si accorgesse il meno possibile della sua presenza. Jared era ben intenzionato a fare in modo che il fratello si rilassasse.
«Buonanotte principessa» disse dopo averle dato un ruvido bacio sulla guancia, poi la posò nella piccola culla.
Dopo qualche ora anche loro, ormai stufi di aggirarsi per quel piccolo spazio senza sapere cosa fare, decisero di andare a dormire. Tomo fissò Jared e, dopo aver augurato a tutti la buonanotte, si mise i tappi nelle orecchie e il cantante lo seguì a ruota.
Fu nel cuore della notte che, per la prima volta, Shannon si svegliò di soprassalto.
Le urla incessanti di Daphne l’avevano messo in allarme, facendolo scattare subito. Era convinto che ci fosse qualcuno sul bus e che le stessero facendo del male. Erano forse tutti in pericolo?
Si guardò intorno e vide Jared e Tomo che dormivano profondamente, in giro per il bus non si vedeva nessuno, tranne l’autista alla guida. Tutto, dunque, era sotto controllo.
Circa.
Perché c’era quella piccola cosa, che tutti vedevano come sua figlia, che urlava come se non ci fosse un domani. Che non stesse bene? Che avesse bisogno di un cambio? Era la fame o era stato un brutto sogno?
Non sapeva se sperare che gli altri si svegliassero, così che se la fossero sbrigata loro, oppure lasciarli dormire, dato che almeno loro avevano trovato riposo e pace. Ma quella opzione implicava il suo coinvolgimento nel far cessare il pianto, un’operazione impensabile.
Dopo aver constatato che gli altri due non avevano la minima intenzione di svegliarsi, si alzò rassegnato dalla propria cuccetta.
Jared e Tomo, percepito il suo spostamento, si guardarono e si strizzarono l’occhio a vicenda, per poi tornare a dormire.
«Su, zitta» le disse con titubanza dall’alto della culla. Per tutta risposta la bambina, spaventata dalla figura scura che sovrastava il proprio lettino, urlò con più forza.
Era esattamente come i suoi genitori: più le dicevano di fare una cosa, più metteva impegno nel fare l’esatto contrario.
Era irritato, arrabbiato e, soprattutto, nel panico più totale.
Sapeva cosa doveva fare, e il solo pensiero gli aveva fatto salire il cuore in gola, bloccato però dal nodo di tristezza che vi si era annidato mesi prima. Nemmeno la sua batteria rimbombava così sotto i suoi stessi colpi.
Non aveva mai toccato quella bambina, l’origine di ogni male nella sua vita, eppure in quel momento non aveva molte altre scelte.
«Sssssshhhhh» provò, perché il solo chiamarla per nome lo faceva sentire a disagio, sapeva che avrebbe creato un legame, seppur debole, che difficilmente poi si sarebbe spezzato.
Prendila, portala via.
La coscienza voleva avere la meglio, e Shannon sapeva che Jared e Tomo non meritavano che il loro sonno venisse interrotto ancora dal pianto della piccola.
Senza pensarci davvero la sollevò tenendola tra le braccia in modo goffo e corse, facendo attenzione a dove metteva i piedi, su per le scale del bus. Di sicuro nella sala relax avrebbe trovato il silenzio e lo spazio necessari alle proprie esigenze, qualunque esse fossero.
Arrivato in cima accese una lucetta flebile e solo allora si accorse che il danno era fatto.
Aveva tra le braccia una bambina, un piccolissimo essere umano che stava piangendo come un disperato, e in quello si sentiva uguale a lei. Era la prima volta che prendeva in braccio sua figlia, e il pensiero lo tramortì. Nonostante pesasse a malapena cinque chili, sentiva tutto il peso di quell’azione.
Era fragile Daphne, l’aveva percepito accomodandola contro il proprio petto con indecisione, aveva quasi paura di scalfirla con le proprie mani callose. Era delicata e pronta a rompersi da un momento all’altro. Capì in quel momento che non era in grado di uccidere nessuno, men che meno Mia.
Il cuore batteva furioso, quella doveva essere la sensazione che avrebbe dovuto provare in ospedale, accanto alla madre della figlia, ma non ne aveva mai avuto l’occasione. Era così che sarebbe dovuto essere il primo contatto con la piccola, delicato e talmente potente da distruggerlo e sopraffarlo.
La allontanò dal proprio busto con fare incerto, cercando di guardarla negli occhi per convincerla a smettere di piangere, come se il solo contatto visivo potesse persuaderla.
«Ti prego, smettila». La invitò più gentilmente, la voce spezzata in un sussurro.
Aveva gli occhi scuri, quella bambina. Gli stessi occhi di Mia.
La riavvicinò al petto per ninnarla, nel tentativo di placare il pianto.
Portò la testa della bimba accanto al collo, lì dove poteva sentire il proprio battito del cuore, quel cuore che le stava dicendo che non ce l’aveva con lei, che aveva sempre e solo dovuto trovare un colpevole per quell’ingiustizia che, si era reso conto ora, aveva colpito Daphne tanto quanto lui.
Il ritmo emozionato e distrutto sembrava la stesse calmando di momento in momento, e solo allora Shannon si concesse di inspirare l’odore della piccola, scoprire chi era ed entrare in contatto con sua figlia.
«Ti prego, non piangere» le mormorò prima di permettere al suo profumo di infilarsi nelle proprie narici.
Sapeva di bucato, di bagnoschiuma delicato e di latte. Era un odore innocente e puro. Odorava d’amore.
E a lui ricordava maledettamente Mia, tanto che poi quel profumo gli tolse il respiro.
La stava pregando di non piangere, ma si ritrovò a farlo lui per la prima volta.
Stava lasciando andare Mia, stava finalmente metabolizzando che non sarebbe tornata e incolpare una bambina che nemmeno sapeva difendersi non l’avrebbe riportata da lui.
La strinse a sé, appoggiando gli occhi bagnati e il naso vicino al suo piccolo collo.
Tra un singhiozzo e un rantolo roco, le spalle che si alzavano per le convulsioni e l’abbraccio più sincero e protettivo che potesse rivolgere a Daphne, pensò a quanto Jared avesse ragione, aveva capito che nella piccola c’era tutto ciò che poteva esserci di Mia e Shannon, insieme, e poteva intuire il perché Mia l’avesse voluta a tutti i costi.
L’aveva pregata di non piangere, ma a cedere era proprio lui che traeva quella poca forza dallo scricciolo che reggeva a sé con le mani ruvide e insicure.
I singhiozzi del padre richiamarono quelli della bambina, spaventata dal cambio d’umore della persona cui era stata affidata. Due braccia sconosciute ma che lei aveva già imparato a riconoscere, perché in quella stretta insicura e goffa aveva percepito un calore famigliare, l’amore che aveva ricevuto da una madre e un padre fino a due mesi prima.
«Daphne, ora calmati, ci sono io qui». Fece fatica a concludere la frase intervallata dai singhiozzi, e nonostante si sentisse uno schifo poteva dire di sentirsi un po’ meglio.
Aver trovato un sorta di equilibrio – seppur precario – con Daphne, l’aver instaurato un legame con lei gli aveva fatto fare pace con se stesso e, per la prima volta dopo mesi, sentiva Mia vicina. Riusciva a pensare che non c’era più ma che sarebbe stata con entrambi per sempre.
Ricominciò a piangere, si sentiva un mostro: come aveva potuto additarla di un simile crimine? Proprio Daphne, che ancora non si era macchiata di alcun peccato.
«Ssssshhhh» le sussurrò cercando di calmarsi per farla calmare al contempo, la mano che scorreva sulla schiena.
Con le dita libere si asciugò le lacrime dagli occhi nell’inutile tentativo di recuperare la vista; cercava il cellulare per far scorrere la propria libreria di canzoni e trovare qualcosa di adatto per farla addormentare: la testa gli scoppiava più del cuore, non era pronto a provare tutto quello, non era pronto a sopportarlo. Aveva capito da quell’abbraccio che niente sarebbe stato come prima, lui stesso non l’avrebbe voluto.
Quando lesse un titolo a lui caro, fin troppo, decise che fosse giunto il momento di liberare tutto quello che aveva dentro, non solo il pianto degli occhi, ma lo squarcio che all’interno aveva iniziato a sanguinare e che solo Daphne stava riuscendo a rimarginare.
Si sedette sul piccolo divano, sicuro che le gambe non avrebbero retto il peso di tutto il suo sentimento, e lasciò che la musica iniziasse e lasciò che i ricordi fluissero.
La melodia di uno xilofono, timida e delicata, si diffuse nell’aria vicino a loro e, con essa, le parole di Shannon uscirono roche e rotte dalla sua bocca. Raccontava, intervallato da qualche lacrima e qualche risata, di come si erano conosciuti lui e Mia, delle battaglie per il nome che avrebbero dovuto darle.
Accomodò Daphne tra le braccia, la testa delicata appoggiata nell’incavo del gomito e le parlò del loro futuro, delle dormite che si sarebbero fatti nello stesso letto di lì a qualche giorno, chiusi in una camera d’hotel solo per loro, di come le avrebbe insegnato a suonare la batteria e di quanto lei sarebbe diventata brava, anche più di lui. Del suo primo concerto e, perché no, di qualche sua fuga sul palco durante un’esibizione, gattonata fino a lì solo per regalare un sorriso sdentato a lui, suo padre.
Convergence veniva passata a ripetizione dal suo telefono a un volume che non disturbasse Tomo e Jared di sotto, gli occhi di Daphne, pesanti ma restii a prendere sonno, calavano le palpebre solo a contatto con il ronzio prodotto dai ricordi che, tradotti in parole, picchiavano rochi contro lo sterno di lui su cui la bambina era appoggiata. La leggera vibrazione le risultava rassicurante.
E dopo quei pensieri e quei vaneggiamenti, Shannon si lasciò andare a un sospirò più triste.
Le confidò, con una certa fatica, che quella canzone era stata per lui la dichiarazione d’amore più sentita e sincera che avesse mai fatto. In essa era racchiusa Mia: la delicatezza della melodia rappresentava il suo carattere, le note dello xilofono erano come i suoi movimenti, aggraziati ed eleganti, l’accompagnamento tenero e leggero, come solo un suo bacio e una sua carezza poteva essere.
La canzone era la perfezione del loro rapporto, l’equilibrio che Mia era riuscita a portare nella sua vita.
Convergence: l’incontro, la convergenza, l’essere diretti verso un unico punto. Lui e Mia, semplicemente.
E, in quel momento, gli sembrava di essere andato oltre, perché quella canzone aveva i suoni rassicuranti di una ninna nanna, il motivo che avrebbe accompagnato la conoscenza di Daphne e Shannon. Daphne, la convergenza in cui erano caduti lui stesso e Mia andando al di là del loro stesso amore.
Come poteva odiare ciò che li aveva uniti per sempre? Accusarla di un orrore più grande di lei?
La fissò senza più lacrime a impedirgli di guardarla e con il respiro più calmo. Aveva le labbra aperte e il respiro pesante di chi dormiva per la prima volta sonni tranquilli, la testa ciondolante delle persone rilassate e il nasino più bello del mondo. Le manine abbandonate sulla pancia, dove le dita minuscole erano distese e tranquille.
In quel momento Shannon sentì una scintilla di felicità partire dalla sua ferita più grande, la consapevolezza che il cuore avrebbe retto anche alla morte di Mia, perché così lei aveva desiderato lasciandogli Daphne in dono.
Si era ripromesso di non amare più nessuna, perché sapeva di non poter provare quel sentimento assoluto per un’altra donna, eppure a due mesi da quella promessa si vedeva costretto a infrangerla. Si era innamorato di nuovo, ed era bastato il rumore di una bocca che nel sonno si muoveva appena per farlo cedere. Non si sentiva in colpa, bensì autorizzato ad amare quella creatura che ancora non conosceva.
Con attenzione si alzò e con la massima cura discese i gradini stretti del bus, la posò nella culla e, infine la coprì. Si soffermò a contemplarla nel sonno, con il pensiero che, se non se ne fosse andato subito, sarebbe rimasto a fissarla l’intera notte nella paura che potesse succederle qualcosa.
Il suo compito era vegliare su di lei e crescerla, così come Mia avrebbe voluto.
Il primo sorriso si aprì insicuro sul suo viso dopo mesi, non di certo l’ultimo.
Una fiamma di felicità era tornata ad alimentare la sua anima, una fiamma che sarebbe cresciuta di giorno in giorno, di pari passo con Daphne, fino a diventare un incendio; la soddisfazione di vederla crescere nel miglior modo possibile, senza pregiudizi e con curiosità verso il mondo.
«Buonanotte, Daphne». Le accarezzò una guancia con la punta dell’indice, senza accorgersi che pronunciare il suo nome era passato dall’essere un problema all’essere il balsamo per ogni suo male, poi fece violenza su se stesso per andare a dormire.
I pensieri si affollavano, anche se Mia era la costante che tornava a galla come uno scoglio in mezzo al mare. Non aveva preventivato di mettere su famiglia senza di lei, non aveva nemmeno mai concepito una vita senza di lei, ma era successo, e doveva andare avanti per Daphne.
Era spaventato dal domani che si sarebbe affacciato di lì a poco,  non sapeva cosa aspettarsi. La verità era che il giorno successivo si sarebbe fatto spiegare da Kayla come prendersi al meglio cura della piccola, sarebbe uscito dal suo mutismo, riprendendo quella luce negli occhi che tanto lo aveva caratterizzato prima della morte di Mia. Avrebbe ripreso a parlare nelle interviste, a interagire con la gente, a suonare per il semplice piacere di farlo. Nel giro di qualche mese l’avrebbero incontrato in giro con la bambina in braccio o nel passeggino mentre facevano un giro per la città di turno. L’avrebbe portata alle prove per non perderla d’occhio un momento e anche alle interviste. Daphne avrebbe fatto parte del proprio mondo e lui del suo.
L’avrebbe coinvolta, fatta interagire a costo di farla sbavare sui microfoni, l’avrebbe fatta giocare con Christine e l’avrebbe vista crescere sempre più simile a Mia, spensierata e libera da ogni preconcetto.
Shannon avrebbe guadagnato tanti sorrisi, l’amore incondizionato di una figlia ma, soprattutto, il ritornare se stesso, la cosa che più gli era mancata in quel periodo.
Si addormentò con mille idee in testa e ancor più dubbi.
L’unica certezza che nel cuore lo rasserenava era che, finalmente, era sicuro che ce l’avrebbe fatta, gli sarebbe bastato avere Daphne al suo fianco.
E Mia che, da qualunque posto si trovasse, vegliasse su di loro in quella convergenza che erano sempre riusciti a trovare, nonostante tutto.

 


Rieccomi qui, questa volta con una OS su shannon.
In realtà è meno agnst/strappalacrime/torcibudella di quello che avrei voluto, ma è andata così, ha preso il sopravvento e c'è quel pizzico di speranza in più che non guasta mai.
Spero che vi sia piaciuta, e che l'idea di Shannon papà vi abbia intrigato. Non so, è nata proprio perchè di solito è Jared a essere visto come padre, e la foto di lui con una bambina in braccio ha ispirato tutto ciò, ma come "zio". Inutile dire che le foto di queste settimane di Shannon con bambini vari che ho trovato su pagine fb e instagram hanno contribuito ad alimentare questa fantasia. Lui provoca, io rispondo.
So inoltre che l'idea di una bambina così piccola in giro per l'Europa in un bus non è il massimo, ma mi piaceva il pensiero di far dividere loro uno spazio così piccolo e vederli così lontani, almeno all'inizio.
Io l'idea riguardo il bus per il tour me la sono fatta qui: Tour del Bus.
Ringrazio Amartema per il magnifico banner :3
Spero di non avervi annoiato, a presto con lo spin off (della mini long che ho scritto riguardo a Jared) su Shannon, Cris.
   
 
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