Dicono
che quando il tetto del Millennium Stadium è chiuso
non riesci a sentire nemmeno il suono dei tuoi pensieri. Forse è vero, ma credo
che la stessa cosa la si possa dire di
Eden Park, anche senza essere chiuso.
Io
sento qualcosa dentro di me, ma non so se sono i miei pensieri o la mia
preoccupazione. È il mio match di debutto con la mia nazionale, indosso la
maglia rossa che tanto speravo di portare un giorno, ma anche se sono eccitato
all’idea, al contempo sono terrorizzato, perché oggi i nostri avversari sono i
tutti neri, gli All Blacks.
Se
insieme sono fortissimi, quasi imbattibili, uno di loro lo è quasi da solo: il
capitano. Nessuno, in questa città, non lo conosce, perfino quelli che il rugby
non lo seguono sanno perfettamente chi è.
È
l’irrefrenabile perno su cui ruota la squadra, l’inarrestabile terza linea che
in mischia spinge accanto ai suoi compagni e si libera subito per fermare
l’avversario.
È
il numero sette, il leone nero della Nuova Zelanda.
Vederlo
davanti a me con i suoi capelli corti, le spalle possenti, che entra sul campo
di casa sua, affondando i tacchetti nel prato morbido, così perfetto per lui,
mi smuove dentro. Il mio esordio sta per compiersi nel posto più difficile in
cui possa giocare.
Ed
è vero ciò che credevo prima, Eden Park è un’arena, marchiata di nero e
argento. Ovunque i neozelandesi incitano la propria squadra, lo fanno cantando
il loro inno e rispettando silenziosi il nostro.
Ora
che sono al centro del campo, affianco agli altri giocatori della mia nazionale,
posso vedere tutti gli All Blacks
negli occhi e quelli di uno di loro mi colpiscono più degli altri, sono quelli
del capitano.
Non
sembra neanche la stessa persona. Quando ci ha accolto, ore prima, ci ha
stretto la mano e sorriso, augurandoci buona fortuna; adesso, invece, è
determinato a guidare i suoi fratelli verso un’altra vittoria e tenterà di
farlo con tutta la forza di cui lui solo è capace indossando la sua maglia
nera.
Il
numero sette si è impresso sul suo corpo come fosse un tatuaggio, proprio come
la fascia da capitano. Centoventiquattro partite giocate, un record, proprio
come record è il suo numero di vittorie: centodieci.
Ma
come potrebbero perdere gli All Blacks
quando in squadra hanno uno come lui, un leone nero?
Quando
il fischio d’inizio risuona, l’animale si risveglia e lotta per tutti gli
ottanta minuti di gioco.
Quando
porta palla attacca, sfonda e annienta e se viene fermato mette immediatamente l’ovale
a disposizione, per non lasciare un solo
attimo di respiro agli avversari.
Quando
difende bracca e affonda il nemico, rialzandosi subito per atterrare anche il
successivo.
E
quando ti guarda negli occhi dopo averti portato a terra è solo perché sta
pensando a come cucinare la tua carcassa alla fine del match.
Ma
il ruolo di leader, di guida, gli calza a pennello soprattutto perché nei
momenti peggiori è in grado di incitare i suoi compagni e renderli più
determinati e in grado di far male di prima.
Se
vince non si vanta del suo successo, perché non c’è onore in questo; nel rugby
l’onore sta tutto nel rispetto dell’avversario e lui lo sa. Per questo appena
l’arbitro fischia la fine della partita l’animale si acquieta e il capitano
torna ad essere una delle persone più socievoli del mondo.
Ka Mate!
Ma
ora tutto deve ancora iniziare ed eccolo lì il leone nero.
Ringa pakia!
Uma tiraha!
Turi whatia!
Hope whai ake!
Waewae takahia kia kino!
Lui,
un tempo, non avrebbe mai potuto essere qui. È un pakea, un bianco, proprio come
me.
Ka mate, ka mate
Eppure
ora è il capitano di una delle più grandi squadre di sempre, un leader
indiscusso.
Ka ora' Ka ora'
L’animale
è sul punto di risvegliarsi al suono della sua Haka, l’antica danza di guerra
maori.
Ka mate, ka mate
Ka ora' Ka ora'
I
miei compagni sono determinati e non posso che esserlo anche io.
In
fin dei conti fra ottanta minuti il leone sarà tornato nella sua tana.
Tēnei te tangata pūhuruhuru
Nāna i tiki
mai whakawhiti te rā
A Upane! Ka Upane!
Upane Kaupane"
Whiti te rā,!
Tuttavia,
quegli ottanta minuti non sono ancora iniziati.
Hī!
Se mi
posso permettere di darvi un consiglio, andate su Wikipedia e leggete la
traduzione della Haka, c’è ed è molto bella( e forse
un pochino aiuta a spiegare perché l’ho usata così nel finale).
Ora,
intanto ringrazio quelli che sono arrivati a finire la mia shot,
l’ennesimo e immotivato pensiero che ho voluto articolare e arricchire, per
fare un omaggio al rugby e alla squadra che, forse, lo rappresenta a livello
mondiale. Dato che non esiste la sezione fanfiction
sugli atleti ho tolto il soggetto (che, voi che avete letto tutto perché
conoscete gli All Blacks,
avrete sicuramente indovinato di chi si tratta) e l’ho resa un’originale, anche
se non avrei voluto inserirla esattamente qui, ma non importa.
So
che non è niente di eccezionale, ma l’ho detto, è uno sclero uscito per caso
che ho voluto tentare di trasformare in un omaggio ad un signor giocatore.
Alla
prossima!
MadAka
p.s. Il protagonista di cui leggete i pensieri
(che non è nessuno di specifico) è gallese, l’ho usato per via del Millennium Stadium, perché quello che si dice su questo stadio, è
vero.