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Autore: U N Owen    04/02/2014    1 recensioni
Dieci ragazzi si riuniscono a Dreadpeak Lodge, una lussuosa baita di montagna, ma non tutto andrà come previsto.
A cena, una voce rievocherà l'oscuro passato che li accomuna, per poi recitare un'inquietante filastrocca:
"Dieci piccoli indiani andarono a mangiar,
uno fece indigestione, solo nove ne restar
[...]
Solo, il povero indiano, in un bosco se ne andò,
ad un pino s’ impiccò e nessuno ne restò"

Ispirata a "Dieci Piccoli Indiani" di Agatha Christie, questa storia è scritta a quattro mani da U N Owen e Belfagor, il cui profilo è qui consultabile: http://www.efpfanfic.net/viewuser.php?uid=51754
Genere: Mistero, Suspence | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Capitolo 10


Stava succedendo tutto di nuovo. Il terrore, l’angoscia, un piano semplice degenerato nel peggiore dei modi… due persone che ne fissavano una terza morta annegata. James e Alexis si erano già trovati in una situazione come quella, anni prima. Lentamente, i due alzarono lo sguardo dalla vasca e si fissarono a vicenda.

Alexis fu la prima a parlare. «È… è morta.»
«Sì» replicò James. La sua voce era fredda e piatta. «Quindi siamo alla fine.»
«Siamo alla fine» ripeté Alexis, quasi senza sentire il suono delle proprie parole.
«Non ci sono altre persone vive in questa casa a parte noi due. Sappiamo entrambi cosa vuol dire, non è così?»
«Sì.» Lo sguardo di Alexis si mosse istintivamente verso il fucile e James lo notò subito.
«Ah, no» disse, allontanando il fucile dalla ragazza «Il tuo piano è stato brillante, devo ammetterlo. Hai messo tutti nel sacco ma hai commesso un solo, gravissimo errore. Perché non mi hai ucciso prima? Conosco questa casa, so dove sono nascoste le armi e so come usarle. Non dirmi che l’hai fatto per quello che c’è stato fra noi.»
Neanche il tono canzonatorio di James riuscì a smuovere Alexis. La ragazza era impietrita dal terrore. Perché la stava torturando in quel modo? Perché non limitarsi ad ucciderla come aveva fatto con gli altri? Il suo sguardo si spostò sulla vasca. «Povera Isabel…»
La bocca di James si contrasse in un ghigno. «Questo cosa sarebbe? Rimorso? Pessimo tempismo.»
«Non hai un minimo di pietà?»
«Non ne avrò per te, se è questo che speri.»
«Guarda che fine ha fatto.»
«Era colpevole come tutti noi» fu il commento sbrigativo di James.
Alexis indietreggiò di un passo e posò una mano sul bordo della vasca. «Ed è per questo che li hai uccisi tutti? Erin… Dover… Kurt…»
«Quando mai ti è importato qualcosa di loro? Questi trucchetti possono ingannare la polizia, ma non certo me.»
Alexis stava tremando. Si era sentita così la prima volta che James aveva impugnato il fucile davanti a lei. Aveva capito che era una persona priva di scrupoli ma non aveva fatto nulla per fermarlo. «Che hai intenzione di fare, adesso?» chiese.
«Non è ovvio?»
«Vuoi uccidermi?»
James mosse il fucile, facendo sobbalzare Alexis. «Sarebbe facile, ma sai quante noie mi toccherebbe passare? Mi sei più utile da viva. Immagina la scena: la bella e brillante Alexis Griffin impazzisce in preda ai sensi di colpa per aver provocato la morte di Wesley Harrow, riunisce un gruppo di amici e li uccide per far ricadere la colpa sul povero James Conquest, il quale però scopre il suo piano e riesce a farla arrestare. Un’assassina sul banco degli imputati e l’eroe che l’ha catturata. I giornali andranno a nozze con una storia come questa.»
Le parole erano pesanti come dei macigni. Alexis abbassò lo sguardo, incontrando gli occhi sbarrati di Isabel.
E fu allora che un pensiero le balenò nella mente.
«Va bene» disse con voce debole «Hai vinto. Sono pronta a confessare. Ti chiedo solo un ultimo favore.»
«Sentiamo.»
«Voglio solo portare Isabel nella sua stanza. Non può restare qui fino all’arrivo della polizia.»
James sbuffò con fare sprezzante. «Per quel che mi riguarda, può anche restare lì a marcire.»
«Almeno togliamola dall’acqua.»
Il ragazzo rimase per qualche istante con gli occhi fissi sul cadavere, poi disse: «D’accordo. Io la prendo per le gambe. Niente trucchetti o sparo.»
Alexis annuì e immerse le mani nell’acqua gelida. Non senza una certa fatica, i due sollevarono il corpo di Isabel e lo poggiarono sul pavimento accanto alla vasca.
«Soddisfatta?» domandò James, strofinando le mani contro i pantaloni per asciugarle.
Alexis non riusciva a distogliere lo sguardo dal cadavere. Le gocce d’acqua scintillavano alla luce del pomeriggio, dando alla pelle di Isabel un aspetto malsano, innaturale.
«Io… io…»
La ragazza non riuscì a terminare la frase. Cercò di reggersi in piedi, ma dopo un paio di passi incerti si accasciò sul pavimento.
Istintivamente, James si avvicinò a lei per farla rinvenire. «Su, su, quante storie… cos’è, i rimorsi iniziano a farsi sentire?»
In tutta risposta, sentì qualcosa di rigido colpirgli lo sterno e perse l’equilibrio. Quando si rialzò, vide che Alexis si era rialzata e gli puntava contro il fucile.
«Ah!» esclamò lui, non riuscendo a trattenere un ghigno «Altro che rimorsi! Ottima pensata, devo dire.»
«Grazie» rispose freddamente Alexis.
«Adesso sei tu quella con il dito sul grilletto. Lascia che ti faccia una domanda: che hai intenzione di fare?»
«Voglio sapere una cosa. Perché?»
«Perché cosa?»
«Perché tutto questo? La filastrocca, gli indiani… perché esporti così tanto?»
«Forse non c’è niente da capire» replicò James con fare sardonico.
«Forse è così. Avrei dovuto capirlo tempo fa. Sei pazzo. Sei un mostro.»
James si lasciò sfuggire una risatina. «Andiamo, sappiamo entrambi che non hai il coraggio di…»
L’indice di Alexis si strinse sul grilletto. La ragazza sentì uno scoppio assordante e chiuse gli occhi per il dolore mentre il fucile le colpiva la spalla a causa del rinculo.
Quando riaprì gli occhi, vide James disteso di schiena sul pavimento. Con le orecchie ovattate dallo sparo, si avvicinò lentamente al corpo, con il fucile pronto a sparare un secondo colpo in caso di necessità. Ma le bastò un’occhiata per rendersi conto che non ce ne sarebbe stato bisogno: il proiettile aveva attraversato il petto di James Conquest, che ora giaceva morto.

Il sollievo, un sollievo che non aveva mai sentito prima in vita sua la pervase. Era tutto finito. Cadde in ginocchio, respirando profondamente. Per un attimo pensò che sarebbe svenuta, ma non fu così. Iniziò a ridere. Era una risata fredda che risuonò per la stanza. Pensò che i giornali l’avrebbero ribattezzata “l’unica sopravvissuta al massacro di Dreadpeak Lodge”, e questo la fece ridere ancora di più. Quando finalmente riuscì a calmarsi, si alzò in piedi e uscì dalla stanza.
Fu solo quando giunse in sala da pranzo che si accorse di avere ancora in mano il fucile. Improvvisamente lo sentì pesantissimo e lo lasciò sul tavolo con noncuranza. Ormai non c’era più motivo di tenerlo con sé. Era al sicuro. Era sola.
Sul centrotavola si trovavano ancora due statuine. Sorridendo, Alexis ne prese una in mano. «Qui c’è qualcuno di troppo, mio caro» le disse, prima di lasciarla cadere sul pavimento. Poi prese l’altra. «Tu invece vieni via con me. Abbiamo vinto.»
Dieci piccoli indiani… solo qualche giorno prima, quella sala era piena di persone che mangiavano e ridevano, ignare di quello che le aspettava. E ora ne restava solo una. Cosa succedeva all’ultimo piccolo indiano? Alexis non riusciva a ricordarlo. Ma non le importava. L’incubo era finito, quella filastrocca non l’avrebbe perseguitata mai più.
Uscì dalla sala, diretta verso le scale. Aveva bisogno di dormire, voleva solo buttarsi sul letto e dormire finché non fosse arrivato qualcuno a recuperarla. Sarebbe stato come risvegliarsi da un incubo e, col tempo, i ricordi sarebbero scomparsi. Com’era stato per Wes…
Si sentì come se stesse per svenire e si aggrappò alla ringhiera. Aveva davvero bisogno di dormire.
Iniziò a salire lentamente le scale, sentendosi libera come mai in vita sua. Fino a poco prima, ogni angolo della casa le aveva provocato inquietudine e sospetto. Ora, invece, alla luce del pomeriggio, vedeva solo la bellezza di quelle stanze, dimenticando anche di trovarsi in una casa nella quale erano appena morte nove persone. Non faceva neanche caso ai gradini, salendoli con calma uno dopo l’altro, quasi meccanicamente. Era conscia solo di tenere in mano la statuina di porcellana.
Improvvisamente, un suono attirò la sua attenzione.
«Wes?» chiese con voce esistante.
In tutta risposta sentì le note della filastrocca, quella che avevano ascoltato la prima notte trascorsa a Dreadpeak Lodge prima che l’incubo avesse inizio.
“Non può essere” pensò “È solo la stanchezza che mi fa immaginare cose impossibili.”
Salì la rampa di scale cercando di non prestare attenzione al coro di voci né al destino dei poveri piccoli indiani. Era arrivata in cima quando si fermò di nuovo. Delle immagini le attraversarono la mente, immagini che non voleva ricordare: il volto gonfio e paonazzo di Carl, il segno dell’iniezione sul collo di Dover, il corpo folgorato di Eveline, gli occhi sbarrati di Isabel, il sangue di James sparso sul pavimento…
“No, basta” si disse per farsi forza mentre raggiungeva la porta della propria stanza “I morti appartengono al passato. I vivi devono andare avanti, ed è quello che farò.”
Con un gesto deciso, girò la maniglia e aprì la porta.
Un grido le morì in gola. Non era possibile, sembrava un incubo… e invece no, era lì, proprio davanti ai suoi occhi: dal soffitto pendeva un cappio e, sotto si esso, si trovava una sedia, pronta per essere calciata via.
Alexis sentì la statuina scivolarle di mano ed infrangersi sul pavimento. Questa era la fine. Le era stata riservata la pena più grave, l’umiliazione più grande di tutte: il patibolo. Gli occhi le si riempirono di lacrime mentre si avvicinava a quell’orribile strumento di morte che torreggiava su di lei, freddo ed implacabile come la voce che li aveva accusati. Ecco qual era il destino dell’ultimo piccolo indiano: ad un pino si impiccò e nessuno più restò.
Tremando, Alexis salì sulla sedia e si mise il cappio intorno al collo. Smise di piangere. Era quasi un sollievo: non avrebbe più dovuto fuggire, non ci sarebbero stati più ricordi, incubi, rimorsi… e Wes era lì, ovviamente, ad assicurarsi che la condanna fosse eseguita.
Mentre le ultime note della filastrocca si disperdevano nell’aria, Alexis Griffin fece un respiro profondo, chiuse gli occhi…
… e respinse la sedia con un calcio.

«Tutto questo non ha senso.»
Il detective Bernal osservò un agente della scientifica mentre imbustava un fazzoletto di carta appena raccolto dal pavimento della stanza di O’Scolaidhe.
«Ho la sensazione che non servirà a molto» confidò allo sceriffo Quinn mentre scendevano le scale «Hanno già chiarito l’ordine dei decessi?»
«Non del tutto» rispose Quinn «Abbiamo rinvenuto alcune annotazioni nelle camere delle vittime. Pare che il primo a morire sia stato Kundren, shock anafilattico. Erin van der Logt è stata la seconda, soffocata durante la notte. Poi Aldrich, Flake, O’Scolaidhe e de Dispaire. Un elemento comune che abbiamo rintracciato è che, sempre secondo le vittime, l’assassino si era ispirato alla filastrocca che si trova incorniciata nelle varie stanze.»
«Dieci piccoli indiani…» mormorò Bernal fra sé e sé «E per quanto riguarda il contenuto del CD?»
«La voce è stata ottenuta tramite un sintetizzatore e diversi filtri, materiale facile da trovare in rete, così come la filastrocca.»
«È emerso qualcosa in merito al contenuto?»
«Ci stiamo lavorando. Il padre di James Conquest è stato il primo a raggiungere la casa assieme ad un gruppo di soccorso. Era comprensibilmente sconvolto quando lo abbiamo interrogato. Non appena gli abbiamo parlato delle accuse riportate sul CD, ha lasciato sfuggire qualcosa riguardo uno “scherzo finito male”.»
«Quindi, se le accuse dovessero rivelarsi vere, l’ipotesi che l’assassino sia un membro del gruppo diventerebbe ancor più probabile» commentò Bernal, spostandosi verso la cucina.
«Non vi sono segni di scasso in nessuna porta d’ingresso, né alle finestre» disse Quinn «E, visto il tempo degli ultimi giorni, è improbabile che qualcuno abbia lasciato la casa senza finire congelato.»
Bernal scosse la testa e disse «Cose del genere succedono solo nei romanzi gialli». Poi si voltò verso la filastrocca appesa al muro, leggendone i versi in silenzio.
«C’è dell’altro, detective. Non siamo ancora riusciti a ricostruire l’ordine delle ultime quattro morti.»
Bernal distolse lo sguardo dalla filastrocca. «In che senso?»
«Se davvero l’assassino era uno degli ospiti, è ovvio che si sia tolto la vita dopo aver ucciso gli altri nove, no? Ebbene, non abbiamo trovato una sequenza che avesse senso. Per esempio, Scrapers è stato travolto da un orso impagliato quando ha aperto la porta della stanza nella quale è stato ritrovato. Ma quando siamo arrivati, la porta era chiusa. Scrapers è morto sul colpo e non abbiamo trovato alcun meccanismo in grado di chiudere la porta dall’interno»
«Non potrebbe essere stato Conquest? Era quello che conosceva la casa meglio di tutti. Dopo aver annegato Isabel Rodriguez e progettato la trappola, ha costretto Alexis Griffin ad impiccarsi, quindi si è sparato.»
«Neanche questo è possibile. Il fucile da cui è partito il colpo è stato ritrovato in sala da pranzo, appoggiato sul tavolo.»
Quinn si spostò in sala da pranzo e indicò il tavolo. «Proprio qui.»
«E la Rodriguez? Non potrebbe essersi annegata dopo aver ucciso gli altri?»
«Il corpo è stato trovato al di fuori della vasca. I soccorritori hanno detto di non aver toccato nessun cadavere, e il signor Conquest ha perso i sensi alla vista del cadavere del figlio, quindi non ha avuto modo di avvicinarsi.»
«Rimane la Griffin, allora. Annega la Rodriguez, attira in qualche modo Scrapers verso la trappola, spara a Conquest e infine si impicca nella propria stanza. Ma qualcosa mi dice che c’è un particolare che non quadra, vero?»
«Proprio così. Sembrava lo scenario più probabile, ma la sedia che la Griffin ha calciato via per impiccarsi non è stata trovata sul pavimento, bensì al proprio posto sotto la scrivania. E non è possibile che sia salita da qualche altra parte, come sul letto.»
Calò il silenzio. Lo sguardo di Bernal indugiò su vari punti della sala da pranzo, nella speranza di trovare qualcosa di illuminante, fino a posarsi sul centrotavola. «Un centrotavola molto sobrio per una sala così elegante» commentò laconico il detective.
«Probabilmente era solo la base per degli oggetti in porcellana, statuine che raffiguravano degli indiani» spiegò lo sceriffo «Sono stati rinvenuti dei frammenti accanto ad alcuni cadaveri. Anche questo avvalora l’ipotesi della filastrocca.»
«Gli indiani erano appoggiati, immagino. Non fissati. Non ci sono dei frammenti qui.»
«Perché le interessa?»
Bernal si piegò sulle ginocchia per osservare più da vicino l’oggetto. «Non le sembra inclinato?»
Anche Quinn si abbassò fino ad avere lo sguardo al livello del centrotavola. «Sì, ha ragione.»
«Dubito che avrebbero lasciato degli oggetti fragili su una base inclinata come questa, a meno che non sia successo qualcosa dopo che tutte le statuine erano state spostate. Mi serve un agente della scientifica.»
Con molta attenzione, seguendo le istruzioni del detective l’agente prese il centrotavola tra le mani e lo capovolse. «La base è stata forzata» notò subito.
Fu sufficiente far leva con una spatola per far saltare la base. All’interno del centrotavola si trovava una busta chiusa ma non sigillata.
Con le mani protette dai guanti, Bernal aprì la busta ed estrasse alcuni fogli di carta piegati in quattro.
«Detective, le consiglio di lasciare la busta e il contenuto alla scientifica» lo ammonì lo sceriffo «Si tratta di una prova.»
«Non è una semplice prova.» Sul volto del detective comparve un’espressione di trionfo. «È una confessione.»




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Nota: Capitolo scritto da Belfagor.
  
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