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Autore: AxXx    05/02/2014    0 recensioni
Vi era una città, un tempo bellissima, le cui torri erano alte come mai si sarebbe visto. L’oro, il marmo, l’argento erano i materiali degli edifici. Persino le case più semplici erano adornate. Le alte mura difendevano i palazzi, un tempo potenti. Ma ora tutto era distrutto. La città era attaccata, in alto, nel cielo, un enorme edificio, completamente in pietra nera, fluttuava sopra la città. Statue di uomini dall’aspetto deforme sorreggevano la struttura
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Per me non è solo un sogno. Per me è ciò che rappresenta il mio passato. Il mio spirito passato che un tempo combatté per difendere la terra quando ogni altra razza era stata abbattuta. Solo con un patto dei draghi aveva salvato ogni cosa e ora toccava a me e ai miei amici ricreare quel patto.
[Storia scritta a quattro mani da me e Fantasiiana, siate buoni, per favore, recensite :3 ]
Genere: Avventura, Azione, Romantico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Mi Risveglio nella casa del mio più vecchio e defunto antenato.

 

 

 

 

 

 

 

Mi svegliai con la vaga impressione di avere una fornace al posto dello stomaco e un’incudine martellata al posto del cervello. I ricordi si facevano confusi, mentre mi riprendevo completamente. All’inizio vedevo solo un grigio sfocato, pieno di crepe e venature, poi fu come se mi avessero acceso una luce intensa davanti agli occhi.

D’istinto mi coprii, ma mi resi subito conto che quello scintillio mi stava guarendo, dato che sentii i miei malesseri venir meno. Tra le ombre che mi danzavano davanti intravidi anche qualcosa di più umano che mi sussurrava parole di conforto nell’orecchio.

 

Mi risvegliai un periodo di tempo indefinito dopo e questa volta potei alzarmi senza problemi. La testa mi girava, mi veniva da vomitare e lo stomaco le gambe mi tremavano. A parte questo stavo benissimo. Ero sdraiato su quello che somigliava moltissimo ad un lettino da infermeria, ma capii subito che non ero in ospedale: le pareti erano in pietra grigia levigata. Le finestre erano grandi e terminavano con delle punte, simile a quella di una cattedrale ed emanavano una chiara luce, da cui intuii che doveva essere mattina. Era un luogo ampio ospitato da una ventina di altri lettini simili, ma il mio era l’unico vuoto. Alla parete c’era un armadio e vari comodini accanto ai letti.

Ero stato spogliato e lasciato solo con i boxer. Il collo era stato fasciato con pesanti bene e anche le altre ferite erano state medicate.

“Che diavolo è successo?” Mi chiesi, mettendomi seduto e tastandomi la fronte imperlata di sudore.

I ricordi mi investirono presto: i mostri, l’attacco nel vicolo, la lotta, la ragazza e l’uomo che era arrivato a salvarli come un apparizione divina. Quanto era accaduto tutto? Un minuto? Due? Al massimo cinque.

Ero sfinito e l’ultimo ricordo che mi sovvenne fu la durezza delle zanne di quell’abominio sulla mia pelle. Me l’ero vista davvero brutta. Non capivo, però, come fosse possibile che fossi sopravvissuto. Se quel veleno era così forte da sciogliere la neve, ero molto sorpreso di non essermi sciolto anche io.

“Vedo che ti sei ripreso, finalmente.” Sussurrò una voce che mi fece sobbalzare.

Sulla porta poco lontano c’era un uomo alto, dalla barba e i capelli biondi. Gli occhi rosso, come le fiamme ardenti in una foresta e la pelle abbronzata. Il viso coperto da tutta quella peluria aveva una forma molto dura e squadrata, ma non irradiava solo autorità. Aveva un’aria familiare, come se lo avessi visto in un sogno.

“Ehm… salve, signore. Mi sa dire dove sono? Sono… un po’ confuso.” Risposi io, cercando di riordinare le idee. Era lo stesso uomo che, apparendo dal nulla, ci aveva salvati. Ne ero certo.

“Sei al sicuro, adesso, amico mio. Dragavaar offre asilo a quelli come te. Il nemico non avrebbe dovuto attaccarti, ma se l’ha fatto, allora sta per risorgere. Appena sei in piedi, scendi, devo parlare ad entrambi.

Quelle parole mi confusero e basta. Il mio cervello, già messo male di per se, sembrò rigurgitare quella mole di informazioni tanto che sospirai, ricadendo sul letto sospirando per la frustrazione. Se fossi stato meglio avrei preso volentieri a pugni qualcuno o qualcosa. Ero fatto così: mi innervosiva non capire le cose.

“Può essere più chiaro!?” Sbottai furibondo.

Fu allora che notai la gemma di famiglia al mio fianco: aveva iniziato a brillare a intermittenza, come se percepisse la mia rabbia. Io fui scosso da un brivido e la presi in mano. Fu come se il solo contatto avesse aperto un lucchetto nella mia mente.

Quella stanza l’avevo già visitata.

 

“Dovevi proprio fare la testa calda, eh?” Domandò una bellissima ragazza, fasciandomi la testa ferita.

Ero seduto su quello stesso letto, all’esterno e stavo sorridendo felice, come se avere la sua attenzione mi sollevasse.

“Lo sai che sono fatto così… non è colpa mia.” Avevo risposto facendo l’occhiolino.

La sua risata argentina mi scaldò il cuore e i suoi occhi di ghiaccio si illuminarono, come un fuoco che si rifletteva sulla neve.

 

Mi ripresi, rendendomi conto che quei miei ricordi non appartenevano a me. Era, però, un ricordo bellissimo. L’uomo che prima mi aveva parlato era sparito, probabilmente se n’era andato passando dalla porta su cui era appoggiato poco prima, ma a me non interessava. Ero stufo di starmene a letto, così, dopo un po’, provai ad alzarmi. Nonostante il dolore forte e il martellare alla testa, riuscii a reggermi.

Provai a fare qualche passo.

Riuscivo a camminare.

Ero curioso di vedere dove mi trovassi, così mi affacciai alla finestra e osservai il panorama. Era un’immensa città in rovina. Un tempo dovevano sorgere alti palazzi in marmo, bellissimi. Le mura dovevano essere colossali, date le dimensioni dei basamenti, ma non erano rimaste altro che macerie. Fu una strana sensazione: il mio cuore si fece pesante e sentii una profonda tristezza. Mi sentivo come se avessi fallito in un compito che riguardava quel posto, ma non ricordavo cosa. Immagini della città all’epoca del suo antico splendore mi danzarono davanti agli occhi per un attimo: un mercato nella piazza, dove i bambini giocavano allegri, una specie di enorme anfiteatro dove la gente si radunava, delle per riunirsi e chiacchierare, un teatro.

Ma non c’erano altro che macerie.

E questo mi rendeva triste… ma anche furioso.

Fu come se mi avessero iniettato dell’adrenalina: il mio corpo fu invaso da una scarica di energia e, finalmente, riuscii a ragionare in modo coerente. Volevo sapere cosa mi stava succedendo e l’unica risposta a portata di mano era il misterioso tizio che mi aveva salvato. Inoltre avevo fame e sete, quindi dovevo assolutamente trovare qualcosa da mangiare. Mi vestii con un paio di pantaloni della tuta e una maglietta.

Le riconoscevo: erano mie. A quanto pare quell’uomo aveva preso i miei bagagli.

Una volta vestitomi scesi le scale. Dovevo essere nell’unico edificio intatto e qualcuno aveva cercato di dare, persino, delle rifiniture moderne: nei muri di pietra si aprivano delle prese elettriche e in alcuni punti sembrava, persino, essere stata operata una ristrutturazione, anche se incompleta.

Scesi e seguii il corridoio seguente, sbirciando dalle finestre che si apriva sul lato destro, la città. All’esterno vedevo della neve, quindi, o ci trovavamo al polo o su una montagna. Mi chiesi come mai, allora, ci fosse una temperatura così mite.

In fondo al corridoio c’era un atrio che dava sulla pazza esterna. Eravamo davvero nell’unico edificio intatto del posto. La stanza era circolare, con una cupola a volta e con un arredamento che ricordava una sala d’attesa, con delle poltrone ed un divano. Le pareti erano, però, spoglie anche se un tempo dovevano ospitare dei quadri.

Seduta lì, su una delle poltrone, c’era la ragazza che i mostri avevano rapito. Appena i miei occhi incontrarono i suoi il suo viso e quello della fanciulla della mia visione si sovrapposero e il mio cuore iniziò a battere forte.

‘Calmati.’ Mi dissi, distogliendo lo sguardo. ‘Non c’entra nulla, probabilmente è la prima volta che vi vedete, è solo un caso.’

Decisi, così di tentare un approccio amichevole. Dopotutto anche lei era stata intrappolata in quel vicolo, magari potevo chiederle come stava e dimostrarmi un po’ sensibile.

“Ciao.” Sussurrai, laconico, incapace di schiudermi in un sorriso.

“Ciao…”

Anche lei era di poche parole. Continuava a tenere gli occhi fissi verso un portone posto dall’altra parte rispetto all’uscita. Probabilmente, da lì, si accedeva alla sala principale del palazzo.

“Come stai?” Chiesi, allora, cercando di assumere un tono amichevole. “Ieri sera ce la siamo vista brutta.”

Questa volta si voltò verso di me e mi puntò contro i suoi penetranti occhi di ghiaccio. Era bellissima.

“Vero… meno male che c’era quel tipo, se no dubito che saremo qui a parlarne.” Rispose, stringendosi le spalle.

“Siamo stati fortunati… comunque, io sono Alex, tu come ti chiami?” Mi presentai, cercando di nascondere il mio nervosismo. Anche solo guardarla mi sembrava molto difficile, come se ne fossi attratto e, allo stesso tempo, qualcosa di lei mi respingesse.

“Diane.” Disse subito la ragazza, ricadendo, subito, nell’ennesimo silenzio imbarazzante.

“Sei di poche parole, vedo.” Commentai, restio ad abbandonare una conversazione con lei. Per la prima volta nella mia vita, mi sentivo deciso a dimostrarmi un po’ più vicino a qualcuno.

“Già… sai, io preferisco restare sola. Non sono abituata a socializzare.” Aveva assunto un tono di scuse, e la cosa mi dispiacque. Non volevo metterla in imbarazzo.

“Benvenuta nel club, allora. Nemmeno io sono bravo a socializzare. Se vuoi ti do la tessera.” Risposi, con un sorriso per rassicurarla.  Lei ricambiò finalmente rilassata, sembrava cercare di mantenere le preoccupazioni e i problemi dentro di se.

“Magari passo.” Rispose, sistemandosi un po’ meglio sul divano.

Cadde un attimo di silenzio imbarazzante. Lei non aveva detto nulla e io, ovviamente, non ero abbastanza spiritoso da intavolare una conversazione decente, ma tentai comunque.

“Hai idea di come siamo arrivati qui da New York?” Domandai. Magari lei l’aveva visto ed ero curioso.

“No.” Fu la rapida risposta. Sembrava timorosa, come se avesse paura. “Non so come dirtelo, senza che tu mi prenda per pazza.” Ammise, infine.

“Non preoccuparti… il vecchio mi aveva accennato al fatto di non essere l’unico coinvolto in questa dannata storia.” La rassicurai, sedendomi accanto a lei.

Lei si strinse di nuovo le spalle: “Non credo di essere coinvolta… io non c’entro niente, qui.”

“Allora perché sei qui?... scusa se lo dico, ma il tizio ha detto che questo posto è per ‘quelli come me’.” Risposi io, senza pensare. Troppo tardi, mi resi conto di aver sbagliato a parlare in quel modo. Avrei voluto mordermi la lingua.

“Io… io non lo so! Quel tipo è apparso dal nulla e mi ha detto di seguirlo! Cosa dovevo fare!? Restare a casa e rischiare di essere aggredita di nuovo da quegli esseri!?” Sbottò nervosamente, arrossendo un po’, forse per l’imbarazzo, forse per la rabbia. Io provai a calmarla, ma ormai aveva preso la via. Si alzò in piedi e continuò urlando. “Scusami tanto se non son all’altezza! Provvedo a rimediare!”

Mi detti dello stupido, mentre lei si avviava verso l’uscita. Non volevo dire quello, mi ero spiegato male, ma ovviamente dovevo fare brutta figura.

“Aspetta! Femrati! Non volevo dire questo! Solo che… ah… perché non tengo la bocca chiusa, a volte?” Bascicai in imbarazzo. Ecco il motivo per cui non mi piaceva socializzare: non sapevo controllare le mie parole.

Diane, però, sembrò calmarsi e alzò un sopracciglio dubbiosa. 

 

“Volevo dire... ecco, immaginavo che tu ne sapessi più di me, visto che sei arrivata qui intera.” Tentai di nuovo, misurando bene le mie parole.

 

“Bè, mi dispiace deluderti ma ne so quanto te, probabilmente meno.” Rispose lei tornando calma in un attimo. Le ero grato per avermi compreso così velocemente e per non essersi offesa troppo. Non sapevo perché, ma ci tenevo a lei e volevo averla amica. Forse per il fatto che avevamo condiviso quella brutta esperienza insieme.

 

“Va bene... scusami se mi sono spiegato male... quando apro bocca faccio sempre casino.” Spiegai io rilassato, riconducendola al divano, dove ci sedemmo comodamente.

 

“Comunque, grazie per quello che hai fatto ieri. è stato molto coraggioso.” Si congratulò lei. Sembrava sul punto di esplodere, come se le emozioni la travolgessero, senza, però, rompere la barriera della sua impassibilità.

 

Mi sentii arrossire fino alla punta dei capelli mentre farfugliavo una risposta: “Ho... agito di istinto, probabilmente ti ho messo più in pericolo che altro... sono fatto così, non riesco a trattenere le emozioni.”

 

“Ci hai provato, almeno. Io non sono stata molto d'aiuto...” Diane sembrava triste e si mise a guardare il pavimento come se volesse essere inghiottita da esso.

 

 “Sinceramente... non so nemmeno io come ho fatto... quei tipi avevano una forza strabilianti... all'improvviso mi sono arrabbiato ... puff... ce l'avevo anche io. Probabilmente non avrei fatto molto nemmeno io.” Cercai di tranquillizzarla io. Non era colpa di nessuno se quelle creature erano così forti e lei aveva tentato di aiutare, ma non era riuscita a fare molto.

 

“Chissà, forse l'adrenalina.” Ipotizzò lei, dandomi una gomitata. Aveva un sorriso triste, ma anche speranzoso.

“Allora ringrazio la mia adrenalina... e anche il tizio che ci ha salvati.” Feci io, dandole una pacca sulla spalla.

 

In quel momento il portone si aprii e l’uomo che ci aveva salvati ci fece cenno di seguirlo. Oltre il portone che portava all’interno seguimmo un lungo corridoio. Inciso: sembrava una storia incisa che partiva da un uovo da cui usciva un cucciolo di drago. Accanto a lui un bambino umano e un angioletto. La storia proseguiva, mostrano la città nella sua più antica bellezza. Il motivo del drago rimaneva sempre persistente, intenti ad aiutare gli uomini a muovere i loro primi passi, fino a creare quel posto con il quale condividevano il territorio.

Nell’ultima parte, però, le immagini cambiavano: vedevo angeli che combattevano contro gli umani, bruciando edifici e uccidendo le persone. Dall’altra parte i draghi e un esercito di uomini li tenevano a bada con fiamme e frecce.

 

Ebbi un fremito di rabbia e la mia mente fu travolta da dei ricordi, simili ai sogni che facevo. Era come se io stessi combattendo in quella guerra. Per un attimo vidi il cielo tinto di rosso, come se fosse invaso dalle fiamme. Una voce mi urlava a fianco di stare attento e poi mi vidi con in mano una spada. Stavo per colpire un mostro non diverso da quello che avevo combattuto nel vicolo.

 

Il flash durò solo un attimo, ma, quando mi voltai verso Diane, mi resi conto che anche lei ne doveva aver avuto uno. Alla fine del corridoio c’era una porta d’oro incisa, con raffigurati sopra otto guerrieri inginocchiati che tenevano in mano delle gemme che sembravano emanare luce. Come per istinto, io misi mano alla gemma che tenevo come ricordo di mia madre.

Era lì. La stava tenendo in mano un guerriero giovane, in prima linea.

Il vecchio aprì i battenti e ci ritrovammo in una grande stanza circolare, dove si trovavano otto troni vuoti. Erano tutti diversi e sembravano tutti fatti a posta per rappresentare un elemento: uno sembrava fatto con delle incisioni che rappresentavano le fiamme, uno era fatto completamente di ferro e così via. Era illuminata dal sole mattutino che filtrava da una finestra davanti a loro. 

“È il momento di spiegare.” Annunciò il vecchio, sedendosi su una poltrona affiancata ad un trono fatto completamente di vetro che sembrava emanare luce propria.

“Era ora…” Commentai asciutto. Era per quello che mi ero alzato, pur essendo ancora ferito.

“Ciò che vi dirò… sarà difficile da accettare.” Cominciò lui, ignorando il mio commento. “Voi dovrete ascoltare e cercare di capirmi, perché so che, in fondo al cuore, voi lo sapete già.”

Io e Diane ci guardammo spaesati. Sembrava assurdo, eppure quel posto era così familiare. Il mio sguardo si posò sul trono del fuoco.
Annuii.

“Molto bene… avete visto ciò che è inciso nei nel corridoio, vero?”

Annuimmo insieme.

“Bene… ciò che avete visto non è una leggenda… molte cose che avete visto fin ora non lo sono. Esse sono storia. Un tempo questa città era fiorente, e i draghi, gli esseri della leggenda che più vi affascinano, erano esistenti. Essa era governata dalle incarnazioni di otto draghi, ognuno signore di un elemento. Del fuoco, dell’acqua, della terra, dell’aria, della luce, dell’oscurità, del fulmine e del metallo.”

Ok, quel tipo era pazzo, ma dopotutto ci stava raccontando solo una storia fantastica, tipo i libri che amavo io. Che c’era di male? Decisi di lasciarlo vaneggiare.

“Millenni fa, però, gli alati… le creature che voi chiamate angeli, decisero di scavalcare i draghi per distruggere ogni cosa e prendersi il mondo per se. I draghi cercarono di respingerli, ma essi fallirono e, infine, furono costretti ad un’alleanza. Otto uomini si riunirono sotto la loro protezione e i signori degli otto elementi dettero loro il potere per riunire la forza dei draghi e degli uomini, sacrificando il loro spirito. Essi morirono, ma il loro spirito visse negli uomini… sconfissero il Signore degli Alati e lo esiliarono. Voi sietele loro reincarnazioni.”

Scoppiai a ridere: quel tipo doveva essere pazzo davvero. Diane, invece, sembrava solo accigliata, come se le avessero dato il risultato di un’equazione che non riusciva a risolvere, ma non fosse quello che si aspettava.

L’uomo, non reagì, mi guardò negli occhi, come per leggermi dentro l’anima.

“Dimmi, Alex… come spieghi quello che ti è accaduto ieri?”

Non mi piaceva il modo in cui aveva detto il mio nome. Cercai di rispondere in modo deciso, ma qualcosa mi fermò.

I ricordi…

I sogni…

Le sensazioni…

Tutto in quel posto sembrava confermare quanto aveva detto quel vecchio. Eppure la parte più razionale della mia mente si rifiutava di accettarlo. Erano solo stupidaggini, come gli inizi dei film che mi piacevano, ma erano pur sempre libri. Storie scaturite dalla fantasia di una persona.

Scossi la testa: “Perché dovrebbe essere vero? Perché dovrei crederle!?”

Lui mi osservò mortalmente calmo: “Sei proprio come Dart… e ti dirò quello che ho detto a lui: se non mi credi, allora vedrai il tuo mondo sparire.”

 

Ebbi un flash.

Quello stesso uomo, che mi diceva quelle stesse esatte parole, era in piedi davanti a me. Mi porgeva il ciondolo di mia madre: la pietra rossa circolare.

 

Il flash finì.

Lo guardai negli occhi.

Gli credetti.

 

  
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