Mi Risveglio
nella casa del mio più vecchio e defunto antenato.
Mi
svegliai con la vaga impressione di avere una fornace
al posto dello stomaco e un’incudine martellata al posto del
cervello. I
ricordi si facevano confusi, mentre mi riprendevo completamente.
All’inizio
vedevo solo un grigio sfocato, pieno di crepe e venature, poi fu come
se mi
avessero acceso una luce intensa davanti agli occhi.
D’istinto
mi coprii, ma mi resi subito conto che quello
scintillio mi stava guarendo, dato che sentii i miei malesseri venir
meno. Tra
le ombre che mi danzavano davanti intravidi anche qualcosa di
più umano che mi
sussurrava parole di conforto nell’orecchio.
Mi
risvegliai un periodo di tempo indefinito dopo e
questa volta potei alzarmi senza problemi. La testa mi girava, mi
veniva da
vomitare e lo stomaco le gambe mi tremavano. A parte questo stavo
benissimo.
Ero sdraiato su quello che somigliava moltissimo ad un lettino da
infermeria,
ma capii subito che non ero in ospedale: le pareti erano in pietra
grigia
levigata. Le finestre erano grandi e terminavano con delle punte,
simile a
quella di una cattedrale ed emanavano una chiara luce, da cui intuii
che doveva
essere mattina. Era un luogo ampio ospitato da una ventina di altri
lettini
simili, ma il mio era l’unico vuoto. Alla parete
c’era un armadio e vari
comodini accanto ai letti.
Ero
stato spogliato e lasciato solo con i boxer. Il collo
era stato fasciato con pesanti bene e anche le altre ferite erano state
medicate.
“Che
diavolo è successo?” Mi chiesi, mettendomi seduto
e
tastandomi la fronte imperlata di sudore.
I
ricordi mi investirono presto: i mostri, l’attacco nel
vicolo, la lotta, la ragazza e l’uomo che era arrivato a
salvarli come un
apparizione divina. Quanto era accaduto tutto? Un minuto? Due? Al
massimo
cinque.
Ero
sfinito e l’ultimo ricordo che mi sovvenne fu la
durezza delle zanne di quell’abominio sulla mia pelle. Me
l’ero vista davvero
brutta. Non capivo, però, come fosse possibile che fossi
sopravvissuto. Se quel
veleno era così forte da sciogliere la neve, ero molto
sorpreso di non essermi
sciolto anche io.
“Vedo
che ti sei ripreso, finalmente.” Sussurrò una voce
che mi fece sobbalzare.
Sulla
porta poco lontano c’era un uomo alto, dalla barba
e i capelli biondi. Gli occhi rosso, come le fiamme ardenti in una
foresta e la
pelle abbronzata. Il viso coperto da tutta quella peluria aveva una
forma molto
dura e squadrata, ma non irradiava solo autorità. Aveva
un’aria familiare, come
se lo avessi visto in un sogno.
“Ehm…
salve, signore. Mi sa dire dove sono? Sono… un po’
confuso.” Risposi io, cercando di riordinare le idee. Era lo
stesso uomo che, apparendo
dal nulla, ci aveva salvati. Ne ero certo.
“Sei
al sicuro, adesso, amico mio. Dragavaar offre asilo
a quelli come te. Il nemico non avrebbe dovuto attaccarti, ma se
l’ha fatto,
allora sta per risorgere. Appena sei in piedi, scendi, devo parlare ad
entrambi.
Quelle
parole mi confusero e basta. Il mio cervello, già
messo male di per se, sembrò rigurgitare quella mole di
informazioni tanto che
sospirai, ricadendo sul letto sospirando per la frustrazione. Se fossi
stato
meglio avrei preso volentieri a pugni qualcuno o qualcosa. Ero fatto
così: mi
innervosiva non capire le cose.
“Può
essere più chiaro!?” Sbottai furibondo.
Fu
allora che notai la gemma di famiglia al mio fianco:
aveva iniziato a brillare a intermittenza, come se percepisse la mia
rabbia. Io
fui scosso da un brivido e la presi in mano. Fu come se il solo
contatto avesse
aperto un lucchetto nella mia mente.
Quella
stanza l’avevo già visitata.
“Dovevi
proprio fare la testa calda, eh?” Domandò una
bellissima ragazza, fasciandomi
la testa ferita.
Ero
seduto su quello stesso letto, all’esterno e stavo sorridendo
felice, come se
avere la sua attenzione mi sollevasse.
“Lo
sai che sono fatto così… non è colpa
mia.” Avevo risposto facendo l’occhiolino.
La
sua risata argentina mi scaldò il cuore e i suoi occhi di
ghiaccio si
illuminarono, come un fuoco che si rifletteva sulla neve.
Mi
ripresi, rendendomi conto che quei miei ricordi non
appartenevano a me. Era, però, un ricordo bellissimo.
L’uomo che prima mi aveva
parlato era sparito, probabilmente se n’era andato passando
dalla porta su cui
era appoggiato poco prima, ma a me non interessava. Ero stufo di
starmene a
letto, così, dopo un po’, provai ad alzarmi.
Nonostante il dolore forte e il
martellare alla testa, riuscii a reggermi.
Provai
a fare qualche passo.
Riuscivo
a camminare.
Ero
curioso di vedere dove mi trovassi, così mi affacciai
alla finestra e osservai il panorama. Era un’immensa
città in rovina. Un tempo
dovevano sorgere alti palazzi in marmo, bellissimi. Le mura dovevano
essere
colossali, date le dimensioni dei basamenti, ma non erano rimaste altro
che
macerie. Fu una strana sensazione: il mio cuore si fece pesante e
sentii una
profonda tristezza. Mi sentivo come se avessi fallito in un compito che
riguardava quel posto, ma non ricordavo cosa. Immagini della
città all’epoca
del suo antico splendore mi danzarono davanti agli occhi per un attimo:
un
mercato nella piazza, dove i bambini giocavano allegri, una specie di
enorme
anfiteatro dove la gente si radunava, delle per riunirsi e
chiacchierare, un
teatro.
Ma
non c’erano altro che macerie.
E
questo mi rendeva triste… ma anche furioso.
Fu
come se mi avessero iniettato dell’adrenalina: il mio
corpo fu invaso da una scarica di energia e, finalmente, riuscii a
ragionare in
modo coerente. Volevo sapere cosa mi stava succedendo e
l’unica risposta a
portata di mano era il misterioso tizio che mi aveva salvato. Inoltre
avevo
fame e sete, quindi dovevo assolutamente trovare qualcosa da mangiare.
Mi
vestii con un paio di pantaloni della tuta e una maglietta.
Le
riconoscevo: erano mie. A quanto pare quell’uomo aveva
preso i miei bagagli.
Una
volta vestitomi scesi le scale. Dovevo essere
nell’unico edificio intatto e qualcuno aveva cercato di dare,
persino, delle
rifiniture moderne: nei muri di pietra si aprivano delle prese
elettriche e in
alcuni punti sembrava, persino, essere stata operata una
ristrutturazione,
anche se incompleta.
Scesi
e seguii il corridoio seguente, sbirciando dalle
finestre che si apriva sul lato destro, la città.
All’esterno vedevo della
neve, quindi, o ci trovavamo al polo o su una montagna. Mi chiesi come
mai,
allora, ci fosse una temperatura così mite.
In
fondo al corridoio c’era un atrio che dava sulla pazza
esterna. Eravamo davvero nell’unico edificio intatto del
posto. La stanza era
circolare, con una cupola a volta e con un arredamento che ricordava
una sala
d’attesa, con delle poltrone ed un divano. Le pareti erano,
però, spoglie anche
se un tempo dovevano ospitare dei quadri.
Seduta
lì, su una delle poltrone, c’era la ragazza che i
mostri avevano rapito. Appena i miei occhi incontrarono i suoi il suo
viso e
quello della fanciulla della mia visione si sovrapposero e il mio cuore
iniziò
a battere forte.
‘Calmati.’
Mi
dissi, distogliendo lo sguardo. ‘Non
c’entra nulla, probabilmente è la prima volta che
vi vedete, è solo un caso.’
Decisi,
così di tentare un approccio amichevole.
Dopotutto anche lei era stata intrappolata in quel vicolo, magari
potevo
chiederle come stava e dimostrarmi un po’ sensibile.
“Ciao.”
Sussurrai, laconico, incapace di schiudermi in un
sorriso.
“Ciao…”
Anche
lei era di poche parole. Continuava a tenere gli
occhi fissi verso un portone posto dall’altra parte rispetto
all’uscita.
Probabilmente, da lì, si accedeva alla sala principale del
palazzo.
“Come
stai?” Chiesi, allora, cercando di assumere un tono
amichevole. “Ieri sera ce la siamo vista brutta.”
Questa
volta si voltò verso di me e mi puntò contro i
suoi penetranti occhi di ghiaccio. Era bellissima.
“Vero…
meno male che c’era quel tipo, se no dubito che
saremo qui a parlarne.” Rispose, stringendosi le spalle.
“Siamo
stati fortunati… comunque, io sono Alex, tu come
ti chiami?” Mi presentai, cercando di nascondere il mio
nervosismo. Anche solo
guardarla mi sembrava molto difficile, come se ne fossi attratto e,
allo stesso
tempo, qualcosa di lei mi respingesse.
“Diane.”
Disse subito la ragazza, ricadendo, subito,
nell’ennesimo silenzio imbarazzante.
“Sei
di poche parole, vedo.” Commentai, restio ad
abbandonare una conversazione con lei. Per la prima volta nella mia
vita, mi
sentivo deciso a dimostrarmi un po’ più vicino a
qualcuno.
“Già…
sai, io preferisco restare sola. Non sono abituata
a socializzare.” Aveva assunto un tono di scuse, e la cosa mi
dispiacque. Non
volevo metterla in imbarazzo.
“Benvenuta
nel club, allora. Nemmeno io sono bravo a
socializzare. Se vuoi ti do la tessera.” Risposi, con un
sorriso per
rassicurarla. Lei
ricambiò finalmente
rilassata, sembrava cercare di mantenere le preoccupazioni e i problemi
dentro
di se.
“Magari
passo.” Rispose, sistemandosi un po’ meglio sul
divano.
Cadde
un attimo di silenzio imbarazzante. Lei non aveva
detto nulla e io, ovviamente, non ero abbastanza spiritoso da
intavolare una
conversazione decente, ma tentai comunque.
“Hai
idea di come siamo arrivati qui da New York?”
Domandai. Magari lei l’aveva visto ed ero curioso.
“No.”
Fu la rapida risposta. Sembrava timorosa, come se
avesse paura. “Non so come dirtelo, senza che tu mi prenda
per pazza.” Ammise,
infine.
“Non
preoccuparti… il vecchio mi aveva accennato al fatto
di non essere l’unico coinvolto in questa dannata
storia.” La rassicurai,
sedendomi accanto a lei.
Lei
si strinse di nuovo le spalle: “Non credo di essere
coinvolta… io non c’entro niente, qui.”
“Allora
perché sei qui?... scusa se
lo dico, ma il tizio ha detto che questo posto è per
‘quelli come me’.” Risposi
io, senza pensare. Troppo tardi, mi resi conto di aver sbagliato a
parlare in
quel modo. Avrei voluto mordermi la lingua.
“Io…
io non lo so! Quel tipo è
apparso dal nulla e mi ha detto di seguirlo! Cosa dovevo fare!? Restare
a casa
e rischiare di essere aggredita di nuovo da quegli esseri!?”
Sbottò
nervosamente, arrossendo un po’, forse per
l’imbarazzo, forse per la rabbia. Io
provai a calmarla, ma ormai aveva preso la via. Si alzò in
piedi e continuò
urlando. “Scusami tanto se non son all’altezza!
Provvedo a rimediare!”
Mi
detti dello stupido, mentre lei
si avviava verso l’uscita. Non volevo dire quello, mi ero
spiegato male, ma
ovviamente dovevo fare brutta figura.
“Aspetta!
Femrati! Non volevo dire
questo! Solo che… ah… perché non tengo
la bocca chiusa, a volte?” Bascicai in
imbarazzo. Ecco il motivo per cui non mi piaceva socializzare: non
sapevo
controllare le mie parole.
Diane,
però, sembrò calmarsi e alzò un
sopracciglio dubbiosa.
“Volevo
dire... ecco, immaginavo che tu ne sapessi più di me, visto
che sei
arrivata qui intera.” Tentai di nuovo, misurando bene le mie
parole.
“Bè,
mi dispiace deluderti ma ne so quanto te, probabilmente
meno.” Rispose
lei tornando calma in un attimo. Le ero grato per avermi compreso
così
velocemente e per non essersi offesa troppo. Non sapevo
perché, ma ci tenevo a
lei e volevo averla amica. Forse per il fatto che avevamo condiviso
quella
brutta esperienza insieme.
“Va
bene... scusami se mi sono spiegato male... quando apro bocca faccio
sempre casino.” Spiegai io rilassato, riconducendola al
divano, dove ci sedemmo
comodamente.
“Comunque,
grazie per quello che hai fatto ieri. è stato molto
coraggioso.”
Si congratulò lei. Sembrava sul punto di esplodere, come se
le emozioni la
travolgessero, senza, però, rompere la barriera della sua
impassibilità.
Mi
sentii arrossire fino alla punta dei capelli mentre farfugliavo una
risposta: “Ho... agito di istinto, probabilmente ti ho messo
più in pericolo
che altro... sono fatto così, non riesco a trattenere le
emozioni.”
“Ci
hai provato, almeno. Io non sono stata molto d'aiuto...”
Diane sembrava
triste e si mise a guardare il pavimento come se volesse essere
inghiottita da
esso.
“Sinceramente...
non so nemmeno io come ho fatto... quei tipi avevano una forza
strabilianti...
all'improvviso mi sono arrabbiato ... puff... ce l'avevo anche io.
Probabilmente non avrei fatto molto nemmeno io.” Cercai di
tranquillizzarla io.
Non era colpa di nessuno se quelle creature erano così forti
e lei aveva
tentato di aiutare, ma non era riuscita a fare molto.
“Chissà,
forse l'adrenalina.” Ipotizzò lei, dandomi una
gomitata. Aveva un
sorriso triste, ma anche speranzoso.
“Allora
ringrazio la mia adrenalina... e anche il
tizio che ci ha salvati.” Feci io, dandole una pacca sulla
spalla.
In
quel momento il portone si aprii e l’uomo che ci aveva
salvati ci fece
cenno di seguirlo. Oltre il portone che portava all’interno
seguimmo un lungo
corridoio. Inciso: sembrava una storia incisa che partiva da un uovo da
cui
usciva un cucciolo di drago. Accanto a lui un bambino umano e un
angioletto. La
storia proseguiva, mostrano la città nella sua
più antica bellezza. Il motivo
del drago rimaneva sempre persistente, intenti ad aiutare gli uomini a
muovere
i loro primi passi, fino a creare quel posto con il quale condividevano
il
territorio.
Nell’ultima
parte, però, le immagini cambiavano: vedevo angeli che
combattevano contro gli umani, bruciando edifici e uccidendo le
persone.
Dall’altra parte i draghi e un esercito di uomini li tenevano
a bada con fiamme
e frecce.
Ebbi
un fremito di rabbia e la mia mente fu travolta da dei ricordi, simili
ai sogni che facevo. Era come se io stessi combattendo in quella
guerra. Per un
attimo vidi il cielo tinto di rosso, come se fosse invaso dalle fiamme.
Una
voce mi urlava a fianco di stare attento e poi mi vidi con in mano una
spada.
Stavo per colpire un mostro non diverso da quello che avevo combattuto
nel
vicolo.
Il
flash durò solo un attimo, ma, quando mi voltai verso Diane,
mi resi
conto che anche lei ne doveva aver avuto uno. Alla fine del corridoio
c’era una
porta d’oro incisa, con raffigurati sopra otto guerrieri
inginocchiati che
tenevano in mano delle gemme che sembravano emanare luce. Come per
istinto, io
misi mano alla gemma che tenevo come ricordo di mia madre.
Era
lì. La stava tenendo in mano un guerriero giovane, in prima
linea.
Il
vecchio aprì i battenti e ci ritrovammo in una grande stanza
circolare,
dove si trovavano otto troni vuoti. Erano tutti diversi e sembravano
tutti
fatti a posta per rappresentare un elemento: uno sembrava fatto con
delle
incisioni che rappresentavano le fiamme, uno era fatto completamente di
ferro e
così via. Era illuminata dal sole mattutino che filtrava da
una finestra
davanti a loro.
“È
il momento di spiegare.” Annunciò il vecchio,
sedendosi su una poltrona
affiancata ad un trono fatto completamente di vetro che sembrava
emanare luce
propria.
“Era
ora…” Commentai asciutto. Era per quello che mi
ero alzato, pur
essendo ancora ferito.
“Ciò
che vi dirò… sarà difficile da
accettare.” Cominciò lui, ignorando il
mio commento. “Voi dovrete ascoltare e cercare di capirmi,
perché so che, in
fondo al cuore, voi lo sapete già.”
Io
e Diane ci guardammo spaesati. Sembrava assurdo, eppure quel posto era
così familiare. Il mio sguardo si posò sul trono
del fuoco.
Annuii.
“Molto
bene… avete visto ciò che è inciso nei
nel corridoio, vero?”
Annuimmo
insieme.
“Bene…
ciò che avete visto non è una
leggenda… molte cose che avete visto
fin ora non lo sono. Esse sono storia. Un tempo questa città
era fiorente, e i
draghi, gli esseri della leggenda che più vi affascinano,
erano esistenti. Essa
era governata dalle incarnazioni di otto draghi, ognuno signore di un
elemento.
Del fuoco, dell’acqua, della terra, dell’aria,
della luce, dell’oscurità, del
fulmine e del metallo.”
Ok,
quel tipo era pazzo, ma dopotutto ci stava raccontando solo una storia
fantastica,
tipo i libri che amavo io. Che c’era di male? Decisi di
lasciarlo vaneggiare.
“Millenni
fa, però, gli alati… le creature che voi chiamate
angeli,
decisero di scavalcare i draghi per distruggere ogni cosa e prendersi
il mondo
per se. I draghi cercarono di respingerli, ma essi fallirono e, infine,
furono
costretti ad un’alleanza. Otto uomini si riunirono sotto la
loro protezione e i
signori degli otto elementi dettero loro il potere per riunire la forza
dei
draghi e degli uomini, sacrificando il loro spirito. Essi morirono, ma
il loro
spirito visse negli uomini… sconfissero il Signore degli
Alati e lo esiliarono.
Voi sietele loro reincarnazioni.”
Scoppiai
a ridere: quel tipo doveva essere pazzo davvero. Diane, invece,
sembrava solo accigliata, come se le avessero dato il risultato di
un’equazione
che non riusciva a risolvere, ma non fosse quello che si aspettava.
L’uomo,
non reagì, mi guardò negli occhi, come per
leggermi dentro l’anima.
“Dimmi,
Alex… come spieghi quello che ti è accaduto
ieri?”
Non
mi piaceva il modo in cui aveva detto il mio nome. Cercai di rispondere
in modo deciso, ma qualcosa mi fermò.
I
ricordi…
I
sogni…
Le
sensazioni…
Tutto
in quel posto sembrava confermare quanto aveva detto quel vecchio.
Eppure la parte più razionale della mia mente si rifiutava
di accettarlo. Erano
solo stupidaggini, come gli inizi dei film che mi piacevano, ma erano
pur
sempre libri. Storie scaturite dalla fantasia di una persona.
Scossi
la testa: “Perché dovrebbe essere vero?
Perché dovrei crederle!?”
Lui
mi osservò mortalmente calmo: “Sei proprio come
Dart… e ti dirò quello
che ho detto a lui: se non mi credi, allora vedrai il tuo mondo
sparire.”
Ebbi
un flash.
Quello
stesso uomo, che mi diceva quelle stesse esatte parole, era in piedi
davanti a me. Mi porgeva il ciondolo di mia madre: la pietra rossa
circolare.
Il
flash finì.
Lo
guardai negli occhi.
Gli
credetti.