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Autore: BlackLuna    06/02/2014    0 recensioni
Anne Kuspe è una bambina di sei anni che, nel 1995, scopre un segreto a lungo taciuto all'interno della sua famiglia: suo nonno , una SS che, durante la guerra, ha servito con fedeltà la causa nazionalsocialista, e per tale ragione è disprezzato dal figlio, un uomo travolto dalla Ostalgie dopo la caduta del Muro di Berlino e la fine della DDR.
Genere: Drammatico, Guerra | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: Tematiche delicate
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CAPITOLO UNO
 
La vecchia Trabant viaggiava a ritmo regolare sulla strada asfaltata di recente, dando appena un lieve scossone quando incontrava qualche buca creatasi a causa delle forti piogge autunnali. Peter Kuspe aveva ricevuto quella macchina una decina di anni prima, dopo che la precedente aveva smesso di funzionare, Una mattina del 1982, quando Peter aveva trentasette anni, il vecchio catorcio si era rifiutato di accendersi, e, più tardi, dopo una lavata di capo proverbiale a causa del ritardo da parte del capo della fabbrica in cui Peter lavorava come addetto alle vendite, il meccanico ne aveva decretato il decesso dando una leggera pacca sulla spalla a Peter. Per circa un anno il povero uomo aveva dovuto contare solo sui mezzi pubblici, scarsi in quel piccolo borgo della Germania dell’est, aspettando, e sperando, che la Trabant che aveva ordinato arrivasse il prima possibile, anche se sapeva, tramite esperienze di amici e conoscenti, che questo poteva significare aspettare molto piu’ a lungo del previsto. Comunque, forse con più fortuna dei suoi amici, nel giro di un anno Peter Kuspe guidava la sua nuova Trabant fiammante, e per questa attesa relativamente breve se comparata a quella delle altre vittime della VEB Sachsenring Automobilwerke Zwickau, egli si convinse che quella macchina doveva essere nata fortunata, per cui aveva deciso che non si sarebbe separato da questo prodigio fino a che non fosse stato necessario darne una degna sepoltura.
Anne sobbalzo’ insieme alla macchina e al resto della famiglia quando una ruota passo’ dritta dentro una buca di dimensioni ragguardevoli posta proprio al centro della strada. “Prima del ’89 le strade non si sgretolavano per una lieve pioggerella!” esclamo’ Peter. Sua moglie Lidia sbuffo’. “Se stiamo a sentire te, tutto era meglio prima del ’89, anche l’aria.” gli fece notare annoiata. Peter era uno di quelli che normalmente si definiscono come sofferenti della “Ostalgie”, la nostalgia della Repubblica Democratica Tedesca. Convinto socialista e fedele al partito, al quale si era iscritto con entusiasmo non appena era stato abbastanza grande per farlo, Peter aveva vissuto la caduta del muro e la riunificazione della Germania come un duro colpo. Sosteneva che essere assoggettati al capitalismo americano era decisamente peggio di essere assoggettati alla società comunista di Stalin. Spesso si perdeva in racconti nostalgici di come semplice fosse la vita nella RDT. Tutti avevano un lavoro, tutti erano utili alla società. “Ti svegliavi al mattino con la sicurezza di fare qualcosa di importante per il tuo mondo, tutto funzionava come una grande fabbrica, in cui ognuno ha il suo spazio, il proprio ruolo. Io, per esempio, lavoravo in una fabbrica di pezzi per gli impianti elettrici. Il mio ruolo era quello dell’ufficio vendite. Era una certezza, sapevo che facevo quello e che la mia attività, nel mio piccolo, era importante come quella di un rappresentante di Stato, perché contribuivo, esattamente come lui, al progredire della società. Si, e’ vero, forse a Berlino l’hanno vissuta peggio, ho sentito di qualcuno che e’ stato ucciso, ma di sicuro non erano che incidenti, assolutamente sporadici, avvenuti quando questi pazzi decidevano di avventurarsi dall’altra parte, per avere cosa poi? , perché a quelle persone questa vita stava stretta. Sciocchi! Derubare il proprio mondo di elementi utili, solo per sentire che gusto ha la Coca Cola. No, no, no. Io non ho mai neanche pensato anche solo per un secondo di andarmene da qua. Era la mia vita e ne ero contento.”
Quello che poi seguiva era il racconto di come, con l’espandersi del capitalismo, la fabbrica fosse poi stata chiusa, per favorirne una privatizzata a pochi chilometri di distanza, in cui gli era anche stato offerto un posto di lavoro, se non fosse stato per la cocciutaggine dell’uomo, che si era quindi lasciato sfuggire l’opportunità di rifarsi una vita, o almeno di mantenerne una simile alla precedente. Ora l’uomo lavorava come impiegato in un ufficio assicurativo con un nome pericolosamente inglese, e doveva solo ringraziare la sua attitudine alla vendita se era stato preso, dal momento che poco nulla sapeva di assicurazioni.
Anne era nata nel 1989, pochi mesi prima della caduta del muro di Berlino, e ovviamente non ricordava nulla di quel periodo, e avrebbe creduto ciecamente alle parole del padre non fosse stato per la madre, decisamente meno entusiasta della vita nella RTD e per niente afflitta da Ostalgie. Il suo parere nelle storie permetteva di farsi un quadro piu’ realistico della situazione, vedendone anche le ombre, e non solo la luce accecante di cui il padre raccontava con fervore ogni qualvolta qualcuno o qualcosa gli dava un appiglio per iniziare.
Ma, a sei anni, la bambina non capiva molto dei discorsi di uno o dell’altro, per cui quando parlava il padre si immaginava un grande palazzo lucente in cui suo papà era il re, ragion per cui lei avrebbe potuto essere una principessa, e il fatto che ora lui non lo fosse piu’ implicava che anche lei aveva perso il suo grado, e poche cose la innervosivano allo stesso modo. Ma poi le parole disilluse della madre le ricordavano che nelle cantine del palazzo c’erano anche dei ratti, e sembrava che ultimamente di ratti ce ne fossero talmente tanti che il re, la regina e lei, la principessa, avevano dovuto cambiare casa, e si erano trasferiti a Rödigerstraße, 5. Inoltre, le sembrava di aver capito che nel palazzo era caduto un muro, per cui era davvero impossibile continuare ad abitarci. Un pochino, pero’, Anne si sentiva in colpa di questo. Era strano come tutto quanto fosse cambiato proprio l’anno della sua nascita, e spesso temeva che forse era stata proprio colpa sua il fatto che il muro del palazzo fosse caduto, e che di conseguenza il padre fosse diventato triste. Ovviamente non era del tutto sicuro che fosse così, ma non escludeva nulla a priori. Avrebbe solo voluto nascere un anno prima o un anno dopo, nel 1988 o nel 1990, così da essere sicura che non aveva nessun legame con la tristezza del padre, ma, ahimè, non poteva fare miracoli e neppure magie, quindi sarebbe forse rimasta per sempre con il dubbio di aver fatto cadere lei il muro tanto importante per suo padre, con i suoi primi vagiti di neonata.
“Quando arriviamo dalla nonna?” chiese dopo che i genitori avevano finito di battibeccare sul come fossero o meno le strade prima della sua nascita. Sapeva che mancavano circa cinque minuti alla casa della nonna, aveva visto il grande albero colpito dal fulmine, che d’estate spiccava tra gli altri perché era l’unico senza foglie, e sapeva che era a pochi chilometri dalla casa bianca della nonna. Aveva domandato solo per rompere il silenzio che si era creato in quella macchina, tipico lascito delle discussioni dei genitori, fossero queste sul muro di Berlino o meno, e Anne non amava sentire il peso di quel silenzio, e ancora meno le piaceva che questo accadesse il macchina, perché il rumore del motore della Trabant era l’unica cosa che si sentiva, e sembrava prenderli in giro e canzonarli, come a dire “Toh, io non conosco muri né palazzi, non so di fabbriche paradisiache dove tutti lavoravano con il sorriso sul volto, e quindi io continuo a borbottare, mentre voi continuate a tenervi il muso per come sono andate le cose, come se questo potesse cambiarle.” In quei momenti, Anne odiava la Trabant.
“Allora, quando arriviamo?” chiese ancora, visto che la prima volta la domanda era stata ignorata da entrambe i genitori.
“Ci siamo quasi, Anne, abbi pazienza ancora un attimo.” le disse la madre nascondendo un cipiglio nervoso dietro ad un tono zuccheroso.
Di nuovo la Trabant riprese a borbottare canzonandoli nel loro silenzio, ( “Brava, Anne, ci hai provato, ma sta volta ho vinto io”). Per fortuna la vittoria della macchina fu breve, dal momento che dopo pochi minuti, come avevano predetto la mamma e il vecchio albero colpito dal fulmine, Peter Kuspe mise la freccia per svoltare a sinistra. Imboccò una strada più piccola e che necessitava di una nuova asfaltatura già da qualche anno a questa parte. Boschi di conifere la costeggiavano, stagliandosi verdi contro il cielo grigio autunnale, e arrivavano fino al cancello nero di ferro battuto che torreggiava all’entrata del giardino della casa della nonna.
“Abbottonati la giacca e tirati su il cappuccio, sta ricominciando a piovere” la avvertì Lidia mentre Peter rallentava. Anne ubbidì tirandosi la giacca fin sopra il naso, anche se sapeva che non faceva così freddo da doversi imbacuccare come il giorno di Natale. Ma sua madre era una donna apprensiva, soprattutto per quello che riguardava la salute della bambina.
Il cancello nero era stato aperto per la Trabant, così che Peter non dovette fermarsi, e vi passo’ semplicemente attraverso, andandosi a parcheggiare il più vicino possibile all’entrata della casa.
La casa della nonna era una casa di discrete dimensioni, su due piani. Aveva moltissime finestre che facevano entrare quanta più luce possibile, ed era di un biancore candido che sembrava sprezzante del tempo che passava e tentava di renderlo vecchio, per cui ad Anne piaceva molto, perché le ricordava la casa delle Barbie che aveva visto a casa di una sua amica. Aveva pianto tutte le lacrime di cui disponeva per farsi comprare quella casa per il compleanno, ma erano state vane, così come quelle versate in vista di Natale, ma anche in quell’occasione Babbo Natale aveva fatto il taccagno, portandole una bambola che piangeva se le veniva tolto il ciuccio. Decisamente non all’altezza della casa per le Barbie.
Sulla soglia della pesante porta di legno chiaro c’era la nonna, Gretel Kuspe, una settantaquattrenne in forma. Nel suo portamento si potevano vedere i segni di un passato in una famiglia borghese, nei suoi capelli una spilla d’argento a forma di rosa suggeriva un lavoro ben pagato. La nonna non aveva mai tentato di nascondere la propria età dietro trucco pesante e tinte per i capelli. Portava, invece, i segni del tempo con orgoglio e dignità, curandosi con una crema per la notte, una per il giorno, un velo di rossetto e uno chignon di soffici capelli grigi ben stretto sulla nuca. A conoscerla superficialmente poteva sembrare una donna fredda, perennemente imbronciata a causa di una bocca la cui linea dura dava un’aria arrabbiata a tutto il viso. Gli occhi erano, però, molto dolci, anche se velati da un accenno di tristezza. Ora se ne stava ritta e impettita sulla soglia, ma non appena vide la bambina correre verso di lei, la sua freddezza si sciolse in un sorriso e aprì le braccia per salutarla.
“Nonna Gretel!” esclamò Anne buttandosi tra le sue braccia. La donna strinse forte a sé la bambina e le baciò una guancia arrossata dalla corsa, e dal calore del giaccone invernale.
“Anne, come sono felice di rivederti! Tuo papà si è comportato bene negli ultimi tempi?” le chiese giocosamente, sapendo che alla bambina piaceva fare la parte della maestra che racconta ai genitori il comportamento dei figli durante le ore di scuola. La bambina si allontanò un poco dalla nonna per guardarla bene in volto.
“Si” disse mettendosi le mani sui fianchi “però è un gran borbottone! Si lamenta sempre di tutto, anche delle strade!”
La nonna aveva adottato questo metodo per venire a sapere come effettivamente stava suo figlio, dal momento che non si era mai aperto molto con lei, e sapeva che la sua espressione impenetrabile era molto meno affidabile dei racconti distorti di una bambina di sei anni. Ora assunse uno sguardo severo e cercò di capire cosa poteva rendere insoddisfatto Peter.
“Davvero? Che briccone! E di cosa si è lamentato questa volta?” con mano lesta aprì un poco la chiusura lampo del giubbotto, almeno per fare emergere la bocca della bambina, il tutto prima che la nuora se ne accorgesse.
“Dice che non c’erano i buchi nelle strade prima!”
Peter raggiunse la figlioletta prima che Gretel potesse indagare su cosa intendesse con quel ‘prima’, e bloccò quella che avrebbe potuto tramutarsi in una discussione fastidiosa sul nascere. “E’ un metodo subdolo, mamma, te l’ho già detto.” le fece notare, e Gretel fece una finta espressione colpevole. “Se tu non mi dici niente, io dovrò pure avere degli informatori!” si giustificò.  Il quartetto si salutò e baciò, poi decisero di entrare in casa, e chiusero la giornata uggiosa fuori dalla porta d’ingesso.
Se fuori la casa della nonna poteva apparire sontuosa, dentro non era certo da meno. Tende di velluto erano appese alle finestre dei corridoi e delle camere da letto, mentre quelle delle altre stanze erano più leggere e seguivano una fantasia floreale che cambiava colore di stanza in stanza. I mobili erano quasi tutti d’epoca, di scuro legno massiccio e finemente lavorati, su di essi erano esposte in bella mostra molte fotografie che ritraevano la famiglia da quando Gretel e il marito erano piccoli, e molte foto dal dopoguerra. Ce n’erano moltissime anche di Peter, alcune decisamente imbarazzanti, ma che Gretel non avrebbe spostato di un centimetro nonostante il chiasso e le lamentele del figlio, per il semplice motivo che erano sempre state li. Vicino ad esse c’erano spesso soprammobili raffiguranti gli soggetti più svariati, alcuni souvenir portati da parenti e amici, altri comprati da Gretel stessa durante le varie gite e vacanze. Era un’amante dei viaggi all’estero, e soprattutto dei souvenir. Anche se visitava la piu’ piccola delle città, le piaceva portarsi dietro un ricordo di quella giornata e di quel luogo perché la “aiutavano a ricordare ogni particolare del passato”. Le miriadi di fotografie avevano la stessa funzione, così come tutti quei mobili fuori moda. Era attaccata ad ognuno di quegli oggetti, che per le altre persone non erano che cianfrusaglie, in un modo quasi morboso, e nei lunghi pomeriggi solitari non era raro trovarla intenta a rimirare ogni foto e a pulirla con un panno antistatico con un’amorevolezza comprensibile a pochi.
Anche Anne era attirata da tutti quegli oggetti, e spesso trotterellava per la casa alla ricerca di foto e soprammobili mai visti, e poi si divertiva a farsi raccontare la storia che c’era dietro ad ognuno di quegli oggetti, fosse questo una fotografia o un fermacapelli, e la ascoltava attentamente come se stesse guardando un film.
Fu proprio questa sua abitudine di curiosare in giro che portò Anne Kuspe a scoprire la storia più straordinaria ed entusiasmante che avesse mai sentito raccontare dalla nonna. Una storia che mai aveva avuto né ebbe pari in futuro, perché quello che venne a sapere non era solo il ricordo di un pomeriggio allegro passato in compagnia di amici, o di Peter Kuspe quando ancora questi non sapeva camminare. Quel giorno dell’ottobre 1995 Anne Kuspe scoprì la verità, e per molti anni avrebbe ricordato quel giorno con un’emozione incomparabile.
Ma questo Anne non lo sapeva ancora, e per il momento si limitava a dare forchettate annoiate agli spinaci senza che questi avessero la minima intenzione di sparirle dal piatto. I genitori e la nonna stavano conversando di argomenti fuori dalla portata di una bambina di sei anni, e quindi lei stava pensando agli affari suoi per conto suo. Quando decretò di aver pensato abbastanza (e gli spinaci erano diventati troppo freddi per poter essere mandati giù anche di forza), Anne prese parola. “Devo andare al bagno”.
La madre si distrasse dai discorsi importanti e da grandi che stava facendo per acconsentire a lasciarla alzarsi dal tavolo con un gesto d’assenso della mano. Anne scivolò giù dalla sedia e si diresse trotterellando fuori dalla sala da pranzo. Negli anni aveva affinato la sua tecnica di fuga dal tavolo, decretando che un “non ho più fame” oppure un “non mi piace”, per non parlare del famigerato “non ne voglio più”, non erano metodi efficaci per raggiungere i suoi scopi in fretta ed evitando una sgridata dal padre, dalla madre o dalla nonna stessa. No, anni di tentativi le avevano insegnato che chiedere di andare in bagno era la tecnica più efficace per svignarsela evitando questioni noiose e perditempo. Inoltre, quella scusa le dava un ampio margine di tempo per gironzolare un po’ per la casa della nonna prima di essere ripescata e riportata di peso al tavolo per finire gli avanzi di verdura abbandonati nel piatto.
Anne colse quindi l’occasione e cominciò il suo giro di perlustrazione dal piano superiore, che sarebbe stato l’ultimo ad essere visionato nel caso i genitori si fossero accorti degli spinaci rimasti, e che offriva più possibilità di svago e avventura, dal momento che comprendeva le camere da letto, in cui si trovavano foto e ninnoli nascosti ad un’occhiata superficiale per le stanze non private della casa.  
Trotterellando sulla moquette, Anne arrivò a quella che era stata la camera del padre. C’era un letto ad una piazza, un armadio e la bandiera della Germania con un simbolo che Anne non comprendeva, ma che le ricordava molto il compasso che utilizzava a scuola. Sotto, il padre aveva appeso uno striscione rosso con la scritta “Wir sind das Volk”[1] in nero, con le parole “wir” e “Volk” scritte tutte in maiuscolo. Sui vari scaffali c’erano libri di scuola e non. Quello più accessibile era un libricino abbastanza sottile, di quelle che Anne riconobbe come poesie. Anne aprì il libro dove c’era un’orecchia fatta dal giovane Peter, e vi trovò una poesia datata 1962, che un diciassettenne Peter Kuspe aveva cerchiato con una penna, e il segno era stato affiancato da un marcato punto esclamativo. Siccome sembrava che per il padre quella poesia avesse un significato particolare, Anne decise di provare a leggerla. Il testo, di un certo Volker Braun[2] di cui Anne non aveva mai sentito parlare prima di allora, citava così:
 
 
 
 
ISTANZA
 
Non veniteci con le cose pronte. Abbiamo bisogno di semilavorati.
Via il capriolo arrosto-qua con bosco e coltello.
Qui vige l’esperimento e non la rigida routine.
Gridate i vostri desideri: saranno il festino della vita.
Tra i continenti, verso ogni riva
Tende i muscoli il mare delle nostre attese
su ogni costa battono la risacca le sue dita
sul taglio della riva alza e spezza le onde
sempre alza la marea e la disperde
 
Per noi niente ricette, signore.
La vita, mister, non e’ più un libro illustrato né un difficile spartito, damigella
Qui viene imposto da subito il pensare. Via dalle poltrone,
giovanotti. Una branda da campo e io sono a posto.
Non così solenne, compagno, il pensiero esige fronti serene!
Chi mai rimpiange qui le mostrine guglielmine?
Le nostre spalle reggono un cielo pieno di stelle.
 
Qui stiamo scavando terra nuova e ritagliando nuovo cielo-
Qui lo Stato è di chi inizia, è semilavorato vita natural durante.
Gridate i vostri desideri: su tutte le rive
Batte il flutto delle vostre aspettative!
Ciò che ti urta al polpaccio, uomo, la risacca fragorosa:
sono i nostri mignoli che anticipano un frammento
di futuro, giocando.
 
(V.Braun)
 
Terminata la lettura, Anne era decisamente confusa, e non sapeva se quello che aveva appena letto le era piaciuto o meno. Credeva di aveva capito che c’era qualcuno che voleva fare qualcosa, esattamente non le era chiaro cosa, ma sembrava che alla base del testo di fosse un qualche fermento verso l’agire. Se fosse stata più grande avrebbe riconosciuto in quei versi una delle poesie più appassionate e piene di speranza ed entusiasmo dell’autore. Un giovane, all’epoca della stesura di qualche anno più vecchio di Peter Kuspe, che, entusiasta della RDT, lanciava un messaggio di azione alla sua generazione, di laboriosità, di entusiasmo della nuova società di cui si ritrovavano a far parte, e di cui dovevano essere ben orgogliosi. Peter Kuspe, almeno, lo era.
Ovviamente questo non poteva essere compreso da una bambina di sei anni, che, rimasta estremamente delusa per non aver capito la poesia (e per averla trovata anche alquanto noiosa, a dirla tutta), chiuse il libro e lo rimise a posto. Vagò ancora per qualche minuto nella stanza dalle pareti blu, senza trovare nulla di interessante ai suoi occhi, se non foto già viste, testimonianze dell’impegno ed entusiasmo politico del padre, che lei battezzò “roba noiosa di papà”, e giochi per maschi che non la intrattenerono per più di dieci minuti scarsi.
Abbandonata l’esplorazione in camera del padre, Anne prese a girovagare per il corridoio, cercando di aprire cassetti di mobiletti messi lungo di esso, ma che non rivelarono mai niente di entusiasmate. Anche il bagno non fu di grande aiuto: la collezione di trucchi della nonna comprendeva uno smalto, qualche crema e un rossetto, che Anne provò lanciando baci ad ammiratori immaginari, ma che la stufò ben presto.
Sbuffando, Anne rimise tutto a posto ed uscì dal bagno. Stava per tornare di sotto per chiedere di guardare la tele, quando si ricordò di non avere ispezionato una stanza, quella che, per altro, aveva la più alta probabilità di contenere segreti: la camera da letto della nonna. Sapeva che questa l’aveva più volte ammonita, dicendole di non curiosare in camera sua, più che altro per paura che la bambina ingerisse qualche pastiglia lasciata sul comodino credendo che si trattasse di una caramella. C’è da dire che Anne, essendo un’esperta di questo ultimo genere alimentare, sapeva riconoscerle perfettamente, e mai avrebbe ingoiato un blister di Valium per sbaglio. Quindi Anne si diresse verso la porta della camera da letto della nonna e la aprì piano per non fare rumore.
La stanza era ricoperta da carta da parati giallo tenue e decorata con motivi astratti e barocchi. Il letto si trovava proprio di fronte alla porta di ingresso ed era semplice, con la testiera e la struttura di ferro lavorato, con una fantasia che ricordava, nello stile, la carta da parati. Era un letto a due piazze ma non c’era posto per due persone. Infatti, i cuscini erano posizionati al centro, dando l’idea di una persona abituata a dormire da sola. Su un lato della stanza c’era una grande finestra che però era in parte coperta da una spessa tenda di velluto di colore scuro, che dava alla stanza un’aria lugubre, quasi triste, in contrasto con il resto della casa. Come se quella stanza fosse l’unico posto dove la nonna poteva mostrarsi davvero. Una cassettiera vicino alla porta, un bauletto ai piedi del letto, un armadio per i vestiti e un separé che nascondeva l’occorrente per la tolettatura erano gli unici addobbi di quella stanza.
Anne richiuse la porta dietro di sé e si avvicinò al letto. Era morbido e comodo, per cui Anne rimase seduta per un po’. Era già stata in quella stanza altre volte, e quello che la sorprendeva era la totale assenza di fotografie e soprammobili. Non c’era nulla, solo un vaso con dei fiori finti. Evidentemente la nonna doveva nascondere le proprie cose in maniera meticolosa, per cui, in maniera altrettanto meticolosa, incominciò la ricerca della bambina,
Guardò nell’armadio e vi trovò dei vestiti vecchi, che non aveva mai visto addosso alla nonna, insieme ad altri più nuovi e noti. Setacciò l’armadio ma non trovò nulla di interessante. Ripeté l’operazione per il baule (nutriva molte speranze in quest’ultimo, ma che furono deluse del tutto alla scoperta di romanzetti d’amore a buon prezzo). Anche la cassettiera fu passata in rassegna, anche se in modo sbrigativo, dal momento che conteneva anche le mutande della nonna, e Anne non voleva rischiare di essere colta in fragrante mentre esaminava un paio di mutandoni.
Guardò dietro il separé e giocò per un attimo a farsi il bagno con l’attrezzatura in ceramica bianca per la toletta. Guardò dietro le tende e sotto il letto, ma qui non trovò niente se non una serie di batuffoli di polvere che sembravano rincorrerla per la stanza, una volta uscita da la sotto.
Anne decretò la propria sconfitta e sedendosi sul letto cercò di pensare ancora una volta a dove potevano essere i segreti della nonna. Era impossibile che non ce ne fossero, quando la maggior parte era in esposta in bella mostra sui mobili di tutta la casa. Tutti avevano dei segreti in camera, lei aveva i disegni e i bigliettini che si scambiava a scuola con la sua amica del cuore. Aveva scoperto nel cassetto della mamma in bagno una serie di piccole boccettine di profumo, dei tester, che sapeva di non dover toccare o provare. Il papà, da quanto aveva scoperto, aveva delle poesie in camera, delle poesie cerchiate con un punto esclamativo vicino, che però Anne trovava molto più noiose dei profumi della mamma. Quindi anche la nonna doveva averne, da qualche parte.
Improvvisamente, si rese conto dell’unico posto che, seguendo l’ammonimento della nonna di non toccare le medicine, non aveva guardato: il cassetto del comodino. Si sentì profondamente sciocca. Quale posto migliore per nascondere qualcosa se non il comodino? Lei stessa ci teneva i bigliettini. Inoltre, era chiaro che li dovesse esserci qualcosa: altrimenti perché nonna le avrebbe detto di non toccarlo, usando la scusa delle pastiglie?
Con il cuore in gola, sentendosi solo come il primo uomo entrato in una piramide egizia potrebbe sentirsi, Anne aprì lentamente il cassetto, per non rovinarsi la sorpresa, e poi, quando questo fu completamente aperto, fece l’inventario di ciò che aveva davanti agli occhi: tre blister di pastiglie, una cartolina, una busta con delle lettere e delle fotografie tenute insieme da dello spago.
Anne per poco non svenne dall’emozione del suo ritrovamento! Scartò le pillole e si lanciò a capofitto sugli altri oggetti, indecisa su che cosa guardare per primo. Optò per la cartolina. Mostrava una città che non aveva mai visto, era in bianco e nero, e mostrava una ruota panoramica vista va varie angolazioni e altre parti di quello poteva sembrare un lunapark. Il retro era scritto con uno stile arzigogolato e raffinato, e diceva:
“Alle mie due bambine, Vienna è bellissima, addobbata con le bandiere del Reich sembra proprio fare parte della Germania. Mai giorno fu più felice, gli austriaci ci salutano per le strade e portano lo stemma del partito. Che questo sia solo l’inizio! Mi mancate,
 
Papà”
 
 
Una cartolina dal suo bisnonno! E da Vienna, per giunta! Non sapeva cosa fosse il Reich, ma, a giudicare dalle parole entusiaste scritte dall’uomo, doveva essere qualcosa di bellissimo.
Sempre più emozionata, Anne cominciò a sfogliare le lettere, ma ci rinunciò quasi subito a causa della scrittura troppo piccola e poco comprensibile della nonna e dell’altra persona, sempre la stessa, tranne che in isolati casi, con cui Gretel si scambiava una grande quantità di corrispondenza.
Le foto erano decisamente più interessanti e accessibili. Una rappresentava una donna giovane e bionda che sorrideva radiosa insieme ad un'altra ragazza, sempre bionda ma con i capelli più lunghi. Erano entrambe molto belle e si assomigliavano, in un certo senso. C’erano altre foto in cui compariva solo la ragazza con i capelli più lunghi, di cui una a braccetto con un uomo in una strana uniforme, decisamente più vecchio di lei, ma che la guardava con una tenerezza unica.
Altre foto mostravano un gruppo di ragazzi, con un’uniforme simile a quella appena vista, che facevano le cose più disparate, dal caricare dei fucili, al magiare, al dormire insieme su un prato, al giocare con degli animali. Una in particolare mostrava un uomo decisamente bello, con i capelli tirati indietro, una linea del naso dura, quasi freddo nei suoi lineamenti, ma con uno sguardo rasserenante mentre porgeva del cibo ad uno scoiattolo sul tavolo. Ad Anne quella foto piacque tantissimo, e rimase per un bel po’ a rimirarla. Quello che notò fu che l’uomo li raffigurato in primo piano era lo stesso che compariva nelle altre fotografie. Doveva essere quindi qualcuno che la nonna conosceva bene, per avere tutte quelle foto.
La bambina tornò di corsa alle lettere che aveva scartato perché difficili da decifrare, e si impegnò a leggere il nome del mittente su una lettera datata 12 Ottobre 1943. Quando lo decifrò balzò in piedi con il cuore in gola. Peter Kuspe. Suo padre.
Sua nonna si scambiava lettere con suo padre nel 1943? Non aveva senso. Suo padre era nato nel 1945, e decisamente non poteva essere lui il mittente delle lettere. E allora chi era Peter Kuspe? Era lo stesso uomo che compariva più volte nelle fotografie nascoste nel cassetto del comodino?
Anne aveva oramai deciso cosa fare. Fingere di non essere mai entrata in quella stanza era fuori questione. Doveva sapere di più di questo tizio che si spacciava per suo padre, e l’unico modo per scoprirlo era scendere con il bottino per chiederlo all’unica persona che poteva avere delle risposte: la nonna.

 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 

[1] “Noi siamo il Popolo”, slogan della RTD
[2] Poeta entusiasta della RTD, rimasto amaramente deluso dalla riunificazione della Germania
  
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