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Autore: M4RT1    06/02/2014    2 recensioni
Madge Undersee, una normale ragazza del Dodici.
Una quindicenne con le sue ansie, i suoi pensieri, le sue prime cotte.
Una quindicenne costretta a convivere con una spilla dorata che, costantemente, le ricorda gli Hunger Games.
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Storia partecipante al Contest a Turni "1 su 24 ce la FA!" indetto da Manufury :)
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Madge Undersee
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
- Questa storia fa parte della serie 'Tell me about... Madge Undersee'
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Ho sempre adorato il rosso. Quello del mio vestito, delle labbra di mia madre quando ero bambina, dei frutti rossi che mio padre recupera dalla mia migliore amica e da lui – lui, che ieri indossava una maglietta rosso fuoco.

Forse è perché qui, al Distretto Dodici, il rosso è un colore così raro. Soppiantato dal grigio, dal nero, dal fumo che investe le strade tutti i giorni. Soppiantato dal bianco lattiginoso delle vesciche sulle mani dei minatori e dal pallore dei volti in lacrime. L’unico rosso che conosciamo, qui al Dodici, è quello del sangue. Certo, ci sono anche i vestiti di Effie Trinket, la spocchiosa rappresentante di Capitol City che ogni anno viene a recuperare due adolescenti per portarli a morire. Ma quelle sono solo occasioni rare: quando la Capitale torna al suo posto, qui al Dodici tutto torna grigio.

 
Sono le cinque di un pomeriggio di fine Febbraio e tutto tace, giù al Distretto. Indosso una felpa di lana – calda, comoda – e ho i capelli raccolti in un mozzicone di treccia biondo sporco. E aspetto.

Aspetto lui.

So che ho quindici anni e che, in teoria, dovrei aver superato da un pezzo la fase della cotta da dodicenne che aspetta alla finestra per poi raccontare alla sua amica di essere stata guardata. Cioè, soltanto guardata. E so anche di non avere un’amica propensa ad accogliere le mie confidenze: Katniss è fredda, schiva, ma mi vuole bene. Io voglio bene a me. Ma, soprattutto, Gale ne vuole a lei. E spero che un giorno ne vorrà anche a me.

Ma, per ora, aspetto che mi porti le fragole.

Ogni settimana, a quest’ora, dalla posizione privilegiata che si ha vivendo nell’unica casa a due piani del Distretto, i miei occhi si preparano a cogliere ogni gesto, ogni espressione, ogni molecola del sedicenne che bussa alla porta di casa nostra e viene accolto da mio padre. Qualche volta, quando lui non c’è, sono io ad aprire la porta, e allora mi sento come se fossi vittima di un terremoto o di un freddo così intenso da farmi tremare tutta. E ogni volta spero che non si noti.

Rigiro tra le dita la spilla dorata, quella con su la figura di un uccello – una Ghiandaia Imitatrice. È un po’ come un portafortuna, per me, anche se non ne ho mai avuto bisogno. Non è rossa, ma le sue sfumature color oro hanno qualcosa di magnetico che attira il mio sguardo, facendomi perdere tra le pieghe dell’acciaio e le scalfitture del tempo. Oggi, il sole si riflette sulle ali e sul becco dell’uccello, costringendomi a socchiudere gli occhi.

Le mie dita si stringono sui bordi della spilla. Per un istante, mi ricordo della sua storia, del sangue che ha visto. Per un istante penso che anche lei è stata rossa, un tempo, sul petto di una mia coetanea morta trapassata dal becco di un uccello non troppo diverso da questo. Morta sola.

Poi il campanello suona, trillando.

Gli Hunger Games sembrano stranamente lontani.
  
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