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Autore: O n i c e    08/02/2014    3 recensioni
Regnava l’oscurità, ma non per lui. Regnava il silenzio, ma non per lei. Gli occhi e le orecchie della Setta erano lì, insieme.
«Non finirà oggi. Non per gli Assassini.» disse Altair con voce profonda.
«Ma per noi sì, vero?» si stupì nel sentire nuovamente la sua stessa voce.
«Conosci già la risposta». Le sollevò il cappuccio sorridendo mestamente.
La Mela. Essa li avrebbe distrutti, se già non l’aveva fatto.
Genere: Avventura, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Altaïr Ibn-La Ahad , Malik Al-Sayf , Nuovo personaggio
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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XV
In frantumi
 
 
 
Quant’era passato dal giorno dell’attacco dei Templari?
Nadirah non avrebbe saputo dirlo con esattezza. Da quando Altair l’aveva riportata alla fortezza, la ragazza non aveva messo piede fuori dalla nuova stanza adiacente all’infermeria in cui era stata relegata, sia perché il cerusico le aveva espressamente detto che non avrebbe potuto riprende in mano la spada per diverso tempo, a causa delle costole fratturate e la spalla slogata, sia perché lei personalmente non ne aveva per niente voglia. E così, passando giornate tutte uguali, aveva perso la cognizione del tempo.
Sbuffò coprendosi gli occhi con il braccio sano, disturbata dai raggi del sole che filtravano dalla finestra, mentre sentiva il torace dolerle a ogni respiro.
Era stata fortunata, le aveva detto Amani, a non aver riportato lesioni agli organi interni, e andava da lei ogni giorno ad accertarsi delle sue condizioni, così come facevano anche Kamila e Rasha, preoccupate per lei. Nadirah però non gradiva poi così tanto quelle visite, avrebbe volentieri preferito essere lasciata in pace a rimuginare sul suo passato. Già, perché da quando aveva confessato la sua colpa ad Altair, non passava istante in cui non le tornassero alla mente i ricordi di quella notte. Sentiva le suppliche della sua matrigna trasformarsi in urla nel momento in cui irrompevano i saraceni, un attimo dopo che lei si era macchiata le mani del sangue di suo fratello.
Da quella notte Virginia era morta con suo fratello. E sembrava di essere di nuovo in quel momento, come se lo stesse uccidendo un’altra volta, come se si stesse uccidendo un’altra volta.
Si passò entrambe le mani sul viso e scosse la testa. Non avrebbe mai dovuto esporsi così. Aveva sepolto il suo passato dietro un nome nuovo, come se Virginia non fosse mai esistita, così come la sua colpa. Ma sentire la sua stessa voce accusarla di fratricidio… aveva reso tutto reale, non l’incubo che lei s’illudeva che fosse.
Dolore, ecco quello che sentiva. Dolore che bruciava, straziava, corrodeva.
Un rumore di passi nel corridoio attirò la sua attenzione. Troppo leggeri per essere quelli di un uomo, ma troppo brevi e incerti per essere quelli di Kamila, che ormai aveva imparato a riconoscere. Cercò di immaginare chi potesse essere, sperando che chiunque fosse non si stesse dirigendo da lei.
Nadirah a fatica si girò su un fianco, ignorando il dolore al torace, e dando le spalle all’ingresso si tirò le lenzuola fin sulla testa.
I passi si bloccarono in corrispondenza della sua stanza.
Come non detto.
Sentì bussare alla porta ma non rispose, sperando che il suo silenzio facesse intendere che voleva restare sola.
Appunto.
Il suono si ripeté, seguito da una voce sottile. «Nadirah? Sono Delen… sei sveglia?»
Delen?
Nadirah sgranò gli occhi. Non aveva mai avuto uno stretto rapporto con quella ragazza, anzi, probabilmente era colei con cui parlava meno, le sere che si trovavano tutte insieme nella stanza circolare della Torre delle Grazie. Per questo rimase stupita nel sentire la sua voce.
«È aperto.» bofonchiò e, nonostante il tono, era sinceramente curiosa di sapere perché la giovane avesse deciso di farle visita.
Sentì il cigolio dei cardini della porta e i passi leggeri della ragazza avanzare nella stanza in penombra.
Nadirah si tirò su a fatica, mentre stringeva i denti e ignorava le fitte al costato. «Siediti pure.» la invitò cercando di essere gentile e indicando con un cenno uno sgabello lì vicino.
Delen annuì e si accomodò, silenziosa come un gatto. «Come ti senti?» le domandò la rossa congiungendo le mani in grembo.
Nadirah sollevò un sopracciglio. «Sei sicura di volerlo sapere davvero?» pronunciò con sarcasmo, facendo abbassare lo sguardo alla sua interlocutrice, e pentendosene poco dopo. «Perdonami, ignora la mia maleducazione.»
Delen assentì con un lieve sorriso sulle labbra. «Non preoccuparti, posso capire come ti senti…»
Oh, non credo proprio. Pensò lasciandosi sfuggire una risatina nervosa.
Nessuno avrebbe mai potuto capire. Nessuno avrebbe mai compreso l’inferno che le bruciava dentro.
«Sai, mi piacerebbe davvero che qualcuno capisse come sto in questo momento, ma non credo sia possibile.» disse socchiudendo malinconica gli occhi.
Delen le strinse amichevolmente il polso, per rassicurarla. «Anch’io sono finita prigioniera in un accampamento.»
Nadirah sorrise sinceramente, ma scosse la testa. «Non c’entra nulla questo, Delen. Non puoi comprendere, dico davvero». Tacque un istante prima di scompigliarsi con una mano i capelli e riprendere, «però grazie.» concluse.
«Non comprendo la causa, ma sembra che i tuoi occhi abbiano visto Hel1
«Come?» domandò sconcertata Nadirah.
La rossa si apprestò a spiegare, «credo che voi lo chiamiate jahannam – inferno.»
«Ah, capisco. E cosa ti fa pensare questo?»
Questa volta fu Delen a sorridere. «I tuoi occhi parlano più di quanto tu voglia.»
Nadirah irrigidì la mascella e socchiuse gli occhi. Non era per niente un bene che le persone riuscissero a capirla così facilmente. Questo voleva dire che era palese la sua fragilità in quel momento e, per lei che aveva sempre cercato di dimostrarsi forte, mostrava la sua sconfitta.
Un’improvvisa fitta al costato interruppe i suoi pensieri funesti e Delen colse il lamento che le sfuggì dalle labbra.
«Senti tanto dolore?» le chiese allarmata scattando istintivamente verso di lei
Sì, le avrebbe voluto rispondere, ma non dolore fisico. Quello è fin troppo sopportabile.
«C’è della curcuma2  sul tavolino, puoi scioglierla nell’acqua e passarmela?» chiese ignorando la domanda della ragazza.
«Certo.» si apprestò a rispondere facendo ciò che le aveva chiesto Nadirah. «E’ questa?» domandò stringendo tra le dita un sacchettino di tessuto.
«Sì, esatto. Versane una manciata nella ciotola e aggiungici dell’acqua.»
Delen fece come le aveva chiesto e poi le porse il miscuglio. «Non ha l’idea di essere gradevole, almeno dall’odore.» osservò.
Nadirah arricciò il naso. «Non farmici pensare, in questi giorni me l’hanno fatta bere a forza…» disse prima di buttar giù d’un fiato il contenuto della ciotola. «E’ disgustosa.» commentò con una smorfia schifata, facendo ridacchiare Delen che afferrò la ciotola e la ripose sul tavolo.
Continuarono a ridacchiare per qualche tempo, parlando di argomenti futili e delle altre ragazze della torre, e Nadirah si rese conto di quanto quella ragazza in realtà fosse timida, e non altezzosa come aveva creduto inizialmente. Certo, era probabile che prima di arrivare a Masyaf avesse vissuto in qualche corte europea, e Nadirah lo capiva dal suo modo di esprimersi e gesticolare, con la tipica raffinatezza delle dame.
Era intenzionata a sapere qualcosa di più sulla sua vita ma, prima che potesse chiederle qualcosa, Delen deviò l’argomento.
«Nadirah… ecco ho da dirti una cosa.» iniziò. «oltre per assicurarmi della tua salute, c’è anche un altro motivo per cui sono passata qui oggi.»
«Continua.» la spronò incuriosita.
Delen prese un respiro profondo prima di continuare. «Ecco, ieri sera Altair è venuto alla torre…»
Bum… un battito.
Bum… un altro battito.
Bum. Bum. Bum. Martella nel petto con una lentezza assordante.
Nadirah sente che sta trattenendo il respiro.
«… abbiamo parlato in privato e…»
«Parlato?» domandò inarcando sarcastica un sopracciglio.
A Delen sfuggì un sorriso. «Solo parlato.» precisò. «Ultimamente Altair si fa vivo raramente e si trattiene solo per qualche ora.»
Nadirah nascose l’imbarazzo con un colpo di tosse, che le causò l’ennesimo dolore. «Ehm… sì, certo». Non aveva proprio voglia di sapere quali abitudini Altair avesse a riguardo.
Delen riprese. «In ogni caso, mi ha detto di riferiti che è partito.»
«Come scusa?!» esclamò allibita.
«A quanto ha detto, è stato il Maestro a mandarlo in missione con un altro assassino. Non ha voluto dirmi il nome di costui, né ha saputo dirmi quanto starà via.»
Nadirah tacque un attimo, valutando ciò che le stava passando per la mente. «Delen. Prendimi l’abito che sta in quella panca.» le ordinò indicando il semplice mobiletto basso di legno chiaro addossato al muro sotto la finestra. «Vado dal Maestro.»
«Ma Nadirah…» tentò di protestare ricordandole le sue condizioni, ma lo sguardo che l’allieva di Altair le riservò la fece tacere. Delen lo paragonò alla sguardo di una regina, oppure a quello di una leonessa, che era meglio non far adirare più del dovuto. «D’accordo, aspetta che ti aiuto.» acconsentì prima di darle una mano ad alzarsi dal letto e cambiarsi.
 
Nadirah varcò la soglia dello studio del Maestro senza nemmeno farsi annunciare, procedendo a passo spedito ignorando i dolori che sembravano essere diminuiti. «Salute e pace Maestro.» lo salutò con un tono che più che pace, sembrava voler dichiarare guerra.
«Salute e pace a te Nadirah. Chissà perché non sono sorpreso di trovarti qui.» commentò per nulla intimorito dall’atteggiamento della giovane, mentre sotto la barba si delineava un lieve sorriso divertito. «Sono felice di vedere che stai meglio. Altair era preoccupato per le tue condizioni.»
Nadirah perse tutta la sua grinta iniziale.
Altair era preoccupato. Era preoccupato. Preoccupato.
Scosse la testa riprendendo in mano l’ascia di guerra. «È proprio per lui che sono qui. Ho saputo per vie traverse che lui è partito, perché non sono stata informata personalmente della sua partenza.»
«Posso sapere a quale titolo rivendichi certe pretese?» domandò retorico Jawad, e Nadirah si sentì una stupida.
Già, che diritto aveva riguardo l’essere informata su ciò che il suo maestro faceva?
Preferì tacere, mentre sentiva su di sé la rabbia dell’umiliazione per essersi dimostrata così infantile.
«Sai, ora capisco cosa vide Fahd in te.»
Nadirah sollevò nuovamente lo sguardo su di lui, mentre i ricordi del suo vecchio maestro le tornavano alla mente. Erano passati quasi cinque mesi dalla sua morte, eppure quel giorno le sembrava così lontano.
«Avanti, siediti. Credo sia giunto il momento che tu sappia.» la invitò, e Nadirah obbedì. «Si chiamava Aidha, e tu le somigli molto fisicamente, aveva i tuoi stessi capelli, il tuo stesso taglio degli occhi e soprattutto aveva il tuo stesso carattere, per niente docile, orgogliosa come un uomo dovrebbe essere, non certo un temperamento che dovrebbe appartenere a una donna. Ed era sua figlia.»
«Come?» domandò Nadirah per lo stupore riguardo ciò che Jawad le stava dicendo.
«Perse la vita più di quindici anni fa, durante l’assedio da parte di Salah al-Din. Fahd non si perdonò mai di non essere riuscito a salvarla, per questo lasciò l’ordine subito dopo i funerali.»
«Perché mi dite questo?»
« Io credo che in te abbia rivisto lei e, nel tuo desiderio di vendicarti di Salah al-Din, la sua stessa sete di vendetta.»
Nadirah rimase in silenzio, riflettendo sulle parole di Jawad. «E’ assurdo.» fu tutto ciò che riuscì a dire, scossa da quelle rivelazioni, prima che il Maestro riprendesse la parola.
«Comunque non era per questo che sei venuta. Vuoi sapere di Altair.» osservò.
La ragazza si ridestò dalle sue riflessioni. «Sì, ma anche per altro.»
Jawad assunse un’espressione incuriosita. «Cioè?»
«Prima di tutto vorrei sapere cosa vi ha detto Altair dopo che mi ha riportata alla fortezza.»
Al Maestro non sfuggì una nota ansiosa nella sua voce. «Vuoi sapere cosa penso riguardo alle tue origini e l’intera vicenda, vero? Nadirah, io credo in te e nella tua fedeltà, non è il nostro sangue a dirci chi siamo, è ciò che facciamo a farlo.»
Nadirah sentì su di sé pesare un macigno. «Io ho ucci…»
«Lo so.» la interruppe, «ma non logorarti l’anima più di quanto non dovresti. Sei una donna forte, non lasciarti sopraffare dal passato.»
«Come dite voi, Maestro.»
Jawad la guardò severo. «Non è questo il modo giusto per superare ciò che ti ho detto. Più convinta, più forte!» la spronò.
Nadirah alzò gli occhi nei suoi. «Certo Maestro.» esclamò con più vigore nella voce.
Jawad parve soddisfatto, prima di chiederle cos’altro le tormentasse la mente.
«La Mela, maestro. Per salvare me l’avete data in mano ai templari… potrebbero distruggerci.»
«Quella sfera è molto potente, certo. Ma è un’arma complessa, in questi pochi mesi abbiamo provato a studiarla e persino Altair che sembra immune, o per lo meno più resistente al suo potere, fatica a controllarla. Avrebbe potuto usarla contro l’esercito templare, ma aveva paura di far del male a qualcun altro.»
Nadirah non colse subito l’allusione, per questo continuò. «Ma tra i templari potrebbe esserci qualcuno in grado di usarla.»
«Non spetta a te preoccuparti di questo, ma se può farti sentire meglio, ricorda che abbiamo occhi e orecchie ovunque, e che dubito che esistano molte persone con capacità simili a quelle di Altair.»
La ragazza lo guardò interrogativa, ma Jawad non le diede altre spiegazioni. «In ogni caso sei venuta per sapere dove ho inviato Altair, o no?»
«Sì, Maestro.» confermò, ritrovando un po’ della sua solita grinta.
«Sta andando ad Alamut, insieme ad Alec.»
Nadirah sgranò gli occhi, ma si trattenne da qualsiasi esclamazione, sentendo tendersi i muscoli e il successivo dolore alle costole. Dalle labbra le sfuggì un’imprecazione, che Jawad fortunatamente non comprese, nella sua lingua natìa.
«Perché ad Alamut?»
«Alamut ha le più fornite biblioteche dell’intero medio oriente. Sono conservati manoscritti antichissimi, tra cui penso potremo trovare informazioni sulla Mela e sul Giardino dell’Eden di cui ci hai parlato.» spiegò.
Nadirah annuì. «Capisco.» disse, mentre nella sua mente l’immagine di Altair e Alec che cercavano manoscritti e volumi tra gli scaffali di una biblioteca assumeva dei contorni a tratti ironici, a tratti drammatici: già i due maestri assassini faticavano a sopportarsi, c’era il rischio che si ammazzassero a vicenda.
Ci pensò Jawad a rassicurarla, seppur ignaro delle sue riflessioni. «Ho scelto loro perché hanno bisogno di tollerarsi, non posso permettere che ci sia rivalità tra i miei due migliori assassini. Sono certo che una missione del genere permetterà loro di confrontarsi senza l’uso della spada.»
Nadirah avrebbe voluto ribattere, ma il sguardo del Maestro le fece intendere che il loro colloquio era concluso.
Nadirah si alzò e chinando il capo si congedò.
 
Aveva bisogno di riflettere dopo l’incontro con Jawad per questo raggiuse il giardino della fortezza e, poggiandosi al parapetto, osservò il vuoto sottostante immerso nel buio del crepuscolo.
Nella mente le vorticavano le parole del vecchio, soprattutto quelle sul suo vecchio maestro, e non riusciva a capire perché si sentisse come uno strumento in mano a qualcuno che era stato in grado di ingannarla, perché si sentisse così sola, vuota. Si chiese cos’avesse scatenato tutta quella rabbia dopo le parole di Delen.
In quel momento tutto ciò che aveva sentito nel pomeriggio le permetteva di ignorare il dolore che aveva provato in quei giorni, solo non ne capiva il motivo.
Aveva una sensazione, insignificante quasi, ma che spiegava il vuoto che sentiva dentro, e non c’entrava nulla con il suo passato, bensì con il suo presente.
Era un vuoto causato da una mancanza. Una mancanza che non aveva mai creduto possibile, o forse sì, dalla prima volta che aveva incrociato quello sguardo buio come la notte, come la morte.
Altair le mancava, sì. Ma in modo ossessivo, viscerale…
«Malik.» la sua voce risuonò atona dopo aver riconosciuto i passi inconfondibili del Rafiq.
«Scusa, non volevo disturbarti.» rispose l’uomo indietreggiando.
«Aspetta.» lo fermò. «È parecchio che non parliamo io e te.»
Nadirah percepì il suo sospiro a metà tra l’affranto e l’ansioso.
«È che sono stato impegnato, il Maestro mi ha affidato compiti importanti e non ho avuto molto tempo a disposizione.» mentì, e Nadirah lo sapeva bene, l’aveva evitato per lo stesso identico motivo. La infastidiva quell’atteggiamento, eppure in quel momento non si sentiva arrabbiata con lui.
«Non sai mentire Malik.» sussurrò suadente quando percepì la sua presenza accanto a sé. Non era completamente in sé, se ne rendeva conto, solo non sapeva attribuire quel suo improvviso comportamento al suo stato d’animo o a ciò che il medico le aveva fatto fumare. Cos’era poi, non ne aveva idea.
«Cosa te lo fa pensare?» domandò l’altro sfiorandole il braccio.
Decisamente, anche Malik doveva essersi fumato qualcosa.
Nadirah si volse verso di lui, guardandolo con attenzione. C’era qualcosa che non tornava nel suo volto, gli occhi erano troppo scuri, e quella leggera cicatrice all’angolo della bocca non ricordava di averla mai vista…
«Nadirah non sei in te…» tentò di bloccarla mentre la mano della ragazza corse al suo viso, accarezzandone la mascella ruvida di barba.
«Nemmeno tu lo sei.» mormorò a un soffio dalle labbra prima di afferrarlo per il bavero della cappa e attirarlo a sé con impeto. Le lingue si cercarono bramose, la mano di lui corse su e giù per la schiena della ragazza, facendola aderire al proprio corpo, mentre lei non si staccava dal suo viso, troppo concentrata su un volto che fluttuava offuscato nella sua mente.
Per un attimo Nadirah si perse completamente in quel bacio ardente, passionale, che aveva mescolato i loro sapori e li aveva fusi insieme e che, per un attimo, la fece sentire terribilmente in colpa.
Fu solo quando si accorse dell’effetto che aveva provocato su Malik, che la sua mente riprese lucidità. Si staccò da lui cercando di non essere troppo brusca e di nascondere l’imbarazzo.
Il Rafiq le si avvicinò ancora e, dopo averle accarezzato una guancia con il dorso della mano e sfiorato il naso con il  proprio, le sussurrò qualcosa che però non comprese e la lasciò lì, immersa nell’oscurità che calava sulla fortezza.
Rimase immobile finché la figura dell’uomo non scomparve all’interno della fortezza, troppo concentrata sul pizzicore che avvertiva sulla nuca, come se qualcuna l’avesse osservata.
 
Malik partì all’alba il giorno seguente e fece ritorno a Gerusalemme.
Nadirah non seppe perché, ma si sentì terribilmente sollevata a quella notizia, temendo che altrimenti quel loro incontro della sera precedente si potesse sapere in giro o, peggio, si potesse ripetere. Non aveva dormito per tutta la notte, pensando e ripensando a cosa le avesse fatto compiere un gesto tanto impulsivo e quel lieve senso di colpa non sembrava deciso ad abbandonarla.
Inoltre non aiutava il fatto che Kamila sembrava sempre più fredda nei suoi confronti, il più delle volte la ignorava o le rispondeva con acidità e Nadirah credeva che sospettasse qualcosa. Non aveva il coraggio di chiederle il motivo del suo comportamento, temendo l’accusa che avrebbe potuto rivolgerle.
Con Delen invece i rapporti si erano intensificati: trascorrevano molto tempo insieme, anche a causa dell’impossibilità di Nadirah di allenarsi, erano diventate molto più intime e la giovane nordica le aveva parlato del suo passato, raccontandole della sua vita alla corte dell’imperatore Federico Hohenstaufen dove aveva imparato a comportarsi come una dama di alto rango e aveva conosciuto l’uomo di cui si era innamorata.
«E ora lui dov’è?» le chiese Nadirah, curiosa.
La rossa si limitò a un’alzata di spalle. «Chi lo sa. Dopo la morte dell’imperatore il contingente con cui viaggiavamo venne assalito dai Saraceni. Così finii in mano loro e successivamente agli Assassini». Lo disse con una certa malinconia, e Nadirah si pentì di quella domanda e preferì deviare il discorso raccontandole di averlo conosciuto, ancora bambina, quando i Monferrato si allearono con lui contro i comuni milanesi.
«Subirono una sconfitta clamorosa. Fu la peggior umiliazione che il Barbarossa potesse subire3.» ridacchiò con un ghigno prima di raccontarle con precisione lo svolgimento della battaglia, così come le aveva raccontato suo padre.
«Nadirah, perdonami, ma non credo di seguirti più.» le disse vagamente imbarazza. «Diciamo che le battaglie non sono la mia specialità.»
«Hai ragione, perdonami. È che spesso mi perdo troppo nei dettagli.» si scusò con un sorriso.
Fu proprio grazie a Delen che Nadirah riuscì a relegare nell’angolo più remoto della sua mente ciò che accadde quella dannata notte a Gerusalemme, parte di un passato che però non le raccontò mai.
Trascorse un mese dalla partenza del Rafiq, così come dalla quella di Altair, di cui Nadirah sentiva terribilmente la mancanza. Di entrambi in verità. Ma era troppo orgogliosa per ammettere a se stessa che anche Malik aveva lasciato del vuoto. 
Una mattina, quando la neve attecchì al suolo, mentre passeggiavano nel giardino innevato Delen le disse si essere incinta e da quel momento l’attenzione e l’affetto di Nadirah nei suoi riguardi si intensificarono. Alla ragazza non importava chi fosse il padre, voleva solo che suo figlio potesse essere felice, e Nadirah si rese conto di non aver mai conosciuto una donna più forte di lei.
Quella stessa mattina Kamila sparì senza lasciare tracce e inutili furono le ricerche. Non si seppe di lei per diversi mesi.
Trascorsero altre settimane poi, finalmente, Altair e Alec fecero il loro ritorno alla fortezza.
Varcarono le soglie del villaggio malconci e sporchi di sangue, e Delen dovette trattenere Nadirah prima che si mettesse in ridicolo.
«Sì, hai ragione. È solo che…»
Delen le fece passare un braccio attorno alle spalle. «Credimi, questa volta so bene come ti senti.»
Nadirah ricambiò l’abbraccio e dopo averle lasciato un bacio sulla guancia si allontanò. Raggiunse il torrione della fortezza, quello del suo sogno, e attese, poggiata di schiena a una delle massicce colonne, lasciando vagare lo sguardo verso l’orizzonte montuoso che si estendeva per miglia e miglia.
Non trascorse molto tempo che avvertì dei passi avvicinarsi e raggiungerla.
«Nadirah». Il suono della sua voce le fece trattenere il fiato. Si voltò verso di lui e con la grazia di un felino gli si gettò tra le braccia.
«Altair…» singhiozzò contro la sua cappa che sapeva di polvere e sangue.
Le braccia dell’assassino le circondarono la vita e le sue labbra affondarono nei suoi capelli.
«Mi sei mancata».

 
 
 











 
Note Autrice:
1) non ho saputo resistere a inserire qualcosa che riguardasse la mitologia norrena -che amo- e ho approfittato del fatto che Delen, così come il nostro bell’imbusto Alec, provengono da zone imprecisate del nord Europa.
Per chi non lo sapesse Hel, o Hella, sarebbe la dea degli inferi, e l’inferno norreno prende il nome da lei.
 
2) stando alle mie conoscenze la curcuma è una spezia di origine indiana dalle proprietà curative come antidolorifiche, antitumorali e antinfiammatorie. Ora, non so come si somministrasse, ma ho pensato che potesse essere credibile berla sciolta in acqua. E per quanto riguarda il sapore, l'ho assaggiata e proprio non mi piace. Bleah, xD
 
3) sto parlando della battaglia di Legnano del 29 maggio 1176, dove Federico Barbarossa fu sconfitto dai comuni della Lega Lombarda.



Buongiorno a tutti miei cari lettori!
Lo so, sono perfettamente perfettamente consapevole di essere una persona orribile.
Due mesi, e dico due mesi che non aggiorno. Mi dispiace veramente tanto e non ho scuse decenti, semplicemente è stato un periodo un po' di m. sia perché ero letteralmente senza ipirazione e perchè ho avuto qualche problema di salute sia perchè lo studio ultimamente non mi dà tregua.
Vi chiedo umilmente scusa e spero che continuiate a seguire questa storia. 
Prometto di non impiegarci più così tanto e spero che questo capitolo sia di vostro gradimento, così che possiate perdonarmi per il ritardo xD
A presto (spero)

Salute e pace
O n i c e

 
  
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