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Autore: AxXx    08/02/2014    3 recensioni
Salve, popolo di EFP e amanti della Percabeth in particolare. Questa storia parla di un mondo senza genitori divini, Dei o mostri vari a cui dare peso.
Annabeth è una ragazza ricca che desidera diventare architetto, ma un giorno la sua vita cambia radicalmente e lei si ritrova isolata dal mondo, senza memoria e senza nulla che glielo faccia ricordare. Solo una persona la aiuta: un ragazzo di nome Percy Jackson.
Il passato, però, torna sempre a tormentarci e lei lo scoprirà nel modo peggiore.
[Percabeth]
Genere: Azione, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Annabeth Chase, Luke Castellan, Percy Jackson, Quasi tutti
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
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                                               RISVEGLIO

 

 

 

 

 

Avete presente il buio? Quello delle notti più scure, quando nemmeno la luna rischiara il sentiero. Ecco quello che avevo davanti e dietro di me.
L’uomo ha sempre avuto paura del buio, dell’ignoto e di ciò che era sconosciuto, così come io avevo paura di me stessa.
Chi ero?

Nulla, vuoto assoluto. Nessun nome da associare al corpo che la mia volontà muoveva appena.

Davanti ai miei occhi socchiusi c’erano una miriade di colori e ombre minacciose e senza senso, come se il mondo fosse stato messo in una lavatrice e tutti i suoi colori si fossero fusi insieme. Sentivo un dolore sordo in tutto il corpo, che partiva dalla testa fino a raggiungere la punta dei miei piedi.

E avevo freddo.

Indossavo solo la biancheria intima, tutti gli altri vestiti erano spariti e a coprirmi c’era solo una coperta rossa nemmeno troppo pesante. Mi sentivo la pelle sporca, e intirizzita, macchiata qua e la da coaguli di fango.

Emisi un gemito, mentre, a fatica, alzavo un braccio per potermi tastare la testa, nel punto da cui partiva tutto il mio dolore. Percepii una stoffa pesante tra i capelli, probabilmente che mi copriva una ferita, ma per quanto bene mi avessero fasciato la ferita, le mie dita toccarono qualcosa di umidiccio e appiccicoso.

Era rosso.

Era sangue…

Il mio sangue.

Non riuscivo nemmeno a ricordare come me la fossi procurata. Il mio passato era vuoto, spento. Una coltre di nebbia pesante e impenetrabile che lasciava trasparire solo le basi di una vita. Nozioni basilari che ogni persona conosce.

Dove mi trovavo?

Casa mia?

Dopo alcuni minuti riuscii ad alzare la testa gemendo per il dolore. Ne avevo abbastanza di rimanere seduta, dovevo fare qualcosa per stare meglio. Mi trovavo su un divano marrone piccolo, tanto che a mala pena ci stavo io sdraiata.

Fui colta da una specie di sensazione di estraneità: come un sesto senso che mi permetteva di capire le cose solo guardandole.

Ad esempio capii subito che quella non era casa mia. Provavo un senso di estraneità e nulla di quel posto mi sembrava familiare, anzi, ebbi il presentimento di non averci mai messo piede (Ma non chiedetemi come facessi a saperlo: non ne avevo idea).

Ad una prima occhiata regnava il caos più totale. Sembrava che poche cose fossero state messe da parte in fretta e furia. Mi trovavo in uno spazio non molto grande, con tre porte e una grande finestra che dava sull’esterno. Alle mie spalle c’era una libreria impolverata da cui pendevano pagine di libri ch nessuno leggeva da chissà quanto.  Davanti a me c’era un basso tavolino e oltre un televisore vecchio stampo. Una porta finestra illuminava l’ambiente della fioca luce del sole invernale. Sentivo i rumori di clacson e il vociare delle persone, quindi ero in una città, anche bella grande considerata la quantità di rumore. Non c’erano foto ad una prima occhiata, poi il mio sguardo fu attirato da un comodino, posto a fianco del divano su cui riposavo.

C’era la foto di una donna molto bella, dai capelli mossi castani lunghi. Era magra, dagli occhi scuri. La foto la mostrava in riva al mare a fianco di una casa al mare, simile ad una specie di baita. Sorrideva smagliante.

Il pavimento e gli altri arredi erano abbastanza puliti, ma qua e la pendevano calzini e altri indumenti che nessuno si era preso il disturbo di piegare.

Capii anche da quello che non ero a casa mia (Dubito fortemente che indosserei dei boxer) ed era ovvio che fosse la casa di un ragazzo. Era incredibile come si potesse intuire molto di una persona vedendo il posto dove abitava.

Come il ragazzo che abitava quel posto: era triste, vuoto, grigio come quel posto.

“Finalmente ti sei svegliata.”

Una voce intensa, ma tranquilla mi fece sobbalzare per lo spavento. Sulla porta che supposi dava sull’ingresso, c’era un ragazzo sui diciotto anni dai meravigliosi occhi verde, come l’acqua di un oceano tranquillo. Indossava un paio di pantaloni neri che gli fasciavano le gambe longilinee, una maglietta nera gli copriva il torace muscoloso e sulle spalle portava una borsa. Aveva evidentemente sudato, ma i capelli mossi erano comunque ancora ritti in testa, dandogli un aria disordinata.

Mi sforzai di imprimere nella mente ogni particolare di quell’immagine che avevo di lui, soprattutto quegli occhi verdi, bellissimi. Per quanto cercassi di inquadrarlo, ero certa di non averlo mai visto prima.

Ero ancora nell’ignoto.

“Dove sono?”

“A casa mia.”

Logico e dannatamente inutile. Nulla, di quel posto, mi era familiare e quel ragazzo non mi stava certo aiutando.

“Tu… tu chi sei?” Chiesi, cercando di strappargli qualche informazione in più. Avevo assolutamente bisogno di sapere qualcosa. Non sapevo perché, ma odiavo rimanere all’oscuro.

“Percy.” Rispose annoiato il ragazzo, aprendo il frigo, posto in un angolo, dietro il televisore. Prese una bibita, credo una pepsi, ma non sembrava molto felice di rispondere alle domande, quasi fossi un fastidio.

Al mio sguardo implorante, però, sembrò quasi addolcirsi, si sedette su un futon che non avevo notato, poggiò la bibita sul tavolino e aggiunse: “Il mio nome completo è Perseus Jackson, ma preferisco essere chiamato Percy.”

“E… chi sono io?” Chiesi, di nuovo, cercando di riportare alla mente un qualsiasi dannato particolare che mi spiegasse cosa fosse successo. Non avevo nemmeno un nome, non sapevo chi fossi, nemmeno se avessi una famiglia.

Erano vivi? O ero orfana? Mi stavano cercando? Mi avevano buttato fuori di casa? Avevo dei fratelli? Degli amici?
Nessuna di queste domande aveva risposta: ero sola.

“Speravo me lo dicessi tu.” Fu la sua secca risposta: “Magari mi potresti spiegare cosa ci facevi mezza nuda e moribonda tra i cassonetti di un quartiere malfamato di New York.”

“Che cosa!?”

“Ti sto dicendo la verità, avevi bisogno di aiuto e, siccome io ho dei… problemi, non ho potuto chiamare la polizia. Ma non potevo nemmeno lasciare che tu morissi in mezzo alla strada!” Sbottò esasperato. A quanto pare era un tipo a cui non piaceva parlare, se non fosse stato necessario.

“Quindi non mi conosci?”

“No… non ti conosco." Fu la risposta che confermò la mia sola certezza: non sapevo nulla, ero sprofondata nell’ignoto totale, ed io odiavo l’ignoto.

Odiavo non avere punti di riferimento a cui aggrapparmi, persone familiari con cui confidarmi. Persino la mia ombra mi appariva estranea perché non potevo associare un nome a quell’immagine scura sul pavimento.

Cercai di controllare il respiro e le emozioni che mi pervadevano. Avevo paura, lo ammetto, ne avevo molta.

“Io… io non lo so.” Ammisi infine, lasciandomi ricadere triste. Sentivo le lacrime pungere gli occhi, ma mi affrettai a ricacciarle. Non volevo apparire più debole di quanto già sembravo.

Fu con mia enorme sorpresa che lo sentii avvicinarsi a me, sedendosi sul bordo del divano per poi guardarmi in faccia, anche se non negli occhi, quelli lui li evitava, quasi volesse nascondere un segreto.

“Non sai cosa? Nel senso… non ricordi nulla?”

Scossi la testa e mi coprii di più, stranamente imbarazzata: “No… Non ricordo nulla. Non so se ho una famiglia, una casa… non ho nemmeno idea del perché fossi nuda in mezzo alla strada.”

“Non proprio nuda…” Mi corresse lui con uno strano sorrisetto.

Improvvisamente mi sentii arrossire violentemente. Il fatto che qualcuno mi avesse vista senza vestiti mi dava un senso di nausea e di paura.

“i tuoi vestiti erano messi malissimo, te li ho tolti e te li ho messi ad asciugare. Sono lì.” Aggiunse, divertito, indicando fuori dalla finestra. Parlava come se tutto, intorno a lui fosse semplice. Ma non lo era per niente e il suo tono stava iniziando ad irritarmi.

“Mi hai… tolto i vestiti!?” Sbottai, imbarazzatissima.

“Ehi! Ti sarebbe venuta una polmonite!” Si giustificò lui, facendo sparire il sorriso, dietro una maschera di incredulità per, poi, riprendere il controllo. “E se lo vuoi sapere, non mi sono divertito a farti da infermiera! Per fortuna non ero solo!”

Ah, voleva pure dei ringraziamenti, quel cafone pervertito. No, grazie, non gli avrei dato quella soddisfazione. Piuttosto svenivo di nuovo.

Entrambi incrociammo le braccia, quasi in attesa che dicessimo qualcosa. Lui si aspettava dei ringraziamenti ed io delle scuse. Ci volle un bel po’, ma, alla fine, fu lui il primo a cedere.

“D’accordo… visto che sei viva, vedi di recuperare la memoria! Non voglio tenerti qui per sempre!” Sbottò, esasperato.

“Lo cosa è reciproca.” Ringhiai di rimando, cercando di trattenermi dall’usare parole quali ‘pervertito’ e ‘maniaco’

Percy sbuffò, quasi si fosse tolto un impiccio e si avvio verso la sua stanza: “Ottimo!”

“Perfetto!”

Nonostante la sfuriata, non potei non mordermi la lingua. Mi aveva salvato la vita, meritava un minimo di gratitudine. Forse non avrei dovuto, ma il fatto era che io non ce la facevo.

Ero sull’orlo di un crollo emotivo e avevo bisogno di qualcosa o qualcuno a cui aggrapparmi.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[Angolo dell’autore]

Ciao, popolo di EFP, in barba al fatto che dovrei lavorare alla mia fan fiction principale con Water_Wolf, ho deciso che, in attesa del seguito, metterò altri capitoli di questa, nella speranza che altri si facciano avanti, perché vorrei proprio sapere che ne pensate.

Ringrazio Ramosa12 che mi ha lasciato quella che spero sia la prima di tante recensioni.

Un bacio, Ramosa, e continua la tua storia ;)

AxXx

 

 

  
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