RISVEGLIO
Avete
presente il buio? Quello delle notti più scure,
quando nemmeno la luna rischiara il sentiero. Ecco quello che avevo
davanti e
dietro di me.
L’uomo ha sempre avuto paura del buio, dell’ignoto
e di ciò che era
sconosciuto, così come io avevo paura di me stessa.
Chi ero?
Nulla,
vuoto assoluto. Nessun nome da associare al
corpo che la mia volontà muoveva appena.
Davanti
ai miei occhi socchiusi c’erano una miriade di
colori e ombre minacciose e senza senso, come se il mondo fosse stato
messo in
una lavatrice e tutti i suoi colori si fossero fusi insieme. Sentivo un
dolore
sordo in tutto il corpo, che partiva dalla testa fino a raggiungere la
punta
dei miei piedi.
E
avevo freddo.
Indossavo
solo la biancheria intima, tutti gli altri
vestiti erano spariti e a coprirmi c’era solo una coperta
rossa nemmeno troppo
pesante. Mi sentivo la pelle sporca, e intirizzita, macchiata qua e la
da
coaguli di fango.
Emisi
un gemito, mentre, a fatica, alzavo un braccio
per potermi tastare la testa, nel punto da cui partiva tutto il mio
dolore. Percepii
una stoffa pesante tra i capelli, probabilmente che mi copriva una
ferita, ma
per quanto bene mi avessero fasciato la ferita, le mie dita toccarono
qualcosa
di umidiccio e appiccicoso.
Era
rosso.
Era
sangue…
Il
mio sangue.
Non
riuscivo nemmeno a ricordare come me la fossi
procurata. Il mio passato era vuoto, spento. Una coltre di nebbia
pesante e
impenetrabile che lasciava trasparire solo le basi di una vita. Nozioni
basilari che ogni persona conosce.
Dove
mi trovavo?
Casa
mia?
Dopo
alcuni minuti riuscii ad alzare la testa gemendo
per il dolore. Ne avevo abbastanza di rimanere seduta, dovevo fare
qualcosa per
stare meglio. Mi trovavo su un divano marrone piccolo, tanto che a mala
pena ci
stavo io sdraiata.
Fui
colta da una specie di sensazione di estraneità:
come un sesto senso che mi permetteva di capire
le cose solo guardandole.
Ad
esempio capii subito che quella non era casa mia.
Provavo un senso di estraneità e nulla di quel posto mi
sembrava familiare,
anzi, ebbi il presentimento di non averci mai messo piede (Ma non
chiedetemi
come facessi a saperlo: non ne avevo idea).
Ad
una prima occhiata regnava il caos più totale.
Sembrava che poche cose fossero state messe da parte in fretta e furia.
Mi
trovavo in uno spazio non molto grande, con tre porte e una grande
finestra che
dava sull’esterno. Alle mie spalle c’era una
libreria impolverata da cui
pendevano pagine di libri ch nessuno leggeva da chissà
quanto. Davanti a
me c’era un basso tavolino e oltre
un televisore vecchio stampo. Una porta finestra illuminava
l’ambiente della
fioca luce del sole invernale. Sentivo i rumori di clacson e il vociare
delle
persone, quindi ero in una città, anche bella grande
considerata la quantità di
rumore. Non c’erano foto ad una prima occhiata, poi il mio
sguardo fu attirato
da un comodino, posto a fianco del divano su cui riposavo.
C’era
la foto di una donna molto bella, dai capelli
mossi castani lunghi. Era magra, dagli occhi scuri. La foto la mostrava
in riva
al mare a fianco di una casa al mare, simile ad una specie di baita.
Sorrideva
smagliante.
Il
pavimento e gli altri arredi erano abbastanza
puliti, ma qua e la pendevano calzini e altri indumenti che nessuno si
era
preso il disturbo di piegare.
Capii
anche da quello che non ero a casa mia (Dubito
fortemente che indosserei dei boxer) ed era ovvio che fosse la casa di
un
ragazzo. Era incredibile come si potesse intuire molto di una persona
vedendo
il posto dove abitava.
Come
il ragazzo che abitava quel posto: era triste,
vuoto, grigio come quel posto.
“Finalmente
ti sei svegliata.”
Una
voce intensa, ma tranquilla mi fece sobbalzare per
lo spavento. Sulla porta che supposi dava sull’ingresso,
c’era un ragazzo sui
diciotto anni dai meravigliosi occhi verde, come l’acqua di
un oceano
tranquillo. Indossava un paio di pantaloni neri che gli fasciavano le
gambe
longilinee, una maglietta nera gli copriva il torace muscoloso e sulle
spalle
portava una borsa. Aveva evidentemente sudato, ma i capelli mossi erano
comunque ancora ritti in testa, dandogli un aria disordinata.
Mi
sforzai di imprimere nella mente ogni particolare di
quell’immagine che avevo di lui, soprattutto quegli occhi
verdi, bellissimi.
Per quanto cercassi di inquadrarlo, ero certa di non averlo mai visto
prima.
Ero
ancora nell’ignoto.
“Dove
sono?”
“A
casa mia.”
Logico
e dannatamente inutile. Nulla, di quel posto, mi
era familiare e quel ragazzo non mi stava certo aiutando.
“Tu…
tu chi sei?” Chiesi, cercando di strappargli
qualche informazione in più. Avevo assolutamente bisogno di
sapere qualcosa. Non
sapevo perché, ma odiavo rimanere all’oscuro.
“Percy.”
Rispose annoiato il ragazzo, aprendo il frigo,
posto in un angolo, dietro il televisore. Prese una bibita, credo una
pepsi, ma
non sembrava molto felice di rispondere alle domande, quasi fossi un
fastidio.
Al
mio sguardo implorante, però, sembrò quasi
addolcirsi, si sedette su un futon che non avevo notato,
poggiò la bibita sul
tavolino e aggiunse: “Il mio nome completo è
Perseus Jackson, ma preferisco
essere chiamato Percy.”
“E…
chi sono io?” Chiesi, di nuovo, cercando di
riportare alla mente un qualsiasi dannato particolare che mi spiegasse
cosa
fosse successo. Non avevo nemmeno un nome, non sapevo chi fossi,
nemmeno se
avessi una famiglia.
Erano
vivi? O ero orfana? Mi stavano cercando? Mi
avevano buttato fuori di casa? Avevo dei fratelli? Degli amici?
Nessuna di queste domande aveva risposta: ero sola.
“Speravo
me lo dicessi tu.” Fu la sua secca risposta:
“Magari
mi potresti spiegare cosa ci facevi mezza nuda e moribonda tra i
cassonetti di
un quartiere malfamato di New York.”
“Che
cosa!?”
“Ti
sto dicendo la verità, avevi bisogno di aiuto e,
siccome io ho dei… problemi, non ho potuto chiamare la
polizia. Ma non potevo
nemmeno lasciare che tu morissi in mezzo alla strada!”
Sbottò esasperato. A
quanto pare era un tipo a cui non piaceva parlare, se non fosse stato
necessario.
“Quindi
non mi conosci?”
“No…
non ti conosco." Fu la risposta che confermò la mia
sola certezza: non sapevo nulla, ero sprofondata nell’ignoto
totale, ed io
odiavo l’ignoto.
Odiavo
non avere punti di riferimento a cui
aggrapparmi, persone familiari con cui confidarmi. Persino la mia ombra
mi
appariva estranea perché non potevo associare un nome a
quell’immagine scura
sul pavimento.
Cercai
di controllare il respiro e le emozioni che mi
pervadevano. Avevo paura, lo ammetto, ne avevo molta.
“Io…
io non lo so.” Ammisi infine, lasciandomi ricadere
triste. Sentivo le lacrime pungere gli occhi, ma mi affrettai a
ricacciarle.
Non volevo apparire più debole di quanto già
sembravo.
Fu
con mia enorme sorpresa che lo sentii avvicinarsi a
me, sedendosi sul bordo del divano per poi guardarmi in faccia, anche
se non
negli occhi, quelli lui li evitava, quasi volesse nascondere un segreto.
“Non
sai cosa? Nel senso… non ricordi nulla?”
Scossi
la testa e mi coprii di più, stranamente
imbarazzata: “No… Non ricordo nulla. Non so se ho
una famiglia, una casa… non
ho nemmeno idea del perché fossi nuda in mezzo alla
strada.”
“Non
proprio nuda…” Mi corresse lui con uno strano
sorrisetto.
Improvvisamente
mi sentii arrossire violentemente. Il
fatto che qualcuno mi avesse vista senza vestiti mi dava un senso di
nausea e
di paura.
“i
tuoi vestiti erano messi malissimo, te li ho tolti e
te li ho messi ad asciugare. Sono lì.” Aggiunse,
divertito, indicando fuori
dalla finestra. Parlava come se tutto, intorno a lui fosse semplice. Ma
non lo
era per niente e il suo tono stava iniziando ad irritarmi.
“Mi
hai… tolto i vestiti!?” Sbottai, imbarazzatissima.
“Ehi!
Ti sarebbe venuta una polmonite!” Si giustificò
lui, facendo sparire il sorriso, dietro una maschera di
incredulità per, poi,
riprendere il controllo. “E se lo vuoi sapere, non mi sono
divertito a farti da
infermiera! Per fortuna non ero solo!”
Ah,
voleva pure dei ringraziamenti, quel cafone
pervertito. No, grazie, non gli avrei dato quella soddisfazione.
Piuttosto
svenivo di nuovo.
Entrambi
incrociammo le braccia, quasi in attesa che
dicessimo qualcosa. Lui si aspettava dei ringraziamenti ed io delle
scuse. Ci
volle un bel po’, ma, alla fine, fu lui il primo a cedere.
“D’accordo…
visto che sei viva, vedi di recuperare la
memoria! Non voglio tenerti qui per sempre!”
Sbottò, esasperato.
“Lo
cosa è reciproca.” Ringhiai di rimando, cercando
di
trattenermi dall’usare parole quali ‘pervertito’
e ‘maniaco’
Percy
sbuffò, quasi si fosse tolto un impiccio e si
avvio verso la sua stanza: “Ottimo!”
“Perfetto!”
Nonostante
la sfuriata, non potei non mordermi la
lingua. Mi aveva salvato la vita, meritava un minimo di gratitudine.
Forse non
avrei dovuto, ma il fatto era che io non ce la facevo.
Ero
sull’orlo di un crollo emotivo e avevo bisogno di
qualcosa o qualcuno a cui aggrapparmi.
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[Angolo
dell’autore]
Ciao,
popolo di EFP, in barba al fatto che dovrei lavorare alla mia fan
fiction principale con Water_Wolf, ho deciso che, in attesa del
seguito,
metterò altri capitoli di questa, nella speranza che altri
si facciano avanti,
perché vorrei proprio sapere che ne pensate.
Ringrazio
Ramosa12 che mi ha lasciato quella che spero sia la
prima di tante recensioni.
Un
bacio, Ramosa, e continua la tua storia ;)
AxXx