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Autore: IoNarrante    09/02/2014    12 recensioni
Ven, aspirante avvocato, ragazza determinata, ligia al dovere, trasferitasi a Londra con un unico obiettivo: diventare socia di uno dei più grandi studi legali della capitale.
Il sogno per cui ha lasciato la sua famiglia a Tivoli, salutato tutti i suoi amici, riducendosi a vivere in un piccolo monolocale vicino a Regent Park.
La fortuna però gira dalla parte di Ven, perché le verrà affidato un caso importante e allo stesso tempo spinoso, che la costringerà a collaborare con un avvocato brillante e terribilmente sexy ma che allo stesso tempo rispolvererà alcune sue vecchie conoscenze.
Non è necessario aver letto Come in un Sogno
Genere: Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Se il Sogno chiama...'
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Direi di iniziare con un "Nelle puntate precedenti di ILWY" oppure ''Previously on ILWY" perché è passato un bel po' di tempo da quando ho lasciato l'ultimo capitolo in sospeso.
Rimando il resto delle note a fine capitolo, comunque riassumiamo ciò che è successo:
C'è stata l'udienza preliminare per il caso di dubbia paternità Cloverfield - Sogno, e il giudice Simmons lo ha rinviato grazie a Ven, la quale ha avuto la brillante idea di far notare le vacillanti motivazioni di Elizabeth nel ricorrere all'aborto, visto che per lei questo bambino sarebbe stato un grande impegno per la carriera.
Venera e Simone continuano a frequentarsi, nonostante la quasi-sicura paternità del calciatore. Jamie si è fatto da parte e per ora continua a rimanere accanto a Ven, come mentore e collega. Insieme intendono scagionare il nome della famiglia Sogno, senza far trapelare nulla ai giornali inglesi.

Diciamo che più o meno è tutto, almeno la parte rilevante.
A dopo! :3


CAPITOLO 22
betato da nes_sie

La mattina era sempre piacevole svegliarsi nel tepore di una bella giornata di riposo. La domenica era un giorno sacro per la sottoscritta, anche se ultimamente ne passavo la maggior parte china sulle scartoffie, lavorando al caso. Il rinvio a giudizio indetto da Simmons era solo un colpo di fortuna, una soluzione temporanea, ma James era stato chiaro sin dall’inizio: bisognava rimboccarsi le maniche in qualche modo. Mi alzai dal letto infilandomi pantofole e vestaglia. Rimasi sorpresa non trovando Simone che dormiva al mio fianco e, devo ammettere, ne fui anche un po’ delusa. Oramai era nostra abitudine svegliarci assieme, darci il primo “buongiorno” della giornata. Allungai la mano nella sua metà del letto e la trovai fredda.
Forse dovrei abituarmi, mi dissi. L’idea che Simone potesse allontanarsi dalla mia vita cominciava lentamente a farsi spazio nella mia testa. Un figlio – riconosciuto o meno – gli avrebbe totalmente stravolto la vita.
Lasciai la stanza da letto ma avvertii subito un forte giramento di testa, quasi come un mancamento. Respirai e stabilizzai l’equilibrio, pensando subito ad un aumento di temperatura. Cercai il termometro e mi diressi in cucina, scansando l’idea di potermi ammalare. Non potevo concedermi quel lusso, non in quel periodo così delicato. Sia James che Mr. Abbott contavano sulla sottoscritta e dovevo rimboccarmi le maniche fin oltre le spalle per venire fuori da quella situazione ingarbugliata. Mi diressi in cucina, accompagnata dal piacevole odore di caffè che si avvertiva in tutta la stanza. C’erano anche numerosi biscotti disposti sul tavolo, come se fossero lì a darmi la dolce accoglienza che era mancata. Notai infine anche un biglietto, scritto di fretta. Era quasi impossibile evitare di lasciarsi sfuggire un sorriso quando vedevo la calligrafia infantile ed essenziale di Simone:

sono uscito prima per andare agli allenamenti.
il mister ci ha convocati per la partita di questo pomeriggio. ti ho lasciato i biglietti sotto la tazza per la colazione.
spero ci sarai :)
 
Se non fossi stata un completo fascio di nervi da quando mi ero alzata, sempre a causa di quella giraffona rinsecchita della Cloverfield, mi sarei perfino emozionata per quella premura. Era da un po’ di tempo che mi sentivo piuttosto strana, quasi meno… acida.
Non ero abituata, poi, a ricevere tutte quelle attenzioni, ad essere parte di un “qualcosa” che andava oltre un caffè freddo consumato sui sedili della Tube. Mi ero persino dimenticata come ci si sentisse a vivere da soli, nonostante fossero passati solo quattro mesi o poco più da quando avevo abbandonato il mio monolocale.
Scaldai un po’ di latte nel microonde, mentre misuravo la temperatura corporea. L’idea di prenotare una visita di routine dal dottor Ross mi solleticò la mente. Il mal di stomaco giornaliero e quei capogiri improvvisi non presagivano nulla di buono. Magari un controllo preventivo sarebbe stato utile, il dottore avrebbe potuto prescrivermi qualche tisana o rimedio naturale contro lo stress.
Tolsi il termometro e notai con sollievo che si trattava soltanto di una normale alterazione, niente di più. Accesi il telefono cellulare, controllando subito la posta elettronica e i vari SMS. Uno in particolare attirò la mia attenzione: James mi comunicava che la clinica pubblica St. Charles Bradbury aveva accettato la sua richiesta per il test di paternità. Era sarebbe bastato solamente fissare un appuntamento e attendere i risultati.
Rabbrividii fissando quel semplice messaggio lampeggiare sul display, perché per la sottoscritta aveva una quantità infinita di significati.
Sorseggiai il caffè-latte ricordandomi solo in quel momento dei biglietti per lo stadio. Spero ci sarai :) aveva scritto e l’idea di passare l’intero pomeriggio a rileggere deposizioni su deposizioni mi sembrò abbastanza stupido e banale. In fondo, cosa avrei potuto trovare che già non avessi esaminato minuziosamente?
D’improvviso mi saltò alla mente l’idea di chiamare James. Non era geniale come mossa, visti i nostri trascorsi sentimentali e i successivi attriti con Simone, ma avevo il bisogno di sentire e vedere qualcuno che subiva le mie stesse condizioni di stress.
Composi il numero e lasciai squillare.
Era una di quelle domeniche uggiose, quando le nuvole grigie si trovavano sospese tra l’arrivo di un nubifragio e una schiarita. Era una giornata tipo londinese, per cui non mi sentii nemmeno in colpa a sottrarre l’avvocato da qualche impegno mondano di maggior rilievo.
Potrebbe essere a casa con un’amica… suggerì arguto il mio subconscio.
«Pronto?»
Mi riscossi immediatamente dai miei pensieri. Assorta com’ero nelle mie riflessioni, non avevo nemmeno fatto caso agli squilli del telefono. «Buongiorno!» esultai. Che ore erano? Lo avevo svegliato, per caso? Possibile che nemmeno mi era passato per la mente che potesse dormire fino a tardi la domenica mattina? «Ti ho svegliato?» chiesi mortificata.
Dall’altro capo del telefono giunse un sorriso sbuffato. «Be tranquil, spaghetti-girl!» rise, facendomi tirare un sospiro di sollievo. «Ero già in piedi a rivedere alcune cose. Hai letto il messaggio del St. Charles?»
Risposi affermativamente ma non c’era alcuna nota allegra nella mia voce. James prontamente se ne accorse, anche senza guardarmi negli occhi. «Vedrai che da qualche parte c’è una soluzione, anche se ben nascosta,» mormorò, tranquillizzandomi, poi decise di cambiare discorso: «come mai questa telefonata?»
In poche parole gli spiegai che Simone mi aveva lasciato due biglietti per la partita di quel pomeriggio e implicitamente gli chiesi se fosse o meno opportuno andarci insieme – da amici, si intende.
«Cara Ven, ti confesso un piccolo segreto,» mormorò. Non avevo alcun secondo fine, lo ammetto, ma la paura che James potesse equivocare la nostra situazione cominciò a farsi strada dentro di me.
«Q-Quale?»
«Anche se l’Arsenal non è la mia squadra del cuore, penso comunque di accettare il tuo invito!» disse eccitato. Sorrisi perché, nonostante tutto, era riuscito a farmi dimenticare i miei problemi con un semplice gesto gentile.
«Ti passo a prendere verso le 14.30, così abbiamo tutto il tempo di raggiungere lo stadio, che ne dici?» mi propose, svelto.
«D’accordo, perfetto!» acconsentii.
Prima di chiudere la chiamata, aggiunse: «Comunque grazie di aver pensato a me per l’invito.»
E in quell’istante non trovai altre parole da dirgli se non un “Prego” stiracchiato e pronunciato a labbra socchiuse.
 
***
 
Segnai sull’agenda l’appuntamento dal medico, che avevo prenotato per quello stesso lunedì. La segretaria del dottor Ross era parsa piuttosto infastidita dalla mia telefonata domenicale, soprattutto perché non si trattava di un’emergenza, ma poco importava. Sentivo che c’era qualcosa di diverso nel mio fisico, come se non fossi al cento per cento delle mie facoltà, e sperai con tutta me stessa di non aver contratto qualche virus stagionale.
Ci mancava solo l’influenza a completare quel quadro di sfiga colossale.
Simone mi telefonò verso metà mattina, chiedendomi come stavo e se avessi intenzione di raggiungerlo allo stadio il pomeriggio per vederlo giocare. La sua premura per le mie condizioni di salute mi fece un po’ arrossire, soprattutto perché la nostra “relazione” alternava momenti di tenera vita di coppia – come quelli – a litigate furiose per le più grandi sciocchezze.
«Con chi vieni?» mi domandò, sul finale della telefonata.
Temporeggiai, pensando se fosse o meno il caso di dirgli che sarei andata con James. Sinceramente pensai ci fossero fin troppe bugie che vorticavano attorno alla mia vita, per cui preferii essere sincera. «James mi passa a prendere dopo pranzo.»
Come avevo immaginato, dall’altro capo del telefono ci fu silenzio. «Simo? Ci sei?» chiesi, pensando mi avesse appena riappeso in faccia. Giurai a me stessa che nel caso lo avesse fatto davvero, quella sarebbe stata la volta buona che gli avrei impedito di diventare padre per il resto della sua esistenza.
«Mhm, bene. Vi ho messi vicino a Sofia e Ruben, spero non vi dispiaccia,» mugugnò.
Se dovevo essere estremamente sincera, il saperlo geloso di James non mi disturbava affatto. Significava ci tenesse alla sottoscritta e al nostro “qualcosa”, privo ancora di una definizione. D’altra parte, però, mi dispiaceva arrecargli ulteriori preoccupazioni. Già aveva abbastanza pensieri suoi per la testa con tutta quella storia della paternità.
«Tranquillo, l’ho invitato anche perché ci hanno appena confermato il test all’ospedale St. Charles e volevo discuterne bene a quattr’occhi. Due piccioni con una fava,» dissi.
Lo sentii sospirare pesantemente dall’altro capo del telefono. «Okay, scusami ma ora devo andare. Il mister ci chiama.»
Nessuno ci fornisce le istruzioni per vivere una vita di coppia, per essere genitori o per affrontare al meglio un nuovo lavoro. Non è come leggere una ricetta, dove ti vengono fornite le dosi e ti basta seguire il procedimento per dar vita ad una vera delizia, un capolavoro per il palato. A me nessuno aveva detto come si gestisse una relazione e le mie mancate esperienze contribuivano a farmi annaspare nell’acqua sempre più alta.
Conciliare vita private e lavoro non era facile, soprattutto se bisognava lottare con le unghie e con i denti per un salario minimo in attesa di una qualche risposta da parte dei piani alti.
Sospirai, posando il Blackberry.
Lavai i piatti nel lavello e decisi di mettermi un po’ a lavoro, riordinando le scartoffie che popolavano il salotto di casa Sogno. Accesi il portatile e lo posai in grembo, decisa a rileggere una serie di vecchi articoli e casi passati che presentavano più o meno le stesse situazioni giuridiche.
Lo schermo LCD mandava una piacevole luce azzurrina, mentre i fogli cominciavano ad accumularsi sul divano e sul tavolinetto da caffè. Passai l’intera mattinata a leggere. Appuntai tutto il necessario su un block-notes giallo limone, riempiendolo di notizie apparentemente interessanti, ma rileggendo in ultimo le mie scoperte non avevo racimolato granché.
Lessi di una giovane donna e della sua relazione con un musicista. Lui non aveva riconosciuto il bambino nato da questo amore per cui erano finiti in tribunale. L’idea di un simile suggerimento mi pietrificò. Anche se poteva essere una strategia utile e dal punto di vista legale sarebbe stato lecito, sapevo che Simone non era codardo a tal punto da tirarsi indietro.
Era un puro atto di codardia.
Scartai a priori quella soluzione e passai avanti. Di figli indesiderati ne era pieno il mondo – a dimostrazione che a farli ci voleva davvero poco, poi il resto era tutt’altra storia – e internet straripava di casi analoghi. Filtrai la ricerca come meglio potevo, rifacendomi ai suggerimenti del professor Richardson: “limitatevi ad una sola parola chiave a cui ricondurre il nocciolo della vostra indagine, solo così potrete focalizzare l’attenzione sul colore, ignorando le sfumature.”
E constatai per l’appunto che il fulcro del caso era proprio in quel test del DNA.
L’unica e vera prova inconfutabile su cui faceva perno l’accusa era la convinzione che Simone fosse il padre del bambino, e fino ad ora avevano avuto loro le redini del caso. Indagai se ci fosse un modo per contraffarli e il metodo più accreditato era quello dello scambio di provette prima dell’analisi. Certo, sarebbe stata necessaria una collaborazione dall’interno e fornire una prova falsa in tribunale era un reato gravissimo.
Cercai di mettere da parte questo sospetto. Ammettendo che il test fosse vero, non c’era alcun modo di contraffarlo artificialmente, perché era quasi impossibile far combaciare gli alleli di entrambi i genitori, fornendo un campione falso.
Enorme buco nell’acqua, mi ripetei.
Alla seconda tazza di caffè della mattinata, decisi di cambiare metodo di ricerca. Afferrai la cartella con alcuni dei vecchi casi presi in esame dalla Abbott&Abbott e li riguardai uno alla volta, anche quelli che avevo precedentemente messo da parte. Alcuni erano addirittura stati archiviati da August in persona e mi sentii in soggezione a “spiare” il suo modus operandi.
Trovai un esempio piuttosto curioso, ma non ebbi tempo di esaminarlo a fondo perché non mi ero minimamente accorta di che ore fossero. Non avevo nemmeno pranzato ed ero vestita per metà.
Cucinai qualcosa al volo, finendomi di vestire mentre ancora trangugiavo una fetta di pane tostato con la marmellata. Entrai in camera di Simone come una furia – ormai era la camera in cui mi costringeva a dormire ogni notte, ma mi faceva strano chiamarla “mia” – e arraffai la prima cosa dell’Arsenal che mi capitò a tiro.
Presi una delle sue magliette, probabilmente una del set con cui faceva gli allenamenti, che sembrava più piccola delle altre, e la indossai sopra il maglioncino rimanendo piacevolmente sorpresa dall’odore che sprigionò sulla mia pelle. Rimasi ferma a crogiolarmi nel suo profumo quando il telefono iniziò a squillare. Riattivai in pochi secondi le mie facoltà mentali e capii che effettivamente ero in ritardo.
Afferrai chiavi e borsa, senza realmente guardare ciò che c’era dentro, ma riuscii prontamente ad afferrare il fascicolo da sottoporre all’attenzione di James. Avrei approfittato della sua presenza per parlargli e chiedergli consiglio, perché ogni attimo era prezioso a quel punto del caso. Il successo o meno di quella sentenza non valeva soltanto più il mio posto alla Abbott&Abbott, ma molto di più. Significava la libertà di Simone e la speranza di costruire qualcosa che non partisse già con il freno a mano tirato.
Scesi di corsa le scale caracollando come una forsennata, tant’è che il portiere tentennò a darmi il buongiorno, impaurito da una mia possibile reazione. James mi aspettava al portone d’ingresso, stranamente abbigliato in modo molto casual per i suoi standard. Il cappotto di tweed era stato sostituito da una giacca a vento sportiva e al posto del completo gessato, portava un paio di jeans che gli fasciavano le gambe nei punti giusti.
E che punti… intervenne Cervello.
Taci o è la volta buona che mi ubriaco fino a spappolarti!
A completare quell’outfit casual, c’era l’immancabile sciarpa bianca e rossa dell’Arsenal.
«Sono in ritardo?» chiesi, pronta a scusarmi.
Lui mi sorrise raggiante. «No, sono in anticipo. Ho fatto presto per assicurarmi di non essere in ritardo, pensa te,» ridacchiò. «Sono stato invitato e non è cosa buona presentarsi ad un orario non consono per un appuntamento.»
Alla parola “appuntamento” sbiancai leggermente, ma dall’espressione tranquilla dell’avvocato era più che evidente quale fosse il vero significato di quella parola. C’erano stati dei trascorsi, questo è vero, però avevo tutta l’intenzione di recuperare la nostra amicizia.
«I biglietti ci sono, le chiavi le ho prese, il telefono c’è…» elencai, facendo mente locale e constatando di aver preso almeno le cose essenziali per tornare a casa. «Direi che possiamo anche andare!»
«Forza Gunners!» esultò lui, prendendomi sottobraccio e uscendo dal portone.
 
***
 
Una delle più grandi comodità di Londra era proprio la Tube. Le linee coprivano molte zone della città, compresa la periferia. La Black Line, ad esempio, raggiungeva persino la zona di Greenwich e l’osservatorio, disposti fuori la City.
L’Emirates si trovava lungo la Piccadilly Line, in direzione nord. Bastava scendere alla fermata “Hollywood Road”, fare una decida di passi a piedi e trovarsi subito l’ingresso davanti agli occhi. Prendere la macchina non era un crimine per i cittadini inglesi, ma sia io che James eravamo più che propensi ad usufruire della Oyster Card. Inoltre, sul treno diretto allo stadio già si percepiva l’aria festaiola degli hooligans.
Il nostro primo incontro, poi, non avrei potuto dimenticarlo. Il mio primo giorno di tirocinio e ci eravamo incontrati nello stesso vagone diretto a Oxford Street, quasi fosse un segno del destino.
«Cos’hai in quella cartella?» mi domandò curioso, riscuotendomi dai ricordi. Il vagone si muoveva a tutta velocità, con i tifosi che inneggiavano già i cori della loro squadra. La voce metallica che annunciava le fermate si riusciva a percepire a mala pena.
Cercai di superare il frastuono avvicinandomi. «Ho trovato una cosa interessante frugando tra i casi di tuo zio August,» dissi gongolando. «Mi ci sono messa d’impegno stamattina.»
James spalancò i grandi e luminosi occhi azzurri. «Dimmi, sono tutto orecchi!»
Utilizzai quei quindici minuti di viaggio per esporgli brevemente le mie scoperte: in pratica, diversi anni addietro scoppiò uno scandalo a Cambridge, quando un noto professore – giovane e dal futuro promettente – un certo Gary Chauser che scoprì di essere stato citato in giudizio da una sua studentessa.
«Il professor Chauser aveva da poco ottenuto la cattedra di Lettere antiche, uno di quei concorsi del ’98 che permisero a molti giovani promettenti di rimanere tra le mura dell’università e insegnare, ma questa ragazza – Sally Clarckson – a fine semestre mise in giro la voce che l’aitante professore, oltre ad averle dato la lode nel suo corso di studi, le aveva anche “lasciato” qualcos’altro.»
James era immobile, attento anche al più piccolo particolare. «Mi domando come mi sia potuto sfuggire un’analogia del genere. All’epoca fu abbastanza seguito dai media.»
Annuii convinta. «Tuo zio ottenne subito il caso e si incaricò della difesa del professor Chauser, il quale rischiava di perdere la cattedra appena ottenuta e, più importante, di vedere la sua reputazione completamente infangata.»
L’altoparlante annunciò la nostra fermata, così mi alzai e mi diressi alle porte automatiche.
«E come andò a finire?» domando l’avvocato, completamente a corto di memoria.
Sorrisi perché la peculiarità di quel caso stava proprio nella sua soluzione. Mi ero presa la briga di indagare soltanto sui casi risolti, sperando in qualche illuminazione da parte di qualcuno che prima di me aveva avuto più fortuna, invece non avevo ampliato i miei orizzonti.
Stavolta ho dato importanza alle sfumature, professor Richardson.
«Tuo zio non ha mai risolto questo caso, ha perso la causa,» ammisi, con un po’ di rammarico. «Fu una delle rare volte in cui lo studio dovette farsi carico delle proprie responsabilità e arginare il più possibile i danni. Si scoprì che il professore aveva avuto davvero una relazione clandestina con quella studentessa, dunque finì col perdere tutto ciò per cui aveva lavorato sodo.»
Scendemmo dal vagone e ci dirigemmo ai tornelli, inserendo nuovamente la tessera.
James mi guardava dubbioso. «E tutto questo come potrebbe tornarci utile?»
Era il motivo per cui avevo scartato di netto i casi irrisolti, impilandoli in una serie di carte che non erano degne della minima attenzione. Invece, al loro interno, nascondevano ben altro in serbo per noi.
«Beh, è semplice,» rivelai. «Sally Clarckson non è stata sempre incinta.»
 
L’Emirates Stadium era sempre uno spettacolo per chi non era abituato a vedere tutta quella gente seduta sugli spalti. La sottoscritta, poi, non conosceva proprio il concetto di “tifo”, o meglio, credevo si potesse tradurre in una pratica tribale e quasi incivile.
Urlare e spintonarsi come pazzi per dieci uomini che correvano dietro a un pallone…
Alla fine, però, mi ero fatta influenzare in qualche modo. L’atmosfera di allegria e coinvolgimento che si respirava era stimolante, riusciva stranamente a distrarmi dai pensieri e ad aprirmi la mente.
«Ehi, Vennie!» mi sentii chiamare.
A qualche fila di sedili più in basso notai la testa bionda e riccioluta di Sofia. Accanto a lei, l’immancabile Ruben dallo sguardo sveglio e vigile: una triglia in pratica.
«Arriviamo!» le dissi, facendomi largo tra i tifosi che se ne stavano in piedi senza decidere cosa fare. Alla fine sbottai un “Permesso” molto infastidito, rivolgendomi a James e sbuffando: «Possibile che nessuno trovi i propri posti a sedere qui? Eppure sono numerati!»
James sorrise divertito.
Allora lo fulminai con lo sguardo. «Cosa c’è da ridere?»
Dovevo ammettere di essere più acida del solito in quel periodo. L’avvocato prontamente si scusò, da vero gentleman e poi aggiunse: «Sugli spalti, tra gli abbonati, si crea una sorta di “legame familiare”. Avere una passione in comune, ritrovarsi ogni maledetta domenica [1] seduti allo stesso posto… è come se fossero riuniti in un grande salotto in attesa del brunch.»
Soppesai le sue parole, tentando di dargli un senso, ma mi arresi alzando le spalle.
Non avrei mai capito il calcio, c’era poco da fare. Magari avrei potuto anche vederlo, sopportarlo, ma impiegare più del 5% del mio intelletto era già un grande regalo.
Alla fine raggiungemmo Sofia e Ruben.
«Ce l’avete fatta! Sono contenta,» ammise, lanciandomi uno sguardo perplesso quando si accorse effettivamente di chi fosse il mio accompagnatore. Le sorrisi, rimandando possibilmente la questione a un “ne parliamo dopo”. Per mia fortuna, l’inno della squadra di casa riempì gli altoparlanti dello stadio, seguita dal coro di tifosi agguerriti.
«Eccoli, stanno entrando!» esultò la biondina, indicando dei piccoli puntini in maglia rossa e calzoncini bianchi che si disponevano in campo per il riscaldamento. «Simo dovrebbe partire da titolare.»
Mi sorse spontanea una domanda. «Di solito non lo è?»
Sapevo che Simone Sogno era una specie di ragazzo prodigio, per cui mi parve piuttosto strano che il suo allenatore non lo sfruttasse sin dai primi minuti di gioco.
Sia Ruben che Sofia si scambiarono uno sguardo dubbioso, ma fu Jamie ad intervenire. «Mi sono tenuto informato. Ultimamente i quotidiani sportivi hanno penalizzato di molto il rendimento in campo di Mr. Sogno. Non avendo alcun indizio sul caso giudiziario di cui è protagonista, i giornalisti hanno ipotizzato ad una pessima condizione fisica e nelle ultime due partite è stato sostituito.»
Rimasi allibita. Passavo ogni momento della mia giornata al suo fianco, sia per questioni di lavoro che di piacere, ma non si era mai preso la briga di parlarmi dei suoi problemi.
…e tu nemmeno glielo hai domandato.
Un conto era condividere il letto e la casa, un altro era affrontare i propri problemi anche quando esulavano dalla questione della paternità.
«Quindi… è una buona cosa?» chiesi, titubante.
Mi rimproverai mentalmente per non essere stata in grado di accorgermi dei suoi problemi, troppo concentrata su quelli che pensavo fossero fondamentali.
Sofia mi sorrise. «Significa che in allenamento ha dimostrato qualcosa e gli hanno dato un’occasione per riscattarsi, penso.»
Spostai lo sguardo sul campo da gioco e fissai gli omini al centro del campo. Anche se sapevo poco o niente delle regole del gioco non m’importava, ero decisa a fare il tifo. Sapevo che non avrebbe fatto la differenza tra tutte quelle urla, che Simone non avrebbe mai sentito l’urlo d’incitamento della tribuna, eppure durante tutto il match gridai con quanto più fiato avessi in corpo.
James mi supportò in tutto e per tutto, lasciandomi meno sola.
Alla fine dei primi quarantacinque minuti di gioco, il risultato era ancora fermo sullo zero a zero, ma c’erano state numerose azioni da ambo le parti. Due, in particolare, mi avevano addirittura fatto venire le palpitazioni per quanto fossi in ansia.
Dovevo ammettere che la sensazione era piuttosto piacevole, dopotutto. Una specie di antico furore battagliero che si risvegliava prepotente dalle mie viscere contorte dallo stress. Fui quasi tentata di dare ragione a mio padre, ma tornai sui miei passi ricordando l’imbarazzo che mi suscitava quell’uomo.
Durante l’intervallo, Ruben tornò con qualche bel panino farcito e biscotti di varia natura che arraffai il più velocemente possibile. Non era da me quell’aria famelica, ma avrei pensato alla linea più tardi, verso l’estate magari.
Attribuii tutto quell’appetito alla foga con cui mi sbracciavo per migliorare la mia tifoseria.
«Sofi, posso farti una domanda?» dissi infine, alla sorella del mio quasi-ragazzo. «In che settore ci troviamo esattamente?»
Avevo notato la presenza attorno a noi di giovani donne con tanti bambini. Avevo pensato all’inizio che si trattasse di una specie di camping, un evento sportivo che prevedeva una gita allo stadio, ma Ruben intervenne. «In questo settore, in genere, vengono ospiti le famiglie e gli amici dei giocatori,» spiegò, senza alcun tentennamento. In presenza di Sofia era quasi impossibile sentirlo balbettare, quasi si trattasse di un’altra persona. «I bambini che vedi sono i figli oppure i nipoti dei calciatori.»
Mi guardai meglio attorno, ma ne rimasi delusa. Nessuno di loro sembrava realmente interessato alla partita, come se si trovassero al campetto parrocchiale. Le ragazze passavano quasi tutto il tempo al telefono, o anche utilizzando tablet per farsi foto indecenti che poi avrebbero postato in qualche social network solo per farsi ammirare. Ridicole.
I bambini venivano lasciati a loro stessi: alcuni piangevano, altri si annoiavano, nessuna delle mamme che si prendeva la briga di ricordare loro quale fosse il papà che aveva appena fatto un’azione da gol.
«A cosa stai pensando, Ven?» mi chiese James, vedendomi assorta.
Scrollai le spalle, fingendo indifferenza. «A niente. In televisione sembra sempre che le vite private di questi personaggi famosi siano tutte rose e fiori, invece qui noto soltanto menefreghismo e falsità.»
L’avvocato sorrise. «Oh, spaghetti-girl,» mormorò sincero. «Sei una ragazza unica. Penso che chiunque riesca ad acchiapparti, deve tenerti davvero stretta per non lasciarti andare.»
Un brivido mi corse lungo la spina dorsale, ascoltando quelle parole. Alla fine, io e James eravamo sempre stati attratti l’uno dall’altra e avevamo condiviso anche un certo tipo di legame. Non potevo rimanere indifferente a quelle sue parole.
Tentai di non pensarci e decisi di fare un patto con me stessa: se mai fossi rimasta al fianco di Simone, aiutandolo anche a crescere come padre, di sicuro non mi sarei comportata come le altre donne lì presenti. Avrei fatto di tutto per dimostrare al futuro bambino o bambina quanta meraviglia ci fosse nell’avere un papà del genere.
 
La partita si concluse con un gol da parte di Simone nei minuti finali di recupero. Si udì un boato che partì dalla curva dei tifosi più accaniti, fino alle tribune dove sedevamo. Fu come una specie di risveglio, perché le mogli annoiate e impegnate con i loro dispositivi elettronici parvero rianimarsi e trasformarsi improvvisamente tifose di prim’ordine.
Tutta apparenza per le grandi telecamere e la cronaca rosa.
Tornammo a casa decisamente più leggeri, dopo quella vittoria personale che mancava ormai da tempo per Simone – date le ultime notizie dei giornali sportivi. Mi premurai di fare qualcosa, almeno di affrontare l’argomento una volta che fosse rientrato, e decisi di passare al supermarket per cucinare qualcosa di sfizioso in occasione della grande serata.
James si offrì di aiutarmi con le pesanti buste di carta.
«Hai deciso di festeggiare, insomma.»
Annuii convinta. «O almeno ci provo. Diciamo che non mi sono mai distinta come cuoca, a quello ci pensa sempre mia madre.»
Il ricordo della signora Francesca che in occasione del pic-nic di Ferragosto iniziava due settimane prima ad impanare le fettine da friggere, mi fece rabbrividire. Che infanzia traumatica che avevo avuto!
«Sono sicuro che sarà una cena deliziosa,» mi rassicurò l’avvocato.
Pensai di invitarlo, visto che era stato così gentile da accompagnarmi e da aiutarmi con i lavori più pesanti eppure quell’offerta mi si bloccò sulla punta della lingua. Rimase lì ad indugiare, quasi come un tuffatore sul trampolino di lancio.
Salimmo nell’appartamento e posammo gli ingredienti sul tavolo della cucina. «Qui sembra tutto in ordine,» pronunciò James sorridente. «Il mio compito qui è finito, e si è fatto anche tardi. Penso che tornerò a casa a pensare a ciò che mi hai detto sul caso Chauser-Clarckson.»
Sorrisi. «Se vuoi posso farti una copia del fascicolo,» proposi.
Lui declinò. «Ho tutto salvato nell’hard disk, il mio problema è stata la negligenza. Ho scartato subito quei casi che non erano stati risolti, per paura di perdere tempo e fare un enorme buco nell’acqua,» poi si prese un momento per elaborare meglio i pensieri.
Si avvicinò sicuro, posandomi una mano sulla spalla e chinandosi. Avrei voluto chiudere gli occhi d’istinto, più che altro per paura che potesse aver frainteso qualcosa, ma le sue parole mi frenarono.
«Sono contento di avere te come comandante in seconda,» mi disse, tranquillo. «All’inizio pensavo fossi interessata soltanto al posto fisso nello studio, come la maggior parte dei tuoi colleghi, eppure adesso vedo l'estrema passione che ci metti in quello che fai. Le ricerche fino a notte fonda, la vita privata messa da parte per la carriera, ne ho parlato con mio zio August e lui si rivede molto in te. Ha detto che gli ricordi lui i primi anni da avvocato. La passione, in questo lavoro, è tutto e tu ne sei piena.»
Infine si chinò per lasciarmi un casto bacio sullo zigomo. «Con te al mio fianco, sono sicuro che riusciremo a venire fuori da questa situazione.»
Sorrisi. «Ne sono certa.»
E ne ero davvero sicura, quasi al cento per cento. Quella nuova svolta nel caso ci permetteva almeno di sperare, cosa che dopo il risultato del test di paternità ci era quasi stata proibita. Arginare i danni era tutto ciò che eravamo in grado di fare, ma adesso c’era dell’altro.
«Credo sia meglio che vada, non vorrei che Mr. Sogno mi trovasse nei suoi appartamenti a discutere di tutto tranne che di lavoro!» ridacchiò.
Lo accompagnai alla porta, salutandolo. «Ti ringrazio per avermi fatto compagnia oggi, James.» era forse una delle rare volte che usavo il suo nome per intero, senza “Jamie” oppure “ehi, collega!”.
Lui non sembrò rammaricarsene. «Ringrazio io te, per l’invito. Mi sono divertito molto oggi, soprattutto perché non ho mai tempo per questo tipo di svago. Inoltre, al tuo fianco il tempo passa molto più leggero e mi ha fatto bene staccare dal ritmo frenetico del nostro lavoro.»
«Ogni tanto ci vuole, infatti.»
L’avvocato mi sorrise e fece per imboccare l’uscio quando, presa da chissà qualche ispirazione, lo fermai. I suoi occhi incrociarono i miei, dubbiosi. «Senti,» incespicai. Non sapevo nemmeno io la ragione per cui avvertii il bisogno di chiederglielo. Forse perché avevamo in comune più di quanto volessi ammettere, oppure perché non avevo voglia di creare a Simone ulteriori pensieri, per cui lo feci, senza indugiare oltre.
«Domani avrei una visita di controllo dal mio dottore, niente di che, non preoccuparti,» lo anticipai, vedendo la sua espressione preoccupata. «Ultimamente lo stress mi sta uccidendo, così ho pensato di farmi prescrivere qualcosa di naturale, come una tisana.»
James sembrò comprendermi. «Succede anche a me, ma non devi stancarti troppo per il lavoro!»
Sorrisi per la sua premura. «Tranquillo, volevo soltanto chiederti se ti andava di accompagnarmi dopo la giornata allo studio, diciamo verso le 18.00. Se hai altri impegni, posso capire…»
«Ci sarò,» disse sincero.
Ci salutammo definitivamente e mi adoperai subito per preparare un bellissimo e gustoso dolce per il rientro di Simone. Non ero il tipo da fare cose sdolcinate, come la maggior parte delle ragazze quando erano innamorate…
non sono innamorata, sia chiaro!
Eppure sperai che almeno apprezzasse lo sforzo. «“Scaldare il latte in un pentolino e poi unirlo al composto poco alla volta, continuando a mescolare, per non lasciare grumi.”» recitai, seguendo alla lettera la ricetta che avevo trovato su internet.
Notai che effettivamente si era fatto piuttosto tardi, per cui decisi che avrei saltato giusto qualche passaggio della ricetta per sbrigarmi. Era di vitale importanza che finissi di cuocere il dolce prima che Simone tornasse dalla partita, almeno per fargli una sorpresa. Il composto sembrava avere la giusta consistenza, anche se appariva lievemente bitorzoluto per via dei grumi di farina che continuavano ad esplodere ogni volta che li toccavo, sollevando una nuvola di polvere bianca.
Vennie cara, vuoi davvero servirgli quella porcheria?
La voce di mia madre si fece largo nella mia testa e, come un tarlo, inserì lentamente un dubbio dopo l’altro facendo vacillare la mia sicurezza. Avrei davvero avuto il coraggio di servire quella roba? Io che non sapevo nemmeno cucinarmi un uovo?
Nella fretta di impastare, avevo perfino dimenticato di aggiungerci il lievito. Lo feci in ultimo, mescolando alla bell’è meglio, ma non appena sentii il rumore di passi sul pianerottolo schiaffai velocemente la teglia nel forno lanciandola come un’atleta delle olimpiadi.
Alzai la temperatura attorno ai duecento gradi, tanto per velocizzare i processo.
Sapevo che la pasticceria era un’arte, che la temperatura del forno non andava mai aumentata oltre i 180°, eppure decisi di rischiare.
Conscia di avere un aspetto terribile, con il grembiule annodato in vita e la faccia sporca di farina, tentai di darmi la rassettata dell’ultimo minuto.
Simone entrò in casa qualche secondo dopo. «Credo che i signori del piano di sotto stiano cucinando. Si sente un odorino…»
«Veramente…» tentennai, asciugando le mani su uno strofinaccio.
Per poco Simo non ci rimase secco, vedendo la cucina sporca di farina. «Hai invitato mia madre, per caso?» domandò allarmato.
«No, perché?» domandai sorpresa.
Lui alzò le mani. «Spero che tu non abbia detto a qualcuno di venire, perché sono stremato e non ho alcuna voglia di mettermi in ghingeri,» sbottò.
Il nervosismo tornò a tormentarmi. «Senti, non ho invitato anima viva. Volevo soltanto fare qualcosa visto che oggi hai segnato, ma evidentemente non sei dell’umore giusto per cui ho soltanto perso tempo.»
Gli occhi scuri di Simone si allargarono come pozze di petrolio sull’asfalto. «H-Hai fatto tutto questo per me?» chiese, quasi sbigottito.
Di certo, detto in quel modo, sembrava quasi un comportamento smielato. Mi affrettai a negare ogni cosa, tanto per rimanere in territorio neutrale. «Direi che l’ho fatto per me, avevo voglia di dolce.»
La giustificazione del mio egoismo non resse molto, perché ben presto sentii le grandi mani di Simo cingermi la vita e schiacciarmi tra il bancone della cucina e il suo corpo.
Scostai il viso, giusto per cercare il suo sguardo, e lo trovai così diverso dal solito, così espressivo.
«Potrei abituarmi ad essere viziato così,» sogghignò.
A quel punto l’atmosfera scottante si ruppe ed io ebbi il tempo di rifilargli una piccola gomitata all’addome per liberarmi dalla sua stretta. «Non ti ci abituare, dovrei essere io quella viziata.»
Era quantomeno normale che ogni donna dovesse sentirsi apprezzata e coccolata.
Simone ci pensò su. «I biglietti dello stato te li ho regalati, potevo farti benissimo pagare…» ipotizzò.
Lo fulminai con un’occhiataccia. «Ma se te li danno gratis!» sbottai.
Lui cominciò a ridere della mia reazione, come al solito esagerata, ed io capii che stava facendo di tutto per farmi arrabbiare, proprio perché quei teatrini tra di noi, per quanto fossero sfiancanti, alla fine riuscivano a toglierci molti pensieri.
D’improvviso ebbi come l’impressione di essermi dimenticata qualcosa di molto importante.
«Non senti anche tu una lieve puzza di bruciato?» sorrise il calciatore.
Spalancai gli occhi in preda al panico, afferrando le presine di corsa e aprendo il forno elettrico da cui usciva un filino di fumo nero. La teglia andava letteralmente a fuoco e rischiai anche di bruciarmi due dita, ma per fortuna riuscii a cavarne fuori ciò che rimaneva del dolce.
Simone assistette a tutta la scena, con un’espressione particolarmente divertita.
«Che hai da ridere?» ringhiai.
«Niente,» disse lui, facendo spallucce.
Gli puntai il dito contro, minacciosa. «Sappi che se si è rovinata, è solo colpa tua!»
Per una volta che avevo pasticciato un po’ in cucina, impegnandomi più del dovuto in una cosa non necessaria, Simone aveva mandato tutto a rotoli.
«Mia?» ridacchiò. «E perché mai?»
Riuscii a trovare un piatto da dolce e guardai rammaricata la torta che cominciava a prendere un colorito molto scuro… quasi abbronzato. Se quel calciatore da strapazzo non mi avesse distratto, avrei calcolato benissimo i tempi di cottura. Alla perfezione!
«Ti sei messo a blaterare e mi hai distratto.»
Non capivo per quale motivo Simone Sogno trovasse divertente tutta quella situazione. Era una cosa grave, soprattutto per la puzza di bruciato che adesso si stava diffondendo per tutto l’appartamento.
«Ridi di meno e vai ad aprire le finestre, sennò asfissiamo qui dentro,» sbottai.
Fece come gli avevo chiesto, poi fu subito al mio fianco per aiutarmi. «Faccio io, altrimenti ti bruci,» disse, afferrando il guanto da forno.
Con un movimento fluido riuscì a staccare la torta dalla teglia e a depositarla sul piatto da dolce. Per fortuna l’impasto non si sgretolò, ma l’aspetto generale della torta era pessimo.
Variava da un colorito giallo oro, al marrone più scuro – quasi nero – ai bordi. Di sicuro era dura come un mattone ed io non avevo alcuna voglia di essere presa ulteriormente per i fondelli, per cui feci per afferrare il dolce e lanciarlo direttamente nella spazzatura.
Simone però mi bloccò entrambe le mani. «Che fai?» chiese allarmato.
«Dai, è immangiabile. Siamo realistici,» sbuffai.
Il suo sguardo sembrava piuttosto serio, irremovibile. «Questo dolce lo hai fatto per me o no?» chiese, sorprendendomi con quella domanda.
Annuii.
«Allora, se permetti, voglio mangiarlo. Lo hai cucinato per me, quindi è mio. Non puoi buttarlo,» mormorò convinto. Afferrò il piatto e lo rimise sul bancone, cercando un coltello abbastanza grande (e resistente, soprattutto) per affettare la torta.
Quel suo comportamento mi lasciò di stucco. Mai avrei pensato che un gesto così semplice e istintivo da parte mia, riuscisse a far breccia in quel calciatore egoista e spocchioso. Mi sedetti al suo fianco e lo osservai dare il primo morso.
Sapevo che aveva un aspetto orribile, ma Simo non lo diede a vedere.
Mangiò tutta la fetta, fino all’ultima briciola, senza aggiungere una parola. Non mi sentii nemmeno di insistere per buttarlo, visto che ci teneva così tanto.
«Tutto sommato, è buono,» se ne uscì, alla fine.
«Non serve mentire, lo so che ha un sapore orribile.»
Simone allora ne strappò un pezzo con le mani e me lo avvicinò alle labbra. «Assaggia e smettila di blaterare per una volta.»
Stavo per rispondere piccata, quando mi ficcò letteralmente il pezzo di dolce in bocca.
Sulle prime si avvertì subito il sapore forte di bruciato, magari eliminando la parte più scura si sarebbe potuto salvare il resto dell’impasto, ma dovevo ammettere che aveva un buon sapore vanigliato.
«Allora?» chiese.
Ammisi a me stessa che forse, qualche volta, avrei dovuto dargli ragione. «Non è male.»
Sorrise soddisfatto di sé stesso, poi si allungò prendendomi il viso tra le mani e cercando subito le mie labbra, ancora sporche di briciole.
Sulle prime fui sorpresa, poi intrecciai le mani tra i suoi folti capelli scuri e il mondo sembrò sparire attorno a me. Simone era capace di farmi dimenticare tutto, ogni preoccupazione si dileguava nel momento in cui le nostre bocche si sfioravano. Aveva un potere annullatore, quasi annichilente. Percepii distintamente il sapore di vaniglia, il mio stesso dolce che si mischiava tra le nostre labbra e diventava parte di noi ad ogni bacio.
«Grazie,» disse lui, infine. «Per la torta.»
Risi come un’ebete. «Capirai... l’ho anche bruciata. Per colpa tua, ovviamente,» puntualizzai.
Lui, per tutta risposta, allungò una mano e mi spettinò i capelli.
«Ehi!» protestai. Il giorno dopo sarei dovuta andare in ufficio, non potevo presentarmi come una sciattona, ecco.
«Smettila di polemizzare su tutto e accetta un complimento, una buona volta,» mi rimproverò. «Nessuna ragazza ha mai cucinato per me, forse perché le modelle erano troppo impegnate a non mangiare per pensare al sottoscritto.»
Non ci avevo pensato minimamente. Avevo sottovalutato questo aspetto in una relazione, il piacere di fare un piacere a qualcuno, un semplice gesto – come un dolce riuscito male – che aveva un significato tutto personale. Magari non sarei stata in grado di partecipare a Masterchef, però adesso ero sicura di aver fatto un buon investimento del mio tempo.
«Tecnicamente anche io sono una donna in carriera,» chiarii subito, specificando i miei numerosi impegni. «Inoltre, non avevo mai cucinato un dolce.»
«Sono felice di essere stato la tua prima volta,» ridacchiò, calcando molto il tono quando si parlava di prime volte.
In quell’occasione mi rifiutai categoricamente di fare la bacchettona, visto che la battuta ci stava ed era anche molto carina. Gli sorrisi un po’ complice.
«Insomma? Ti sei divertita con l’avvocato?»
Ovviamente quel clima di festosità doveva per forza interrompersi citando la persona che più creava disagio tra di noi. Sbuffai. «Sì, ma non è come pensi. Siamo solo amici.»
«Colleghi, vorrai dire,» specificò lui. «Anzi, tecnicamente lui è il tuo capo.»
Odiavo quando doveva necessariamente mettere tutti i puntini alle i, sottolineando il fatto che fosse infastidito enormemente dalla presenza dell’avvocato. Purtroppo non potevo semplicemente smettere di frequentarlo, come avrei potuto fare con un altro ipotetico ragazzo. James era il mio capo, il mio mentore nel periodo di tirocinio alla Abbot&Abbot, era anche una specie di “ex”, perché ci eravamo frequentati per un certo periodo ed era il nipote del titolare dello studio.
Cosa avrei potuto fare?
«Smettila di fare il bambino, lo sai che dobbiamo risolvere questo caso,» gli ricordai.
«E dopo?» s’imbronciò lui.
«Dopo cosa?»
Simone si alzò dalla sedia per lanciarsi di peso sul divano del salotto. Mi fissò da lontano, rimanendo estremamente serio. Alla fine mi fece cenno di sedermi accanto a lui.
«Insomma?» insistetti, aspettando che mi cingesse le spalle con un braccio, avvicinandomi al suo corpo.
Aveva il cuore che batteva forte, anche se il battito era chiaro e regolare. Quasi ipnotico. «Mi chiedevo se dopo che tutto questo sarà finito,» disse, riferendosi ovviamente alla causa Cloverfield-Sogno. «Tu e lui… insomma, potresti anche cambiare partner di lavoro. Magari trasferirti in qualche altro studio?»
Mi stava forse chiedendo di rinunciare al mio sogno, soltanto per una questione di gelosia? Era forse impazzito?
Tentai di fare dei grandi e lunghi respiri, giusto per non sbottargli come una pazza isterica. «Innanzitutto, è inutile fasciarsi la testa prima di romperla,» anticipai. «Ancora non sappiamo nulla di questa causa, e non vorrei portarmi sfiga. Essere socia della Abbott&Abbott è stato sempre il mio sogno più grande, da quando sono venuta a studiare qui a Londra. È come se io ti chiedessi di non giocare, o di cambiare squadra perché me ne voglio tornare a Roma. Tu lo faresti? Rinunceresti ai tuoi sogni per un’altra persona?»
Lui ragionò sulle mie parole. «Dipende dalla situazione,» disse infine.
Sapevo che avevamo un modo di vedere le cose totalmente diverso, soprattutto in relazione alla carriera. La storia dell’imminente paternità tornò a tormentarmi, come un tarlo che continuava imperterrito a scavarsi una tana profonda nel mio cervello.
Dipende dalla situazione.
La storia con Elizabeth sarebbe stata una ragione sufficiente da farlo rallentare? Avere degli obblighi nei confronti di un’altra donna avrebbe potuto minare quella nostra strana convivenza?
A quel punto decisi di espormi.
«Io non ti chiederei mai di rinunciare ai tuoi sogni per me,» dissi. «Penso che più tieni ad una persona e più desideri il meglio per lei, qualunque esso sia e qualsiasi sacrificio comporti per te. Almeno è quello che io penso.»
Simone mi guardò intensamente, recependo il significato delle mie parole, una per una. Notai come imparasse giorno dopo giorno ad essere un po’ più adulto, e ripensai a quando lo avevo conosciuto, qualche anno fa, insieme a Celeste, e a quanto fosse cambiato. Fui orgogliosa dei suoi cambiamenti, soprattutto vista l’imminente paternità.
Ero quasi sicura che se la sarebbe cavata egregiamente, in qualsiasi situazione.
«Hai ragione, non dovevo chiederti quelle cose,» ammise infine.
Sghignazzai. «Simone Sogno che ammette che ho ragione! Domani succederà il finimondo!»
Vedendo come mi ero aggrappata a quella scusa per prenderlo in giro, si vendicò con una massiccia dose di solletico.
Mi costrinse a sdraiarmi di schiena sul grande divano in salotto, con lui prepotentemente schiacciato sopra di me che infieriva senza alcuna pietà. Fui costretta ad arrendermi alla fine, anche se il mio orgoglio ne sarebbe uscito duramente sconfitto.
«Basta! Basta ti prego!» riuscii ad implorarlo, tra una risata e l’altra.
Simone obbedì, senza però alzarsi. «Nessuno è superiore al sottoscritto. Sono perfetto e bellissimo.»
Gli afferrai il viso tra le mani e cominciai a stropicciargli la faccia, quasi fosse fatta di pasta modellabile. Ridacchiai ad ogni espressione demente che veniva fuori dalle sue boccacce, pensando che nonostante tutto, rimaneva comunque il ragazzo più bello che avessi mai conosciuto.
Mi viene da vomitare, asserì il mio Cervello, pensando a quanto fossi diventata sdolcinata.
Lo zitti mentalmente perché non avevo voglia di rimproverarmi per qualcosa che ormai sentivo così naturale. Lentamente, giorno dopo giorno, avevo imparato a conoscere Simone, a vedere ciò che c’era oltre la superficie, al di là di quella maschera spocchiosa e arrogante che si costringeva ad indossare per proteggersi dagli altri.
«Non mi fenfo più le guanfe!» protestò lui, con la bocca a pesce palla.
Sorrisi. «Esagerato, ti lamenti per qualche buffetto innocente!»
Si liberò dalla mia presa ferrea, cercando le mie labbra in un bacio veloce. «Io con questa ci lavoro,» e si indicò la faccia. «Sai quante pubblicità ho fatto? Tsé, meglio di Cristiano Ronaldo.»
«Pensavo facessi il calciatore, non il modello,» puntualizzai.
Lui ci pensò un po’ su, poi mi sorrise malizioso. «Ho svariati talenti, a dire la verità.»
A quel punto decisi di assecondare quella situazione equivoca. «E mi dica, Mr. Sogno, in quale altro ambito spaziano i suoi numerosi talenti?»
Non mi rispose, ma vidi le sue grandi mani intente a liberare, una alla volta, le asole dai bottoni del mio golfino. Il resto, lo si può tranquillamente immaginare.

[1] si riferisce all'omonimo film con Al Pacino.


Bene, eccoci arrivati a fine capitolo!
Vi devo delle profondissime scuse, in quanto ci ho messo un sacco di tempo per sfornare sto capitolo, ma non avevo ispirazione. L'ho iniziato più volte e mai concluso, perché adesso la situazione si sta infittendo e devo mettere bene in tavola tutte le carte e dare un certo senso alla faccenda. Mi ci vuole del tempo, poi tra tutti gli altri impegni ne ho avuto poco.
Comunque ringrazio chi mi ha sostenuto sempre, anche nel gruppo, postando foto e ricordandomi ogni tanto che c'era da scrivere una nuova avventura per Simone e Venera, e anche su ask.
Sì, ammetto che anche gli anon sono stati abbastanza utili per rimboccarsi le maniche :3
Bene, cosa dire? Idee su come possa svolgersi il resto della storia?
Ammetto che non intendo tirarla ancor più per le lunghe. Sono già tanti capitoli e belli corposi, per cui questo caso si sta trascinando anche troppo oltre (poi rischiamo di finire in Italia eh!).



   
 
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