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Autore: vannagio    10/02/2014    10 recensioni
Quella era davvero una giornata del cazzo. E JD ne aveva le palle gonfie, di quella merda. Dieci farfalline in un giorno erano troppe per fino per il Santo Protettore Dei Tatuatori. Che forse non esisteva affatto, vista e considerata la ragazzina che era appena entrata nel suo negozio di tatuaggi. C’era solo un tipo di ragazza che JD detestava più della solita Barbie Voglio Una Farfalla Sull’Inguine, ovvero la classica Bellezza Dark.
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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Capitolo 2




«Thresh, una bottiglia di Vodka per Benedetta, mettila sul mio conto».
Thresh posò lo strofinaccio con il quale stava asciugando meticolosamente il bicchiere da cocktail, mise il suddetto bicchiere da cocktail sulla mensola, insieme agli altri bicchieri, distanziati l’uno dall’altro con precisione maniacale (esattamente dieci millimetri, non uno di più, non uno di meno), ed estrasse una bottiglia da sotto il bancone.
«Sento tanfo di scommessa persa, Boss».
«Puoi dirlo forte», intervenne Benedetta. «Carlisle ha scommesso che Zachariasz sarebbe resistito dieci minuti, prima di picchiare uno degli ammiratori di sua figlia Honey».
«E quanto ci ha impiegato, invece?», chiese Thresh.
Benedetta ghignò.
«Poco meno di tre minuti, proprio come avevo previsto io».
«Quel bastardo di mio cognato mi manderà in rovina. Ogni volta che Honey si esibisce, lui dà di matto e il locale si svuota. Che cazzo ci stai a fare tu, uhm, scansafatiche di un’italiana? Sei la buttafuori di questo locale, sì o no?».
Lei fece spallucce.
«Appunto. Butto fuori la gente, mica dentro. E non ci tengo a fare a pugni con quel pazzo di tuo cognato: dopo la storia dei tatuaggi di Honey non aspetta altro che un’occasione per scaricare la rabbia. Tu, piuttosto, perché continui a far esibire tua nipote, se ti crea tutti questi problemi?».
Carlisle arrossì come una vergine la sua prima notte di nozze. Il famoso e temuto Cardinale del Goldfinger, un armadio a quattro ante, con la cresta da moicano, un bastone da passeggio in avorio e un anello d’oro al mignolo che erano come un’insegna lampeggiante al neon che diceva “Boss pericoloso”, si trasformava in un budino tremolante quando si tirava in ballo sua nipote. Roba da non credere.
«Lo sai perché. È impossibile dirle di no», rispose lui.
Benedetta sbuffò e roteò gli occhi.
«A proposito di Honey», si intromise Thresh, che aveva ripreso ad asciugare bicchieri. «C’era un tizio che chiedeva di lei. Sulla trentina, tutto tatuato. Ha tenuto a precisare che era solo un amico. Preferisco dirlo a te, Boss. Zachariasz non ragiona lucidamente quando si tratta di Honey».
«Gli ficco il mio bastone su per il culo, a Mr Solo Un Amico!», ruggì Carlisle. «Ti ha detto come si chiama? Gli faccio subito una visitina e vediamo se ha il coraggio di farsi rivedere nel mio locale».
Benedetta scoppiò a ridere.
«E meno male che è Zachariasz quello che non ragiona!».
«Ha detto di chiamarsi JD», rispose Thresh. «Ma sta’ tranquillo, Boss, è scappato a gambe levate non appena ha visto Zachariasz in azione. Non penso che si rifarà vivo».
«Lo spero», disse Carlisle, serissimo. «Per il suo bene».



Il coglione finì scaraventato contro i cassonetti. Una pioggia di rifiuti si abbatté su di lui, ricoprendolo dalla testa ai piedi. Benedetta lo tenne sotto tiro con lo sguardo per qualche istante, ma il coglione non sembrava intenzionato a rialzarsi. Forse aveva perso i sensi. Strano, però, non le era sembrato di averlo colpito particolarmente forte. Forse si stava fingendo morto, come gli opossum, nella speranza che lei lo lasciasse in pace. Tutto sommato posso accontentarlo, si disse Benedetta. Passò in rassegna il vicolo per puro scrupolo, poi si chiuse la porta del retro alle spalle.
«Prende molto seriamente il suo mestiere».
Benedetta aggrottò la fronte.
«Lei non dovrebbe essere qui, questa uscita è riservata solo al personale».
«O ai rifiuti di cui sbarazzarsi». L’uomo uscì dal cono d’ombra e finalmente Benedetta riuscì a metterlo a fuoco per intero. Aveva un fisico massiccio, ben piazzato, ma era più basso di lei di qualche centimetro. Portava un paio di baffi che gridavano sbirro ai quattro venti e indossava un completo giacca e pantalone che aveva visto tempi migliori. Una cravatta macchiata e una camicia spiegazzata completavano il quadro. «Detective Martìnez, della Omicidi», si presentò, col distintivo spiegato. «Mi hanno detto che lei si occupa della sicurezza del Goldfinger e che se avevo delle domande da porre, era a lei che dovevo rivolgermi».
Carlisle, pezzo di merda, questa te la faccio pagare.
Benedetta incrociò le braccia sotto al seno e si appoggiò contro la parete.
«Spero non sia una cosa lunga. Il locale sta per chiudere e c’è un gruppetto di figli di papà da accompagnare alla porta».
«Sarò rapidissimo, glielo prometto». Il Detective Martìnez indicò con un cenno del mento la porta sul retro. «Che aveva fatto quel tipo?».
«Non conosceva il significato della parola no. Mi sono limitata a spiegarglielo con le buone maniere».
«Stava importunando una delle prostitute del Cardinale?».
Domanda a bruciapelo, il Detective aveva fegato da vendere. Tanto di cappello.
«Non conosco nessun prete che va a puttane, Detective. Posso chiedere in giro, però, se le fa piacere».
Martìnez ripose il distintivo nella tasca interna della giacca, abbozzando un sorriso.
«Due sere fa c’è stata una rissa a due isolati da qui. Ne ha sentito parlare?».
«Le solite scaramucce tra bande, suppongo».
«Anche, ma non solo. C’è scappato il morto. Pare che la banda dei Polacchi stia cercando di accaparrarsi il monopolio dello spaccio di droga nella zona nord di Williamsburg. Lei ha mai visto qualcuno spacciare al Goldfinger?».
«Se lo avessi visto, avrebbe fatto la fine di quel coglione lì fuori. Come ha constatato lei stesso, prendo molto seriamente il mio mestiere».
E questa volta Benedetta non stava mentendo. Piuttosto stava minimizzando. Se qualcuno che non era un uomo del Cardinale avesse avuto la felice idea di mettersi a spacciare al Goldfinger, quel qualcuno non sarebbe sopravvissuto a lungo per vantarsene con gli amici. In ogni caso, forse i Polacchi non avevano ancora cacato fuori dal vaso, ma se il Detective aveva ragione, poco ci mancava. Carlisle doveva essere informato.
Il Detective Martìnez nel frattempo aveva tirato fuori un taccuino e ci stava scarabocchiando sopra un numero.
«Be’, quando capiterà…».
«Voleva dire se capiterà, forse», lo corresse Benedetta.
«No, volevo dire esattamente quello che ho detto. Quando capiterà…». Strappò il foglio di carta sul quale aveva scarabocchiato il numero e glielo porse. «…la pregherei di chiamarmi immediatamente, non vorrei essere costretto ad arrestarla per intralcio alle indagini».
Benedetta prese il foglio, lo piegò in due e se lo infilò in mezzo alle tette, senza togliergli gli occhi di dosso.
«Ci conti, Detective». Ma anche no.



Marie Louise sapeva perché Julia Roberts in Pretty Woman non si faceva baciare dai suoi clienti. La spiegazione filosofica sulla profonda intimità del bacio era solo una gigantesca balla a uso e consumo delle casalinghe romantiche. La verità era che il cliente medio quando la baciava, non la baciava. Le mangiava la faccia. Poi il cliente medio usciva soddisfatto dal bagno del Goldfinger e Marie Louise rimaneva con cento dollari in mano, la gonna alzata sopra la vita, le mutandine pasticciate di sperma e il rossetto spalmato su mezza faccia.
Sospirando, Marie Louise si guardò allo specchio. Quasi quasi preferiva i pompini ai baci. Prese una salvietta imbevuta e cominciò a tergersi il viso. I capelli erano un disastro, ma non aveva importanza, la serata era conclusa, con un elastico avrebbe risolto facilmente. Le mutandine invece erano da buttare, meno male che era una persona previdente, si portava sempre un cambio. Forse quella sera avrebbe usato la doccia che il Cardinale metteva a disposizione per le sue ragazze. Di solito lei ne faceva a meno, se poteva. Le sembrava di approfittarsene, il Cardinale faceva già così tanto per loro, chiedendo una percentuale irrisoria sui guadagni e fornendo tutta la protezione di cui avevano bisogno.
Uscendo dal bagno, di nuovo presentabile, si imbatté in Honey.
«Ehi, tesoro! Complimenti, tu e i ragazzi siete stati formidabili stasera».
Honey abbozzò un mezzo sorriso, senza aggiungere nulla. Doveva esserle capitato qualcosa, di solito dopo l’esibizione della band era impossibile farla stare zitta. La spinse in bagno e una volta chiusa la porta le chiese: «Qualcosa non va?».
Lei fece spallucce, fissandosi la punta degli anfibi.
«Sono una scema, Marie Louise».
«Questo lo so, tesoro. Te lo ripeto sempre», rispose per farla ridere. E solitamente ci riusciva, anche. «Hai litigato con tuo padre?».
«No. Cioè, sì. Per i tatuaggi. Ma è storia vecchia, ormai. Ci siamo chiariti». Sbuffò. «Mi sono presa una sbandata per un ragazzo più grande di me. E a mala pena conosco il suo nome. Anzi, non credo nemmeno che sia il suo vero nome. Ti pare normale? L’ho visto soltanto una volta e mi ha trattata male, per giunta. Eppure non riesco a smettere di pensare a lui».
Marie Louise aggrottò la fronte.
«Che intendi per trattata male?».
«No, no, non è quello che pensi. È solo che tutte le persone che conosco mi trattano con i guanti, come se fossi fatta di cristallo, anche se faccio la stronza. Invece lui… mi ha rimesso in riga, ecco. E anche se lì per lì la cosa mi ha irritato tantissimo… be’, mi ha anche intrigata. Non so se riesco a spiegarmi…».
«Ti spieghi benissimo, tesoro».
Honey fissava un punto alle spalle di Marie Louise, come se stesse rivivendo un evento passato, e arrossì.
«Ovviamente è di una bellezza indescrivibile. Solo a pensarci mi viene la pelle d’oca. Bello in un modo tutto suo. Ha i capelli lunghi e non riesco a decidere se li preferisco sciolti o legati. E poi dovresti vedere i suoi tatuaggi! Scompaiono sotto la maglietta e avrei tanta voglia di sbirciare sotto per vedere cosa c’è…». Honey sgranò gli occhi e si coprì la faccia con le mani. «Oddio, dimentica quest’ultima frase, ti prego! Volevo solo dire che…».
«Sei cotta a puntino, è chiaro».
Honey si ammosciò come un pene post-coito.
«Già. Solo che per lui non esisto». L’espressione di Honey era così abbattuta che a Marie Louise venne un po’ da ridere. «Ti è mai capitato di provare una cosa così?».
«Ma certo, Honey. Quando avevo la tua età mi capitava circa una volta alla settimana. E ogni volta pensavo di aver incontrato l’amore della mia vita».
«E poi?».
Le accarezzò una guancia, e sorrise.
«Poi sono diventata grande».



Filip odiava fare il palo, ma Patryk era un fottuto prepotente, mettersi a discutere con lui era come sventolare un fazzoletto rosso davanti alle corna di un toro imbufalito. Per fortuna, oltre che un pezzo di merda, Patryk era anche molto veloce nel concludere gli affari. Non appena il ragazzino uscì dal cesso pubblico, passandogli accanto senza degnarlo di un’occhiata, Filip seppe che la transazione si era conclusa con successo. Si guardò intorno, facendo finta di consultare il tabellone delle fermate della metropolitana di Williamsburg, poi fischiò. Patryk comparve al suo fianco, proprio mentre arrivava la metropolitana e lo spostamento d’aria faceva gonfiare la sua giacca a vento.
«È andato tutto bene?».
«Anche troppo. Ho finito le cartucce».
Le porte scorrevoli si aprirono. Filip e Patryk salirono, occupando due sedili sulla destra. Vennero subito seguiti da un gruppo di cinque uomini, che parlottavano fitto tra di loro. Era notte fonda, il vagone era deserto, c’erano decine di posti liberi, ma i cinque uomini scelsero di rimanere in piedi, aggrappandosi alle maniglie, proprio davanti a Filip e Patryk.
Uno del gruppo indossava un giubbotto di pelle senza maniche. Sul suo bicipite c’era il tatuaggio di un coyote. Da come Patryk sudava freddo, Filip dedusse che anche lui lo aveva notato. Si scambiarono un’occhiata.
Niente panico, cercò di dire a Patryk con lo sguardo. La prossima fermata è vicina.
E poi non era detto che quei cinque fossero lì per loro, magari si trattava solo di una coincidenza. Quando però intravide il baluginare della lama di un coltello, a Filip tornò in mente suo padre: gli diceva sempre che solo i coglioni credevano alle coincidenze.
Neanche si fossero messi d’accordo, Filip e Patryk scattarono in piedi nello stesso momento e si misero a correre in direzioni opposte. Filip diede fondo a tutte le sue energie, doveva guadagnare tempo, la prossima fermata era vicina, poi le porte si sarebbero aperte e lui sarebbe stato salvo.
L’urlo di Patryk gli gelò il sangue. Si voltò indietro, senza fermarsi, ma nessuno lo stava inseguendo. Forse i Coyote avevano preferito prendersela con Patryk, in fondo era lui quello che teneva i soldi. Non si fermò, continuò a correre a perdifiato. I vagoni non finivano più, ed erano tutti deserti, ma ormai la stazione era vicina, la metropolitana aveva già cominciato a rallentare. Ancora un vagone, poi sarebbe uscito. Si gettò un’ultima occhiata alle spalle e…
«Sei un po’ lontano da Little Poland, eh?».
…cadde tra le braccia di un Coyote.
Dietro di lui ce n’erano altri tre. Sghignazzavano, ed erano tutti muniti di coltello.



Fino a qualche anno prima, la colazione era il momento più chiassoso della giornata. Appena suonava la sveglia, Honey schizzava da sotto le coperte come un cazzo di petardo. A volte il petardo esplodeva nella camera da letto di Isa e Zachariasz, svegliandoli di soprassalto e rimbalzando sul loro materasso come una stramaledetta palla da ping pong. Altre volte invece sfrecciava direttamente al piano di sotto e se non gli si correva subito dietro per intercettarlo, il petardo poteva anche decidere di far saltare in aria la cucina.
Zachariasz ricordava con una sconfinata nostalgia quel periodo, fatto di pigiami rosa macchiati di latte, cereali allo sciroppo d’acero disseminati sul pavimento e scarabocchi di pennarello blu sulle braccine paffute. Adesso al posto del petardo c’era uno zombie col mascara sbavato intoro agli occhi, che si trascinava a passi strascicati fino al tavolo della cucina. I pigiamini rosa erano stati soppiantati dalle maglie nere lunghe fino alla ginocchia. I cerali allo sciroppo d’acero facevano ingrassare, quindi erano stati banditi. E, dulcis in fundo, gli scarabocchi di pennarello blu sulle braccine paffute si erano trasformati in due tatuaggi intorno ai polsi.
Honey rigirava il cucchiaio nella tazza del caffelatte con lo sguardo perso nel vuoto, mentre Zachariasz la fissava accigliato.
«Sei sicura che vada tutto bene, Honey?».
«Uhm? Sì, papà. Tutto bene».
«Hai cominciato a compilare le domande di ammissione per il college? Guarda che la scadenza è vicina».
«Comincio questo pomeriggio prima delle prove, non ti preoccupare».
I tempi andati erano belli anche perché significava sempre e no sempre no. Per un breve periodo il era diventato no e il no un forse. Adesso, invece… be’, nessuno poteva dirlo con certezza. Ed era proprio questo a tormentare Zachariasz: l’incertezza, il non sapere quali pensieri stessero attraversando la mente di sua figlia. Sua figlia che si era appena alzata.
«Meglio che vada, o faccio tardi a scuola».
Il caffelatte non era stato toccato.
«Vuoi che ti accompagni?».
«No, prendo la moto. Dopo scuola vado al Goldfinger per provare con la band. Ci vediamo stasera a cena».
Gli diede un bacio frettoloso sulla guancia e scappò via urlando “Ciao, mamma!”, proprio mentre Isa usciva dal bagno con un’espressione sconvolta sul viso.
«È la prima volta che esce da casa così in anticipo, cosa è successo?».
Zachariasz stava fissando la porta che Honey si era chiusa alle spalle, uscendo.
«Non lo so, forse è ancora arrabbiata con me».
Isa si sedette di fronte a lui e si versò del tè nella tazza.
«Per la storia dei tatuaggi? Ma se avete fatto pace! Alla fine ti sei pure commosso».
Zachariasz tossì per nascondere l’imbarazzo.
«Non è questo il punto. Ormai quella ragazza è diventata un rompicapo per me. Non parliamo più. Ti ricordi com’era, prima? Mi diceva sempre tutto, non vedeva l’ora di tornare a casa per raccontarmi la sua giornata. Adesso, invece, è un miracolo se mi rivolge la parola».
Il sorriso di Isa era di quelli inteneriti, che lo facevano sentire un bambino sperduto.
«Zachariasz, tua figlia è cresciuta, tutto qua. Non c’è niente che non va in lei».
«E se invece si vergogna di me? Forse non dovevamo raccontarle la verità sul mio passato. Forse era troppo presto».
«Pensi che si sarebbe fatta fare dei tatuaggi simili ai tuoi, se si vergognasse di te?».
«Francamente? Non ne ho idea».
Isa si sporse da sopra il tavolo e lo prese per mano.
«Sai cosa penso, invece? Tua figlia ha deciso per sé da sola, senza chiedere il tuo parere come faceva prima, e questa scoperta ti ha messo una gran fifa addosso. Honey è come una bambina che sta muovendo i primi passi, adesso. Bisogna lasciarla provare».
«E se cade nel tentativo?».
Isa strinse la presa sulle dita di Zachariasz.
«Noi saremo lì, ad aiutarla a rimettersi in piedi».



L’orario di apertura del Goldfinger era lontano ancora anni luce, ma Carlisle era già esausto. Benedetta era in piedi di fronte alla sua scrivania, seria come la morte. E proprio come La Signora Con La Falce, non aveva portato notizie allegre. Carlisle riempì due bicchieri con del whisky di prima scelta e ne offrì uno a Benedetta. Mandato giù il primo sorso, si sentì subito un po’ meglio.
«Credi che diventerà un problema serio, quello con i Polacchi?», chiese lei.
Carlisle soppesò il bicchiere, prima di rispondere.
«Sono avidi, è questo il problema. Per permettere a Zachariasz di abbandonare la banda senza ripercussioni, ho dovuto sborsare un patrimonio. Mi hanno dissanguato finché hanno potuto. Maledetto il giorno in cui mia sorella si è innamorata di quel pazzo, sono più le grane che altro! Di’ a Thresh e Liam di chiedere in giro, comunque. Voglio essere certo al cento per cento prima di far saltare qualche testa. Lo sbirro è sicuro di quello che dice, almeno?».
Benedetta si strinse nella spalle.
«Sembra un tipo in gamba, uno che sa il fatto suo».
Sul viso di Carlisle si aprì un sorriso da squalo.
«Senti, senti. Da quando gli sbirri sono tipi in gamba?».
Il vaffanculo in risposta venne coperto da un toc toc leggero, che pose fine alla discussione. Da dietro la porta fecero capolino i riccioli neri di Marie Louise. Alzarsi in piedi fu automatico per Carlisle. Dimenticare di appoggiarsi al bastone, però, gli costò una mezza scivolata e una figura di merda. Benedetta non ebbe nemmeno il pudore di nascondere la risata dietro a una mano. Guadagnò l’uscita dell’ufficio di Carlisle, borbottando qualcosa di molto simile a un “Così impari, stronzo”. Prima di chiudersi la porta alle spalle, salutò con un sorriso Marie Louise. Che invece si era fermata in mezzo alla stanza, indecisa su dove collocarsi. Non si era ancora cambiata, indossava una maglia che le cadeva addosso morbida e larga, lasciando scoperta una spalla, e un paio di jeans aderenti. Stava dannatamente bene vestita a quel modo.
«Disturbavo, per caso?», chiese lei.
«Affatto. Posso offrirti qualcosa?».
«No, grazie, non bevo mai quando sono in servizio».
Risero insieme.
Marie Louise gli piaceva soprattutto per quel motivo. La sua non era una vita facile e sicuramente quello che era costretta a fare per sopravvivere non le andava a genio, ma non ne faceva un dramma. Andava avanti a testa alta, non si lamentava mai. Anzi, riusciva perfino a scherzarci su. A differenza di Eleonora, l’infermiera che Carlisle aveva frequentato per un po’, che prendeva tutto mortalmente sul serio e non possedeva il dono dell’autoironia.
«Stasera avrei necessità di smontare un po’ prima del solito. Sarebbe possibile?».
«Certo, non c’era nemmeno bisogno di chiederlo».
«Grazie, Cardinale. Adesso tolgo il disturbo e vado a prepararmi per la serata».
Carlisle si fece abbagliare dal suo sorriso, come un coniglio dai fari dell’auto che sta per travolgerlo. Sbatté un paio di volte le palpebre, mezzo rincoglionito, e quando riuscì a mettere di nuovo a fuoco la stanza, si rese conto che Marie Louise aveva quasi raggiunto la porta. Dovette lottare contro la gamba azzoppata per precederla e aprirle la porta.
«Tu non disturbi mai, Marie Louise».



«Mi raccomando, siate discreti. Il Cardinale vuole sondare il terreno, prima».
Thresh guardò Benedetta come per dire “Con chi credi di avere a che fare, con un pivello?”. I due Mori diventavano molto suscettibili quando si trattava del mestiere che svolgevano per il Cardinale. Se si metteva in discussione la loro professionalità, poteva anche scapparci una rissa. Benedetta alzò subito le mani in segno di resa, meglio prevenire che curare.
«Non vi sto sottovalutando, Thresh. È solo che si tratta di una situazione delicata».
Lui non sembrava soddisfatto delle sue scuse, ma non insistette.
«Telefono a Liam. Oggi era il suo giorno libero. Speriamo non sia troppo impegnato con Veronica per rispondere… se capisci cosa intendo».
Come se gliene fottesse qualcosa, a lei, di quello che Liam faceva con Veronica.
Mentre Thresh telefonava al fratello, Benedetta fece vagare lo sguardo sul locale ancora deserto. I ragazzi della band stavano accordando gli strumenti per le prove, Honey invece era seduta a un tavolino, china su una pila infinita di fogli. Era passato tantissimo tempo dal giorno in cui l’aveva vista per la prima volta seduta a quello stesso tavolino: aveva tredici anni, le trecce e stava facendo i compiti di matematica. Improvvisamente le tornò in mente quello che le aveva raccontato Marie Louise la sera prima. Raggiunse il tavolo di Honey e si sedette di fronte a lei.
«Ehi, ragazzina. Che combini?».
Honey sollevò il viso dalla pila di fogli e le rivolse un sorriso stanco.
«Ciao, Benedetta. Sto cercando di compilare le domande di ammissione al college, ma mi sono bloccata al quesito numero dieci: “Come e dove ti vedi tra dieci anni?”. Che cazzo di domanda è? Come faccio a saperlo? In dieci anni potrebbe succedere di tutto».
«Be’, prova a pensare all’obbiettivo che vorresti raggiugere, credo che la domanda serva a questo. Cosa ti piacerebbe fare?».
Honey si lasciò andare contro lo schienale della sedia, sospirando.
«Non lo so, è questo il problema. Se la domanda fosse “Come e dove ti vede tuo padre tra dieci anni?” avrei la risposta pronta: “Come una donna in carriera. Un medico di fama internazionale, possibilmente”. Ma la domanda è rivolta a me, ed io vedo solo un’immensa parete bianca».
«Be’, le pareti bianche hanno di bello che con una semplice bomboletta spray puoi disegnarci sopra quello che vuoi. Non ti crucciare, ragazzina. Vedrai che troverai la tua strada, indipendentemente da quello che si aspetta tuo padre».
Honey stava mordicchiando il tappo della penna, con espressione poco convinta.
«Se lo dici tu… ma il quesito numero dieci continua a sembrarmi una domanda del cazzo».
Benedetta rise.
«Be’, forse quello che ho da dirti ti tirerà su di morale…».



«Mi prendi in giro? Ma… aspetta, tu come facevi a sapere che…».
«Marie Louise mi ha raccontato che eri abbattuta per colpa di un tizio che ti piaceva. E, guarda caso, un ragazzo di nome JD ha chiesto di te a Thresh. Ora, se la matematica non è un’opinione…».
Honey avrebbe voluto strillare di gioia e abbracciare Benedetta, da quel momento in poi anche nota come Santa Subito e Salvatrice Della Patria, ma decise che non sarebbe stato dignitoso da parte sua, quindi cercò di contenersi.
«Quindi è venuto, alla fine! Ma se n’è anche andato senza salutare. Come cazzo dovrei interpretare il suo comportamento?». Si prese la testa tra le mani e si tirò i capelli per la frustrazione. «Quasi quasi preferisco il quesito numero dieci».
Benedetta rise, con la sua risata bassa e roca, quella che Honey le invidiava tantissimo perché la trovava sexy da morire. Chissà se anche JD trovava sexy quel genere di risata. Si adombrò subito. La sua risata non era bassa, roca e sexy come quella di Benedetta. La sua risata era squillante e sguaiata, da mocciosa.
«Ragazzina, mi stavi a sentire o no, prima? Quello è venuto qui e ha chiesto di te, cosa c’è da capire?».
Da quel punto di vista, il suo ragionamento non faceva una grinza. Però…
«…perché non è rimasto?».
Benedetta inarcò un sopracciglio, come per dire “Sul serio?”.
«Hai presente tuo padre? Quello che abbatte persone nemmeno fosse un bulldozer da demolizione?».
«Quindi vuol dire che gli piaccio, ma che ha rinunciato in partenza?».
«Vuol dire che la prossima mossa spetta a te, adesso. Gli uomini sono tutti un po’ coglioni, vanno incalzati, altrimenti aspetta e spera!». Benedetta si fece improvvisamente seria e ammonì Honey con lo sguardo. «Che sia chiaro, però. Di tutta questa storia, io non ne so niente. Non voglio problemi con tuo padre, tanto meno con Carlisle».
Honey mimò l’atto di chiudere a chiave la bocca.
«Sarò una tomba, non preoccuparti».
Intanto, però, l’adrenalina le faceva prudere la pelle, come se migliaia di formiche stessero zampettando appena sotto l’epidermide. Aveva provato una frenesia simile solo quando aveva visto la sua Ducati per la prima volta, alla concessionaria. Ricordava fin troppo bene le dita che si serravano automaticamente, già pronte a impugnare il manubrio, la smania di sentire il vento tra i capelli e di vedere l’asfalto scorrere liquido sotto le ruote. Adesso stava vivendo la stessa identica emozione. Le sue gambe tremavano dalla voglia di correre al negozio di tatuaggi. E intanto ce li aveva già davanti, il sorriso da stronzo che la canzonava e lo sguardo tanto affilato quanto l’ago che usava per tatuare.
«Ehi, Honey!». Dal palco, Ben e Connor si stavano sbracciando per richiamare la sua attenzione. «Dobbiamo farle queste cazzo di prove, sì o no?».
Lei sospirò. Prima il dovere, poi il piacere. Si rivolse a Benedetta: «Grazie per la soffiata, anche se non ho capito perché tu l’abbia fatto».
Benedetta si strinse nelle spalle, con finta aria innocente.
«Per godermi la scena di tuo padre e tuo zio che ci rimangono di merda. Per cosa, se no?».
Honey non poté fare a meno di ridacchiare.



Gli uomini vanno incalzati, aveva detto Benedetta. E Honey aveva escogitato un piano perfetto. Doveva soltanto respirare profondamente e prendere il toro per le corna. O il tatuatore per i capelli.
Contò fino a tre (uno, due, due e un quarto, due e mezzo, due e tre quarti, due e cinquanta, tre) e finalmente smontò dalla moto. Si sfilò il casco e si aggiustò i capelli guardandosi nello specchietto retrovisore. Il casco era sempre una gran seccatura, perché appiattiva i capelli. I suoi infatti sembravano pisciati da un gatto. Porca puttana!
L’insegna del negozio di tatuaggi si stagliava di fronte a lei con aria minacciosa. Le ricordava l’antro della strega delle favole. Sorrise nel pensare che, in fondo, quell’antro era davvero abitato da una specie di strega.
Okay, Honey. Vai, ammazza e torna.
«Guarda chi si rivede!», esclamò Darla nel vederla entrare. «Niente poco di meno che Miss Bimbaminkia! Ehi, JD, hai visite».
Calma e sangue freddo, Honey. Ricambia con la stessa moneta.
«Buon pomeriggio, Darla. Quanti pompini hai fatto oggi?».
«Sicuramente molti più di quanti ne abbia fatto tu in tutta la tua vita. Del resto, non è che ci voglia molto per superare lo zero, dico bene?».
Cazzo, ce l’aveva scritto in fronte o cosa? Honey avvampò per l’imbarazzo. Doveva trovare una risposta, non poteva dargliela vinta, ne andava del suo onore, del suo orgoglio, del…
«Honey?».
Cos’è che doveva fare? JD era emerso dal laboratorio. Aveva legato i capelli in una coda, ma una ciocca era sfuggita all’elastico e gli ricadeva davanti alla faccia. Indossava ancora i guanti in lattice, che erano sporchi di inchiostro.
«Ciao, JD. Stavi lavorando?».
Ecco, brava. Parla, dimostra di possedere uno o due neuroni.
«In effetti, sì. Che succede? Problemi con i tatuaggi?».
In automatico Honey si massaggiò il polso destro, ma scosse la testa.
«No, i miei tatuaggi stanno benissimo. È solo che…». Certo, avere lo sguardo di Darla addosso, che si stava godendo la scena appoggiata comodamente al bancone, non aiutava. «Ci sarebbe un mio amico che vorrebbe fare il tatuatore. Ha visto i miei tatuaggi e gli sono piaciuti un casino. Quindi mi ha chiesto se per caso non poteva fare una chiacchierata con te. Non lo so, discutere di tecniche e roba del genere».
JD inarcò un sopracciglio.
«Un tuo amico? E ha dei tatuaggi questo tuo amico?».
«Sssssì». Pensapensapensapensa. Scartabellò velocemente tutti i tatuaggi che aveva visto su google immagini digitando le parole fotomodelli, palestrati e tatuati, e scelse «Un teschio sulla spalla, un tribale lungo tutto l’avambraccio e un veliero sul bicipite».
Dio, come si sentiva cretina, ma chi voleva prendere in giro? Una bambina che prova ad abbindolare due persone adulte e vaccinate. Chissà quante troiette avevano tentato di rimorchiarlo con una scusa così penosa e patetica, era proprio una stupida, cosa le era saltato in mente? Perché non aveva escogitato un piano migliore? Adesso JD le sarebbe scoppiato a ridere in faccia e…
«D’accordo». Eh? «Digli di passare qui domani mattina, ho giusto un buco tra le dieci e le undici».
Bene, dai. Ancora un piccolo sforzo.
«Veramente lui va ancora a scuola, frequenta con me il corso di matematica. Non si potrebbe fare domani pomeriggio? Tipo… non so, intorno alle cinque? Hai presente la Midwood High School? C’è un diner in fondo alla strada sulla quale si affaccia il nostro liceo, vi potreste incontrare lì. Poi dopo gli fai anche vedere il negozio, se ti va».
JD fece spallucce e si rivolse a Darla.
«Come siamo messi domani pomeriggio?».
«Calma piatta. Sempre che oggi non prenoti nessuno, ovviamente».
JD tornò a guardare Honey, che per un attimo avvertì il punzecchiare dell’ago sulla pelle.
«Domani alle cinque, allora. Com’è che si chiama il tuo amico?».
«Connor», rispose prontamente.
Connor non era tatuato, non aveva la minima intenzione di diventare tatuatore e non frequentava con lei il corso di matematica. Anzi, a scuola non ci andava proprio.
Tanto lui non lo saprà mai.
Ebbe appena il tempo di spiegargli dove si trova di preciso il diner in questione, prima che entrasse un cliente. Era meglio levare le tende, non voleva essergli di impiccio.
Bene, adesso ringrazia. «Grazie, JD. Sei stato davvero gentilissimo». Saluta. «Ci si vede, eh?». Ignora Darla ed esci a passi moooooolto lenti e tranquilli.
Aveva quasi raggiunto la moto, quando sentì la porta del negozio aprirsi dietro di lei.
«Honey?».
Si voltò forse troppo velocemente. E va be’, vaffanculo!
«Sì?».
JD era fermo sulla soglia, teneva la porta aperta con una mano, come indeciso se rientrare o meno. La scrutava con la fronte aggrottata. Poi, però, un sorriso stronzo fece capolino sul suo viso, come il sole da dietro a una nuvola.
«Sei stata fenomenale ieri sera».
Se avesse potuto, Honey si sarebbe messa a saltellare.



Decidere cosa indossare non gli era costato molta fatica. Pantaloni cargo, anfibi e felpa nera. Una punta di gel tra i capelli, ed era pronto. Honey lo vedeva conciato in quel modo praticamente tutti i giorni, ma non aveva alcun senso agghindarsi da damerino solo per andare al cinema. Inoltre Honey gli aveva sempre detto che quel look gli donava e squadra che vince non si cambia mai, giusto?
Contemplando il suo riflesso allo specchio, Connor non se la sentiva di darle torto. Stava proprio bene. Anzi, era così di buon umore che quasi quasi si azzardava a definirsi uno schianto. L’ottimismo è il profumo della vita e Connor si sentiva capace di tutto, anche di scalare una montagna. Quella era l’occasione che stava aspettando, finalmente sarebbe riuscito a farsi avanti con Honey. Il buio della sala cinematografica avrebbe nascosto l’imbarazzo e tutto sarebbe stato più semplice. Non una passeggiata, forse. Ma più semplice, sì.
Il bip bip del cellulare lo riportò alla realtà.
Connor si guardò intorno. Dove cazzo aveva buttato il cellulare? Lo individuò sotto a un mucchio di spartiti sulla scrivania. Un messaggio. Da parte di Honey.
Se qualcuno te lo chiede, sono stata con te tutto il pomeriggio, okay? Ci sentiamo domani, poi ti racconto.
Rilesse il messaggio tre volte, prima di afferrarne il significato. Poi prese i biglietti per Fast & Furoius 6 dal portafoglio e li guardò con aria sconsolata. Pensare che li aveva comprati con tre giorni di anticipo, perché non voleva rischiare di rimanere fregato all’ultimo momento. Li buttò nel cestino delle cartacce, ma poi ci ripensò e li raccolse. In fondo ci aveva speso soldi veri. Passando davanti allo specchio, si spettinò i capelli con rabbia, si sedette sul letto e compose il numero di Ben.
«Pronto?».
«Ehi, amico! Mi ritrovo con due biglietti gratis per Fast & Furious 6. Mi fai compagnia?».
«Lo sai che non dico mai no a qualcosa, se è gratis».
Non il pomeriggio che aveva sperato, ma almeno non sarebbe rimasto solo a casa a rimuginare come un coglione.



Seduto al tavolino del diner, JD diede un’occhiata all’orologio appeso sopra al bancone dei gelati: il ragazzino dai tatuaggi improbabili era in ritardo. Cominciava a pensare che Darla avesse ragione.
Dai, è palese, è una trappola!
Darla, è troppo stupida come scusa per essere inventata di sana pianta.
Un diciannovenne con quei tatuaggi? Sì, certo. Molto probabile, come no. Mi meraviglio di te, JD.
Ehi, a diciannove anni io avevo già metà dei tatuaggi che ho adesso!
Spiacente, tu non fai testo, JD.

Una parte di lui, quella dell’ingenuo bietolone, non le credeva. Una seconda parte, quella del tatuatore esperto, concordava con Darla. La terza e ultima parte di lui, quella del porco depravato, sperava che Darla avesse ragione. Lo stesso porco depravato che ad ogni rombare di moto che udiva drizzava le orecchie col cuore colmo di aspettative. Quando poi Honey entrò per davvero nel bar, col casco sotto braccio e il giubbotto da motociclista ancora addosso, il porco depravato esultò trionfante.
JD era indeciso se darsela a gambe o rimanere, mentre Honey faceva vagare lo sguardo tra i tavoli con aria smarrita. Nel preciso istante in cui lei lo individuò, le sue labbra si distesero in un sorriso radioso e lo champagne nei suoi occhi scintillò malizioso. A quel punto JD seppe di non avere più alcuna speranza di salvezza.
«Scusa il ritardo. Non puoi capire il casino che c’era per strada», disse lei.
Dopo aver posato il casco sul tavolino, gli si sedette di fronte e si nascose dietro al menù, ma JD si allungò sopra il tavolo e glielo sfilò dalle mani. Privata dello scudo che la proteggeva dal suo sguardo accusatore, Honey si morse il labbro come una bambina beccata con le dita nella marmellata e fece ciao ciao con la mano. JD ci provò a essere arrabbiato con lei, sul serio, ma non ci riuscì.
«Connor, te lo ha mai detto nessuno che sei identico alla tua amica Honey?».
«Sì, ma sono più bello io».
«Questo è tutto da vedere».
Honey arrossì e per mascherare l’imbarazzo riacciuffò il menù.
«Ordiniamo?».
JD chiamò il cameriere con un cenno della mano, che arrivò da loro in un battibaleno.
«I signori desiderano?».
«Una birra, grazie», disse JD.
«Una birra anche per me», gli fece eco Honey.
Le scoccò un’occhiata perplessa.
«Tu non hai l’età per bere alcolici».
Lei si imbronciò immediatamente. Raddrizzò la schiena e incrociò le braccia sotto al seno.
«Senti, di padre ne ho già uno che fa per dieci». Con un sorriso da civetta, si rivolse al cameriere. «Una birra, grazie».
Fu difficile trattenere un sorriso. Più lei si atteggiava ad adulta, più a lui veniva voglia di provocarla. Come un gatto che stuzzica il cucciolo di cane al di là della staccionata.
«Non le dia retta, prende un succo d’arancia».
«Forse non ho l’età per bere alcolici, ma di sicuro non ho dieci anni!». Ed ecco un altro sorriso da civetta per il cameriere. «Prendo un Espresso».
Il cameriere spostò lo sguardo corrucciato da Honey a JD. E da JD a Honey.
«Avete finito? È la vostra risposta definitiva? L’accendiamo?».



Una gocciolina di condensa scendeva lenta lungo il collo della bottiglia di birra, ormai vuota. L’Espresso invece si era raffreddato nella tazzina, non era stato toccato. Honey ci aveva vuotato dentro tutta la zuccheriera, prima di decretare che bleah era troppo amaro per lei. Perché mi hai impedito di prendere la birra? Sei proprio uno scassa palle. JD si era premurato di ricordarle che, se fosse stato per lui, avrebbe ordinato il succo d’arancia. Honey aveva replicato con una linguaccia. Alla fine le aveva ceduto metà della sua birra.
«Allora, come ha reagito tuo padre? Si è arrabbiato molto per i tatuaggi?».
Lei fece spallucce.
«All’inizio sì. Non l’avevo mai visto così incazzato. Non hai idea di come sia mio padre da incazzato, fa paura». Invece, l’idea, JD ce l’aveva eccome. Altroché. Non per niente aveva lasciato il Goldfinger a gambe levate, domenica sera. «Ma credo che ce l’avesse più con se stesso che con me. Sai, penso che lui si senta… infetto. E vive nel terrore che il suo passato possa infettare anche me».
«E tu come la pensi, invece?».
Honey sollevò entrambe le sopracciglia, genuinamente stupita, ma si riprese subito. JD sorrise tra sé e sé. Lottava come una tigre per non essere considerata solo una bambina, però quando qualcuno la trattava veramente da adulta, chiedendo la sua opinione, se ne meravigliava.
«Te l’ho detto, l’altro giorno. A me non interessa, conta soltanto il presente. Lui ha voltato pagina per mia madre e per me. È questo l’importante. Ho provato a spiegarglielo. Credo che una parte di lui lo abbia capito, si è perfino commosso! Ma un’altra parte continua ad avere paura. Immagino che le vecchie abitudini siano difficili da abbandonare».
JD annuì. «Immagini bene».
«Ed è per questo che mi assilla con le domande di ammissione al college. Vuole vedermi diventare una donna rispettabile, che si guadagna da vivere onestamente. Non sai che litigate, quando sono entrata nella band! Era convinto che sarei diventata una tossica che vive in un camper e che si prostituisce per arrotondare!».
JD scoppiò a ridere.
«Anche mio padre aveva aspettative ben precise. C’è rimasto molto male quando a dieci anni l’ho informato che avrei fatto il tatuatore».
Lei appoggiò il mento sul palmo della mano, con sguardo trasognato.
«Deve essere bello avere le idee chiare. A dieci anni pensavo solo a pettinare le bambole!».
«È solo merito di mio nonno, se ho scoperto così presto la mia vocazione».
«Era un tatuatore anche lui?».
Ogni volta che si tirava in ballo Wile, JD diventava serio.
«Wile Coyote era Il tatuatore. Mi ha insegnato tutti i suoi segreti. E quando è morto, mi ha lasciato in eredità il suo negozio. Chissà dove sarei adesso, se non fosse per lui».
Intanto Honey aveva aggrottato le sopracciglia.
«Perché Wile Coyote? Era un fan della Warner Bros?».
Di nuovo JD scoppiò a ridere. Se Wile l’avesse sentita, avrebbe imprecato per settimane. Ringrazia che sei una donna, ragazzina, avrebbe detto. Uno degli imperativi morali di Wile era “Le donne non si toccano, a meno che non siano loro a chiedertelo”.
«No, affatto. Aveva un coyote tatuato sulla schiena. Nel mio ambiente succede spesso che alla gente venga affibbiato un soprannome in base ai tatuaggi che possiede. Big D, ad esempio, ti ricordi di lui? Ha una grossa D sul collo».
«Quindi io potrei farmi chiamare Rosaspina! Che è sempre meglio di Honey. Non perdonerò mai mio padre per avermi condannata a un nome così stupido».
JD scosse la testa.
«Eh, no. Non funziona mica così, sono gli altri che devono scegliere per te il soprannome. E poi, al massimo, tu potresti farti chiamare Spina Nel Fianco».
«Sei proprio uno stronzo, JD!», scattò Honey, rossa di rabbia. Ma durò poco, perché all’improvviso il suo sguardo si accese. Prese a fissarlo dritto negli occhi, come se avesse risolto un difficilissimo rompicapo. «Anche JD è un soprannome».
La sua domanda era implicita.
«Sta per John Doe». Si sollevò la manica e mise in mostra la sagoma incappucciata che occupava tutto il bicipite destro. «Ed ecco da dove deriva».
Honey si sporse in avanti, per ammirare il tatuaggio più da vicino.
«È bellissimo. E inquietante. Sembra proprio che mi stia tenendo d’occhio da sotto il cappuccio. Sono quasi sicura che si tratti di una donna. Un po’ incazzata, anche. Secondo me non le sto molto simpatica. Magari è gelosa».
JD annuì, sinceramente colpito. Lo spirito di osservazione era una qualità che apprezzava nella gente. Anche perché la maggior parte delle persone con un discreto spirito di osservazione sapeva ascoltare ciò che i tatuaggi avevano da dire. E Honey aveva appena dimostrato di possedere un buon udito.
«E perché dovrebbe essere gelosa?».
Sono proprio uno stronzo.
Come previsto, Honey avvampò e distolse lo sguardo. Non sapendo che pesci pigliare, tornò a mescolare il caffè, che a causa del troppo zucchero si era ormai trasformato in una melma marrone e granulosa.
«No, così. Dicevo per dire. Tu sei un ragazzo, io una ragazza, siamo seduti al tavolo di un diner da un po’, da soli… la gente potrebbe farsi un’idea sbagliata».
Il discorso stava improvvisamente prendendo una brutta china ed era principalmente colpa di JD. Era venuto il momento di mettere le cose in chiaro. Ipocrita bastardo, prima lanci il sasso e poi nascondi la mano?
«Ascolta, Honey. Sono stato bene con te oggi, ma questa storia deve finire qui».
Il cucchiaio girava in tondo, grattando il fondo della tazzina.
«Una storia non dovrebbe cominciare, prima di finire?».
«Honey…».
Il cucchiaio cadde sul tavolino, tintinnando.
«Perché hai chiesto di me al Goldfinger l’altra sera, allora? Perché sei venuto qui? E non venirmi a dire che hai creduto alla cazzata dell’amico, perché offenderesti la mia intelligenza. No, in realtà offenderesti la tua intelligenza».
Quell’improvvisa presa di posizione prese JD in contropiede. Non riusciva proprio a capirla: un attimo prima arrossiva per un’innocua provocazione; l’attimo dopo tirava fuori le palle e scopriva le sue carte. Cristo, aveva una voglia disperata di fumare. Lasciò una banconota sul tavolino e si alzò.
«Ehi, aspetta, dove stai andando?».
«A fumare una sigaretta. E poi al negozio. Tra meno di un quarto d’ora devo tatuare un’iguana sul culo di un vecchio grassone».
Honey gli fu subito alle calcagna, ma JD continuò a camminare senza voltarsi. «Non puoi scaricarmi così, devi rispondere alla mia domanda». Nel sbarrargli la strada, casualmente inciampò su qualcosa e finì abbarbicata alle sue spalle. «Oh, che sbadata!».
L’espressione sul suo viso non aveva proprio niente di sbadato. Le mani di JD finirono, anche loro, casualmente sulla vita di Honey. Per un momento infinito rimasero lì, indecise. JD si vedeva a un bivio: afferrarla per il giubbotto e baciarla o spingerla via e andarsene. Le sue dita artigliarono il cuoio nero, ma poi allentarono la presa. Con un immane sforzo di volontà, JD si allontanò di un passo.
Una sigaretta, subito.
Si tastò le tasche dei jeans in cerca del pacchetto, ma non lo trovò. Forse l’aveva dimenticato in auto. Ma anche le chiavi erano sparite. Dove cazzo aveva la testa? Probabilmente all’intreccio di rovi e rose che sotto i suoi occhi cresceva a partire dal polso di Honey, si arrampicava intorno al braccio e si insinuava nell’incavo tra i seni.
«Cercavi queste?».
Il mazzo di chiavi roteava intorno all’indice di Honey, che aveva sfoderato il tipico sorrisetto da stronzetta. Nell’altra mano, invece, c’era il pacchetto di sigarette.
«Non solo stronza e viziata, anche borseggiatrice?».
«Me lo ha insegnato un’amica di mio zio», spiegò senza smettere di sorridere. «Cosa mi stavi tatuando?».
«Eh?».
«Poco fa, mi stavi fissando in modo… strano. Come l’altro giorno, quando mi hai guardato i polsi per capire da dove cominciare. Ho pensato che stessi… vedendo qualche altro tatuaggio e mi sono incuriosita».
Come diavolo faceva?
Era come finire in mezzo a un cespuglio spinato, con lei. Ogni volta che pensava di essersi liberato dalle spine, si sentiva graffiare e si accorgeva di essere ancora impigliato tra i rami spinati. Quando domenica sera si era lasciato alle spalle il Goldfinger, aveva creduto di averla scampata. E invece lei era riapparsa nel suo negozio qualche giorno dopo. Ora tentava di mantenere le distanze e invece lei lo riacciuffava cogliendolo di sorpresa.
JD la scrutò a lungo, incredulo. Lei sorresse il suo sguardo, anche se il modo in cui si stava massaggiando il polso destro lasciava intendere che era nervosa.
«Ce l’hai per vizio tu, di non rispondere alle domande».
Al diavolo, si disse. Si rituffò tra i rovi a passo deliberatamente lento, per non metterle paura. Le tirò i capelli indietro, con entrambe le mani, guardandola dritto negli occhi. Occhi che adesso frizzavano come champagne appena stappato.
«Lo so già che me ne pentirò».
E la baciò.







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Note autore (che come promesso non sono lunghe come quelle del primo capitolo):
Visto che sono stata di parola? Non sembra vero nemmeno a me di stare pubblicando il secondo capitolo di questa storia: è come spezzare una maledizione!
Grazie mille per il caloroso benvenuto che avete riservato ai miei personaggi. Non me lo aspettavo e quindi sono doppiamente felice. Spero tanto che il secondo capitolo sia all’altezza delle vostre aspettative. Non potete capire l’ansia!
Piccola nota informativa: Midwood è un altro quartiere di Brooklyn, New York.
Come sempre ringrazio le mie fidate beta per il loro aiuto.
A lunedì, col terzo capitolo.
Grazie ancora a tutti!
   
 
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