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Autore: quellesuemanibianche    12/02/2014    2 recensioni
1) Un deficiente neopatentato mi ha sfasciato la bici.
2) Io ho l’equilibrio di un lemure ubriaco e con una gamba mutilata.
3) Sono caduta. Ho perso i sensi.
4) Non ho comprato il libro.
5) Probabilmente non ho fatto in tempo ad entrare a scuola.
***
«Per quanto tempo ho perso i sensi?» chiedo con voce flebile, massaggiandomi la testa. Mi fa male la nuca, diamine.
Il ragazzo guarda l’orologio al suo polso «Più o meno ventotto secondi.» ancora quel tono annoiato.
Ventotto secondi?!
«Ventotto secondi?!»
«Sì, sì. Ventotto secondi. Senti, io non ho tempo. Vediamo di muoverci.» mi tira a sedere, prendendomi per le braccia. Da seduta riesco a guardarlo meglio. Carino, senza dubbi. Ma estremamente irritante, a quanto pare.
***

ZaynxNuovopersonaggio.
Il pairing va dal "Giallo" all'"Arancione", non oltre.
Genere: Commedia, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Nuovo personaggio, Un po' tutti, Zayn Malik
Note: AU | Avvertimenti: nessuno
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Sono Samantha. Più precisamente, Samantha Rockmoore. Ho diciassette anni, una vita davanti, ma non ho la più pallida idea di dove mi porteranno le mie strane idee sul futuro.
Di solito, le protagoniste delle storie drammatiche da teenager si presentano per bene.. beh, la mia non è una di quelle storie, ma mi presento lo stesso.
Partiamo dall’alto. I miei capelli sono lisci e scialbi, di un colore che è il risultato non proprio soddisfacente di una tinta fatta in casa, che doveva dare come risultato un “rosso scuro dai riflessi ramati” ..beh, i miei capelli sono del colore della marmellata di ciliegie della mamma quando rimane fuori dal frigo per settimane. Insomma, è evidente che c’è qualcosa che non va. Siccome non mi va di aggravare la situazione o di sorbirmi Katie, la mia migliore amica, che stiracchia scuse –è lei l’artefice del disastro- dicendo che “ha seguito passo passo tutte le istruzioni”, li ho lasciati così; in fondo, mi ci sono abituata.
Poi.. ho gli occhi castani, molto chiari e la forma del mio viso è molto simile ad un pallone da calcio. Tondo e dalla texture ambigua.
Sono alta un metro e settantacinque e più o meno da quando ho memoria, tutti mi chiamano con amorevoli appellativi, quali “stangona”, “giraffa” e.. oh, il mio preferito in quanto originale e mai usato prima: “Miss Gigantessa Buona Dell’Anno”. Bisognerebbe creare un Oscar apposta per questi geniacci. La conclusione che ho tratto da tutti questi anni di esperienza è che no, essere alti non è proprio la cosa più positiva dal punto di vista estetico. Il mio girovita è sovrabbondante da qualunque punto di vista lo si guardi. Non ho il fisico da fotomodella che ci si aspetta dalla protagonista di una storia. Diciamo che ogni volta che mi muovo, le mie “forme” ballano allegramente la samba, molleggiando a destra e sinistra. Ok, ora non esageriamo. Non sono ancora giunta all’obesità. Ma, fin quando ho la mia nutella, poco me ne frega.
Sono una ragazzetta inacidita, psicopatica e comincio a sospettare di aver bisogno di cure psichiatriche, perché, diciamocelo, i miei pensieri da quindicenne problematica a quasi diciott’anni non sono poi così normali.
Abito nella scialba –almeno quanto i miei capelli- Brighton e frequento la Hudson High School, che –per inciso- non vedo l’ora di mollare per andare al college.
Avete presente quello che ha detto che gli anni del liceo sono i più belli della vita? Ecco, non è che potreste dirmi dove abita? Giusto perché mi devo presentare con una mazza da baseball alla sua porta. Avete la minima idea di quale sforzo psico-fisico richiede il liceo? No, perché io ho esperienza in questo campo. In un certo senso, sotto questo punto di vista, la mia vita somiglia molto ad una di quelle telenovela spagnole che non si capisce un cazzo, ma le continui a guardare. Nella mia scuola, ad esempio, ci sono tutti i presupposti per scappare a gambe levate non appena varchi la soglia. C’è il gruppetto dei fighi, composto dalle cheerleader –ve ne parlerò in seguito, non temete- e dai giocatori di vari sport potenzialmente inutili. C’è il gruppo dei nerd, che passano il loro tempo a calcolare la massa in relazione allo spazio della frutta della mensa. Poi ci sono gli alternativi, quelli che “non seguono la massa” e se ne vanno in giro con la pelle più bucherellata e metallica di uno scolapasta. Insomma, gente carina. Se vi state chiedendo a quale di questi branchi di gnu io appartenga, beh.. a nessuno. Io faccio parte di quella massa informe di gente “anonima”, che gira per i corridoi mantenendo un profilo basso e cercando di evitare le situazioni incresciose. Ovviamente, la mia fortuna è pari a quella di un moscerino schiacciato su un parabrezza, ragion per cui, le cosiddette ‘situazioni incresciose’ mi seguono come farebbe un beagle quando hai in mano un panino al salame: la mia ombra.
E siccome non riesco a mantenere ‘un profilo basso’, a fin dei conti, non faccio parte nemmeno degli “anonimi”. Non ho un gruppo di appartenenza. E sai quanto mi frega? Tanto, un altro po’, e poi lascio quella catapecchia al suo triste destino. E me ne vado al college. Alla Princeton. O comunque, il più lontano da qui.
Dicevo.. le cheerleader. Ah già, c’è Christina. Dolce, dolce ragazzina.
Sì, dolce come lo yogurt scaduto che mia nonna si ostina a conservare.
Christina è.. è l’oca giuliva più velenosa dell’intero Paese, credetemi. Io la odio, la odio da sempre e probabilmente la odierò sempre.
A farmi da compagna in questa strana avventura, quale la mia vita, è Katie, la mia migliore amica. Voi la conoscete come l’autrice del Disastro –i miei capelli-, ma vi assicuro che Katie è l’essere più dolce ed indifeso di questa terra. E ci conosciamo fin da bambine. Beh, in sintesi, questa è la mia vita.

«Sam!» mia madre si dev’essere già stancata di chiamarmi, perché mi sfila le coperte di dosso e il gelo mi attanaglia le ossa.
«Andiamo, mamma! E’ presto!» metto la testa sotto il cuscino. Ogni mattina cerco di aggiungere almeno cinque minuti al mio sonnellino. In pochi lo sanno, ma cinque minuti fanno la differenza.
«Presto?- mia madre fa capolino dalla porta -Sono le otto, tesoro!» cosa?! Mi metto di scatto a sedere.
«Perché diamine non mi hai chiamato?!» cerco di infilarmi furiosamente il primo jeans che mi capita in mano, ma mi accorgo di indossare ancora il pantalone del pigiama. Maledizione.
Giusto per la cronaca, io alle otto e un quarto devo stare a scuola. Ma cacchio.
«Mi sono dimenticata che hai la sveglia rotta, perdono.» la faccia da angioletto del cazzo che ha messo su mia madre, mi fa venire voglia di strozzarmi col lenzuolo. O di strozzare lei.
«Beh, mal che vada faccio seconda ora!» borbotto, mentre finisco di lavarmi i denti.
«Tu non fai seconda ora. Tu ti muovi!» impone mia madre, mettendomi in mano una mela, la tracolla sulla spalla e mi spinge fuori, chiudendo la porta alle mie spalle. Ma quanto amore, oh.
Nel momento in cui mi accorgo che sono le otto e undici, inforco la bici, sperando che la provvidenza divina mi aiuti. Dovrei volare per arrivare in tempo.
Comincio a pedalare con una furia mai vista. Quando rivedranno l’idea di regalarmi uno scooter?! Tante cose non succederebbero.
Mi ricordo all’improvviso che per oggi dovevo portare quel maledetto libro alla prof di letteratura. Libro che, ovviamente, non ho comprato. Proprio in quel momento, passo davanti ad una libreria che ha appena aperto la saracinesca. L’orologio segna le otto e quattordici. Mal che vada faccio ritardo, ma almeno riuscirò ad entrare, con il libro. Scendo dalla bici e la mollo a terra, ma mi si impiglia la tracolla nel pedale. Mentre cerco di districarmi, qualche idiota che ha preso la patente da un macaco decide di venirmi addosso. L’auto nera lucida, prende in pieno la mia bici, ma fortunatamente non mi sfiora nemmeno. Finalmente, nella confusione totale, riesco a districarmi, ma facendolo, perdo l’equilibrio e cado a terra, sbattendo la testa. Perdo i sensi. L’ultima cosa che vedo è una figura maschile con una giacca di pelle e i jeans attillati, che apre lo sportello dell’auto e viene verso di me. Poi.. tutto nero.
Cazzo, il libro.


Che diavolo è successo? Ho le palpebre terribilmente pesanti, ma dopo alcuni tentativi, riesco a tirarle su. Vedo tutto sfocato e bianco.
Sono morta?! Oddio, io non voglio morire!
Ah, no, aspetta. Mi sta tornando la vista. Tutti i puntini bianchi si diradano, lasciando spazio alla visione della strada dove mi sono accasciata a terra. Finalmente le idee si riordinano nella mia mente.
1) Un deficiente neopatentato mi ha sfasciato la bici.
2) Io ho l’equilibrio di un lemure ubriaco e con una gamba mutilata.
3) Sono caduta. Ho perso i sensi.
4) Non ho comprato il libro.
5) Probabilmente non ho fatto in tempo ad entrare a scuola.
Mi sembra di aver dormito per ore. Possibile che il demente che mi ha tamponato, mi ha lasciata qui a terra? E possibile che in questa città non ci sia un benedetto passante che mi aiuti?!
Appena mi volto e guardo in alto, ancora stesa a terra, vedo due occhi castani, quasi ambra, che mi fissano.
..E’ un’espressione seccata, quella che scorgo?
«Ehi, hai intenzione di alzarti o devo stare qui tutto il giorno?» dice il ragazzo, che deve avere sui vent’anni, tirandomi un braccio. Sono ancora un po’ intontita, quindi mi ci vuole un po’ per elaborare.
«Per quanto tempo ho perso i sensi?» chiedo con voce flebile, massaggiandomi la testa. Mi fa male la nuca, diamine.
Il ragazzo guarda l’orologio al suo polso «Più o meno ventotto secondi.» ancora quel tono annoiato.
Ventotto secondi?!
«Ventotto secondi?!»
«Sì, sì. Ventotto secondi. Senti, io non ho tempo. Vediamo di muoverci.» mi tira a sedere, prendendomi per le braccia. Da seduta riesco a guardarlo meglio. Carino, senza dubbi. Ma estremamente irritante, a quanto pare.
«Quante sono?» chiede lui, scendendo alla mia altezza, appoggiandosi sulle ginocchia. Mi mette sotto il naso tre dita.
«Tre» borbotto, imbronciata.
«Bene» sospira il moro «Ci vedi, ci senti. Stai bene.» fa forza sulle ginocchia e si alza. Sta andando verso l’auto, quando realizzo.
«Ehi, aspetta!» protesto, alzandomi repentinamente. L’improvviso cambiamento mi fa venire le vertigini. «Mi hai sfasciato la bici!»
Lui è lì, che si controlla il parafango dell’auto, quando la mia povera bicicletta ci ha ormai lasciati.
Guardo malinconica la mia bicicletta gialla: la canna è ormai piegata e un pedale è tristemente staccato dal resto, a qualche metro di distanza.
«Oh, andiamo» alza gli occhi al cielo «Qualche ritocco e torna come prima.»
«Qualche ritocco?!» mi scaldo «Lo vedi o no che è ridotta ad un purè di bicicletta?» forse è cieco o forse è semplicemente strafottente. Odio la gente strafottente.
«Ascolta ragazzina..» comincia lui. Io nemmeno lo ascolto, concentrata ad ascoltare il mio stomaco che reclama cibo. Non ho mangiato nemmeno la mela.
«Per prima cosa, non sono una ragazzina. Seconda cosa, dato che la mia bici è irrecuperabile, possiamo giungere ad un accordo.» finalmente noto una scintilla di interesse attraversargli lo sguardo. Cominciavo a pensare che fosse apatico.
«Sentiamo» mi concede, tirandosi su il ciuffo e infilandosi un paio di Rayban neri.
«Se mi porti in una farmacia a prendere qualcosa per il mal di testa e poi mi paghi la colazione, dovrai darmi solo metà della somma che in effetti mi devi.» detto le mie condizioni.
«Non dovresti andare a scuola, tu?» mi squadra da capo a piedi ed io mi irrito. Mi tratta come una scolaretta delle elementari.
«Senti, Macho-Man, se mi parli di nuovo con quel tono di sufficienza ti strappo i gioielli di famiglia e poi vediamo che acuti riesci a raggiungere con quella vocetta irritante. Ok?» mi metto le mani sui fianchi, imponendomi.
Lui sospira, scocciato. «E va bene. Ci tengo ai miei gioielli. Accetto l’accordo.» rotea gli occhi.
«Bene!» recupero la mia tracolla e noto che tutta la mia roba è sparsa a terra. Mi chino a raccattare le mie cose.
Con la coda dell’occhio noto il ragazzo prendere il telefono dalla tasca e comporre un numero.
Comincia un’interessante conversazione, evidentemente con la sua ragazza.
«Christina?» oh, che brutto nome. Proprio brutto.
«Ascolta, non faccio in tempo a venire. Ho avuto un imprevisto.» la ragazza deve incazzarsi parecchio, perché sento una sfilza di lagne e imprecazioni dettate da una vocetta stridula.
«Dai, mi dispiace. Non è che lo diresti tu a Katie? Infondo la vedi per i corridoi.» quante coincidenze in fatto di nomi, oh.
Poi, sento dall’altro capo del telefono una frase urlata, un’espressione con cui gli ingranaggi del mio cervello cominciano a macchinare: «Io non parlo alle L!» “L”. Un’espressione che usa solo una persona qui. E poi quella parlata strascicata e melensa è davvero inconfondibile.
Oddio.
Sento borbottare al moro un “e vaffanculo” strascicato e poi lo vedo riporre il telefono nella tasca dei jeans.
«Andiamo?» più scocciato di prima.
Ma quindi Macho-Man sta con l’oca giuliva?
Ma poveretto.
  
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