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Autore: Giuggia89    14/02/2014    0 recensioni
Confessioni di un ragazzo che non è più in vita che, da un luogo remoto, osserva la donna da lui amata e confessa le sue colpe, le sue paure e tutto l'amore che provava in vita e che spesso non è riuscito ad esprimere nel modo giusto.
Totalmente autobiografica, ci tengo a condividerla. Grazie in anticipo a chi leggerà.
Buona lettura
Genere: Drammatico, Malinconico, Slice of life | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Credi che abbia mai dato un bacio sul naso a qualcuno? O scontrato il mio nasone con quello di qualcun altro della dolcezza di un bacino “all’eschimese”?

Credi forse che abbia mai permesso a qualcuno di dirmi cosa fare? Io?

No. Solo tu potevi dirmi cosa fare.

Solo con te facevo la lotta per poi fare l’amore.

Solo verso di te stendevo il piedino dall’altra parte del letto per porre fine al silenzio e ai litigi che nessuno dei due, per troppo orgoglio, era in grado di mettere a posto a parole.

Ma questo bastava. E ti accoccolavi sul mio petto, frignando come una bambina. Che non ha mai il fazzoletto.

E allora, sbuffando, ti arruffavo i capelli, posavo di lato quello che stavo facendo e ti dicevo “va tutto bene frignona” e ti baciavo. E ti abbracciavo.

A chi altro permettevo di farmi diventare verdi le mie magliette preferite o spostare le mie cose a suo piacimento?

Sbuffavo e ridevo, dentro di me felice delle tracce che lasciavi al tuo passaggio.

Delle magliette sporche intrise del tuo odore con cui dormivo per settimane, quando non c’eri.

E quando attiravo la tua attenzione, perché di questo avevo bisogno, di essere coccolato. Da te, non da qualcun altro.

Potevo aver bisogno di compagnia, di aiuto, ma non di coccole. Potevo dire dei “ti amo”, si, ma con che valore? Quando semplicemente accarezzandoti la testa mentre dormivi esprimevo molto di più che con cento parole.

E sorridevo e sbuffavo quando mi scacciavi, e ti cercavo. E ci cercavamo a vicenda, in una giostra dove nessuno dei due aveva mai la meglio.

Ti davo per scontata ma quando ti allontanavi non riuscivo a respirare. La paura di perderti mi faceva morire.

Ti volevo proteggere dal mondo, tenerti lontana da tutto, solo per me. Lontana anche dal male che io stesso ero a farti, separata, sotto una campana di vetro, da proteggere.

La mia principessa. Perfetta nel suo essere imperfetta. Dolce e tenera nel suo non esserlo.

Non sei mai stata sdolcinata, e io lo desideravo. O forse lo ricercavo solo per ripicca.

Ma mi piaceva com’eri, giocavamo a questo nostro gioco di cui nessuno poteva capire le regole.

E ti tenevo stretta a me, ti volevo avere accanto per essere sicuro non ti succedesse nulla, tenerti stretta e lontana dal mondo che volva farti del male.

Cercando di farti crescere mentre tu facevi crescere me. E mi facevi ridere, quando cantavi a squarciagola le canzoni dei cartoni e quando ti infastidivi perché intonavo le mie canzonette in bagno, dove ti costringevo per poterti avere vicina.

Lo facevo anche con altre? Certo, mi piace essere osservato. Ma non di certo per poterle vedere sorridere e sbuffare insieme, mentre tu ti avvicinavi per costringermi ad asciugarmi i capelli e io mi crogiolavo nelle tue coccole facendo le fusa come un gattino. E parlandoti delle mie paure.

E quanto mi piaceva farti arrabbiare? E quando mettevamo a posto o dovevamo fare qualcosa puntualmente diventavo appiccicoso o molesto, o come quella volta che mi sono addormentato nudo con l’aspirapolvere vicino disteso sul pavimento caldo di casa tua.

E mi piaceva giocare con te, anche quando perdevo. Così ti potevo vedere felice sorridere, come quando ti ho portato sugli asinelli. Come una piccola bambina. Ed ero così contento che tu fossi così felice.

Era come un paradiso più bello del paradiso vero.

Ma io non potevo renderti felice per molto. Il mondo esterno, il mondo vero fuori dalla nostra bolla dorata, mi creava problemi, e io non riuscivo ad ignorarli.

Non ho mai avuto la forza che avevi tu, anche quando ti facevo credere il contrario.

Tu sei sempre andata dritta per la tua strada, anche quando era sbagliata, mentre io non avevo una strada.

Solo te, che mi prendevi per mano e cercavi di farmela vedere. Perché la vedevi meglio di me.

E mi aspettavi a casa la sera, sbuffando per i miei infiniti ritardi. E poi io arrivavo e dopo tutte le cose brutte della giornata, mi trasformavo, e prendevo forma, diventavo di nuovo me stesso e non il corpo trascinato dalla corrente del mondo.

Me stesso con te. Perché eri tu il mio mondo. E quanta paura avevo di perderti? Quanta paura avevo che un giorno ti rendessi conto che tu potevi avere tutto e che io non ero nulla?

Solo una costruzione di qualcosa che rispecchiava quello che volevo essere per te.

Volevo darti tutto, ma non potevo farlo. Ho fatto il possibile.

Perché ti amavo.

Veramente. Mi hai insegnato cosa voleva dire amare, e tutto il resto era una pallida imitazione. E quando me ne sono reso conto, ero fottuto. Non potevo più pensare di respirare senza di te.

Ma volevo solo il tuo bene, che tu fossi felice, e io non sapevo come fare.
Intrappolato in due mondi.

Ti guardavo e ti amavo sempre di più, ogni giorno, senza sapere neanche come fosse possibile. E ti accarezzavo mentre dormivi, ti coccolavo quando piangevi, ero contento di ascoltare tutte le stronzate che mi raccontavi per sfogare il tuo nervoso, festeggiavo con te le tue vittorie e ti ero accanto nelle sconfitte.

Perché anche quando non eri vincitrice, lo eri per me. E ti spronavo a fare di più, a fare di meglio, a lasciarti andare alle tue passioni, a trovarle e a condividerle.

Non più solo le mie ma le nostre. Ma ci sono i momenti in cui pensi che forse non basti.
E cerchi altro, insicuro della mia strada, appena tu te ne andavi.

Rimanevo in balia della disperazione e della solitudine quando non c’era la tua mano a guidarmi.

Eppure tu mi eri sempre vicina, me ne rendo conto solo ora.

Sei sempre stata li a vegliare su di me, anche quando io non lo sapevo.

Come voglio fare io ora con te.

Perché io ti amo.Come solo chi ha amato veramente può capire.

Senza riserve. Solo tu ed io in un mondo tutto nostro, dove tutto era più bello se condiviso, dove tutto era un triste sbaglio se fatto separati.

Dove tenerti per mano al cinema  rubarti i pop corn rendeva tutto più bello, persino il mio sacro cinema.

Perché ti baciavo e volevo che ti appoggiassi alla mia spalla, mentre sbuffavi sui miei film noiosi, spesso più per principio che per reale fastidio.

E mi tenevi stretta la mano e sapevo che eri li, che avrei potuto discutere con te sul film appena visto, che avrei potuto sentire le tue lamentele, e tutto rendeva il film migliore.
Tu rendevi tutto migliore.

E mi piaceva anche quando appoggiavi i tuoi piedi puzzolenti e fastidiosi sulle mie gambe, sul treno. Perché volevo sentirti vicino.

Ogni cosa aveva un sapore diverso, con te.

Ma io non ero sicuro, avevo paura, non capivo.

Paura di perderti, paura di lasciarmi andare e stare male, di perdermi qualcosa che invece avrei potuto fare con te.

Perché avevo paura a parlarti, a mostrarti le mie debolezze, anche quando tu le sapevi ancora prima che le sapessi io. E stavi li, ad aspettare, per poi curarmi le ferite quando mi facevo del male.

O a perdonarmi quando io lo facevo a te.

E io ti facevo stare male. E ti mettevo alla prova, volevo che te ne andassi, subito.

E tu invece stavi li, imperterrita.

Eri troppo per me. Di questo avevo paura. Di perderti quando oramai sarebbe stato troppo difficile lasciarti andare.

E tu eri li. E mi guardavi. E mi sfidavi. E mi facevi del male. Perché non te ne andavi ma mi obbligavi al confronto, ad ammettere i miei sbagli e a chiedere scusa.

A chi mai ho chiesto scusa? Io non chiedo scusa.

E tu mi obbligavi a farlo perché non mi permettevi di cacciarti via e di non pensarci.

Avevo paura. Avevi troppo potere su di me, dovevo staccarmi prima che lo facessi tu, prima che vedessi chi ero veramente.

Avevo paura a stare da solo con te.

E se non avessi saputo reggere il peso? Non capivo che tu mi accettavi com’ero, com’ero veramente, perché tu lo sapevi ancor prima che lo sapessi io.

Tu mi amavi così, semplicemente. L’amore in fondo non si può spiegare.

Eravamo due calamite che si attraggono e si respingono a seconda di come sono messe.

Fatti per stare insieme.

Non ci può essere una spiegazione, bisogna viverlo.

E io ti guardavo negli occhi, quel giorno. Il giorno in cui ho cercato di comunicarti tutto questo con lo sguardo.

Con quello sguardo. Perché c’era qualcosa che non andava. Lo sentivo. E lo sentivi. Ed eravamo li, immersi nella sabbia, con il vento  il sole, abbracciati.

Una cosa sola che non voleva staccarsi.

E io ti amavo. Non c’era bisogno di parole. Per me eri tutto. Ho sbagliato e ho chiesto scusa.

Non so perché l’ho fatto.

Ma io ero tuo e tu eri mia, e nessuno avrebbe potuto farci nulla.

Mi sono accorto che ti amavo come non avevo mai amato nessun’altra e come non avrei mai potuto fare con nessun’altra.

Positivo o negativo che questo potesse essere, avevo preso la mia decisione.

Te lo ricordi, quel giorno? Tutti quei regali erano certo una scusa, ma erano anche una presa di coscienza.

Lo avevo capito. E te l’ho detto. E da li ho cercato di mettere la testa a posto. L’ho fatto veramente.

Troppo tardi.

O forse giusto in tempo.

Ti amo crostatina mia.

La mia Julienne. La mia megattera. Pingiuinotta che nuota come un delfino.

Mi hai donato la vita.

E spero la porterai sempre con te.

Tuo e solo tuo per sempre
 
Il tuo angelo custode

*******

Ringrazio chi è arrivato fin qui e che, leggendo, mi ha dato la felicità di poter condividere questa cosa.
Ogni commento, di qualunque tipo, è gradito.
Non sono sicura si percepisca bene, o che non sia troppo contorto.
Spero comunque di aver trasmesso qualcosa.
Grazie mille ancora

Giulia
  
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