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Autore: past_zonk    14/02/2014    3 recensioni
"Signor Holmes, la sua vita è una bugia."
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Quando Sherlock si volta a guardarlo, per vedere che espressione ha dipinta sul volto, è il terrore che gli si dispiega davanti.
Non c'è nulla.
Nulla, sul volto di John Watson. Un volto indistinto, come pixellato, un'immagine sfocata e spaventosa.
E, "John!" urla, perché non può sopportare che stia penetrando anche nel suo bozzolo felice, non può sopportare che dopo aver espugnato il suo Mind Palace stia passando anche a conquistare John, lui e John, Sherlock e John, quello che hanno. Non può sopportarlo, quindi chiude gli occhi e inizia a pregare. Non sa cosa, non sa come, non conosce nessuna preghiera, sono solo silenziosi susseguirsi di "John, John, John" e tanti, tanti respiri, più del normale, più del concesso.
Quando si risveglia da quest'incubo, è John che lo sta scuotendo, che cerca una scintilla di razionalità negli occhi di Sherlock, che lo abbraccia e gli dice che tutto va bene.
Per la prima volta, nonostante le braccia di John, Sherlock sente chiaramente che non va bene, no, che niente andrà bene, che non servirà a molto pregare.
Genere: Angst, Sentimentale, Triste | Stato: in corso
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: John Watson, Sherlock Holmes
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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Note dell'autrice: Ringrazio tutte le persone che hanno inserito la fanfic fra seguite e preferite! E, naturalmente, coloro che hanno recensito:
Maya98: ahah, mi dispiace averti fatto esaurire, diciamo così! La tua recensione mi ha fatto molto sorridere, sopratutto quel 'rileggerò un numero imbarazzante di volte', ahaha! Grazie di cuore per le belle parole : )
Debbysmile:
I tuoi complimenti sono davvero, davvero troppo gentili e garbati. Non so come rispondere, come mio solito, se non con un grande grande grazie! Spero di non deluderti :)

Il capitolo è un po' corto, ma la prossima parte sarà quella finale e credo sarà circa il triplo. Insomma più grande dei primi due messi assieme. Non sono molto sicura del metodo dietro la divisione dei capitoli, ma è quello che mi sentivo di fare.
Peace and Love, gente.

eveyzonk




2/3  Parte due di tre - smokers outside the hospital doors.

 

E' mattina.
E' seduto al tavolo e sta leggendo il giornale, prima che John se ne impossessi dispettosamente come suo solito. E' di buon umore, e non gli accade spesso di esserlo di mattina, quindi se ne rallegra ulteriormente: sarà qualcosa nell'aria, qualcosa in quella quotidianità che ora ama ma che ha sempre disprezzato prima d'allora. Sono i capelli scompigliati del biondo mentre sbadiglia, porgendogli la tazza di tè sbagliata (quella che dovrebbe essere la sua. Sherlock la riconosce dal colore: niente zucchero), sono le sue espressioni assonnate, il suo buongiorno disordinato e il sorriso che sempre gli rivolge.  Sherlock pensa non ci siano cause più sincere di felicità. Si sente così stupido, ma è così, è John, e non può farci nulla.
Mrs. Hudson canta mentre passa l'aspirapolvere al piano di sotto, ed entrambi ridacchiano guardandosi.  John alza il sopracciglio a sottolineare un acuto particolarmente stonato che raggiunge il suo udito.
Ma d’un tratto Sherlock smette di sorridere. Di punto in bianco, come se fosse stato avvertito dal suo istinto, abbassa lo sguardo alla tazza di tè fumante fra le sue mani: il liquido al suo interno è già scomparso. E' vuota. E lui non l'ha portata alle labbra per più di due volte.
Deglutisce.
Alza di nuovo lo sguardo verso John, ed ora è lui a non sorridere più, anche se il fantasma del sorriso di poco prima è ancora lieve sulle sue labbra rosee. La signora Hudson ha smesso di cantare.
"Cosa-"
"Sherlock, lo sai cosa."
Solo che Sherlock
non sa cosa, non capisce, sa che non si tratta puramente del suo tè, sa che non si tratta del Tredici Febbraio in sé, ma sa, ora, senza alcun dubbio che John è al corrente di qualcosa. Che non gliene ha parlato.
Perché? - si domanda. Perché John dovrebbe nascondergli qualcosa?
"Non lo so, John, non so cosa tu stia blaterando,” borbotta, ferito.
"Lo sai, invece" dice John, abbassando lo sguardo, come se fosse spaventato, "Ti prego non farmelo dire", il biondo strizza gli occhi, come se potesse scacciare via un brutto pensiero “Ti prego, Sherlock, sii abbastanza brillante da scoprirlo, perché...non posso semplicemente dirlo”. Inspira, poi.
"Cosa? Cosa non dovrei farti dire? Sapevo mi nascondevi qualcosa, non pensavo fosse così importante da turbarti tanto."
"Non sono io a nascondere qualcosa Sherlock, sei tu.
Tu stai nascondendo qualcosa a te stesso, e lo sai" gli occhi di John si strizzano sempre di più, formando piccole rughette sulle sue tempie. Sembra stia soffrendo.
"John, stai bene?"
"Non...posso..." le mani del dottore si alzano a stringere ciocche di capelli, e ora la sua testa è china verso il tavolo. Sherlock vede le sue labbra sbiancarsi "Non posso dirtelo
io...Sherlock..."
Gli occhi di Sherlock schizzano da un particolare all'altro. Labbra stirate: dolore fisico. (Causato da cosa?) Testa inclinata: orgoglio, non vuole mostrare un possibile cedimento. Mani fra i capelli: disperazione. Occhi strizzati: negazione della realtà, non vorrebbe che nulla di questo stesse accadendo (ma
cosa sta accadendo?). Posizione del busto: inclinato verso le gambe, vuole proteggere se stesso ma sa di non poterlo fare (proteggere da cosa?).
"John, chi è? Chi è che sta facendo questo? Droga, terapie, amnesìa? John,
COSA!" Sherlock si alza dalla sedia e sbatte entrambi i palmi sul tavolo. Pizzicorio.
John respira pesantemente, piagnucola quasi, "John!"
"Ti prego, Sherlock!"
"Cosa!" gli si avvicina, si accovaccia alla sua altezza,  cerca di prendergli le mani e sciogliere i pugni che stanno tirando le ciocche bionde. Un tocco, basta un tocco alla pelle di John per capire.
"John." Sherlock si alza, indietreggia. Sbatte contro il mobile della cucina, inorridisce.
E' allora che John Watson si volta e gli dice, negli occhi una paura fottuta, "
Goodbye, Sherlock."

 

"JOHN!"
All’inizio nel buio non riesce a distinguere niente. Cattura l’aria a grosse boccate, ma sente di non prenderne mai abbastanza; sulla fronte si posa sudore freddo, sulla schiena nuda ballano dei brividi.
Un sogno. Era un sogno.
Solo un sogno.
John è nel letto, affianco a lui, un'espressione molto confusa sul volto, i capelli scompigliati (di nuovo), e la voce è roca mentre gli dice "Mettiti a dormire, era un sogno" rigirandosi dall'altra parte, evidentemente troppo stanco per qualsiasi tipo di rassicurazione.
Sherlock trema leggermente e si stende. Fa aderire il dorso della mano alla sua fronte, e passa così il resto della notte.
Non ricorda
cosa aveva capito toccando la pelle di John nel sogno, ma è grato che l'altro sia troppo assonnato per abbracciarlo o consolarlo: ha paura, assurdamente, che sfiorandolo possa davvero accadere qualcosa, che sparisca, che esploda in coriandoli, o che, chissà, smetta di amarlo.

 

La gara con Moriarty continua fino ad un punto di non ritorno: Sherlock è in piedi sul palazzo del St. Barts, si concentra prettamente sui punti del suo piano: una minima deviazione nei suoi pensieri porterebbe a John Watson, al momento il ricercato numero uno nel suo mind palace, l’individuo indesiderato, il pensiero che rende tutto tremolante e incerto. Sherlock non vuole mentirgli, e allo stesso tempo sa che fingere è l’unico modo per accertarsi della sua sicurezza, quindi ingoia con tristezza l’amaro boccone e procede con il piano.
Sentire la sua voce a telefono è un lusso che lo inseguirà pazientemente nei prossimi anni, lo sa, eppure non può pensare di sparire in silenzio, senza che John sia lì, senza i suoi occhi a implorargli di no, non farlo, per i mille motivi ovvi e per le loro mattinate e le loro risate e quelle volte in cui litigare era solo un pretesto per fare la pace.
Lo ama, e chissà cosa avrebbe pensato di lui, questo John Watson. Probabilmente si sarebbe stupito della sua scelta. Se avesse dovuto ipotizzarlo, avrebbe immaginato un suicidio più bohémien per lui, lo sa. Camera d’albergo a fare da sfondo, o forse la stessa solerte Baker Street, una siringa nel braccio o un barattolo di barbiturici o forse una qualche pillola come quelle del tassista pazzo. Ma signori, buttarsi da un palazzo, quanto può essere egocentrico questo Sherlock Holmes!
All’espressione dipinta sul volto del dottore, Sherlock non può che piangere e continuare con il suo bigliettino d’addio parlato. Quando si lancia dal palazzo, alla fine, nella caduta, nell’attimo in cui tutto si ferma e tutto è leggero, aria, palazzi e ossigeno, in quel preciso istante, si rende conto di non avere un piano, di non sapere cosa star facendo, di cadere per davvero. di non potersi fermare e di non saper pensare a niente. John è lì che urla ‘no’, e non basta il tempo dell’ultima sillaba sul palato del dottore, che lui è già prono sul marciapiede, e già chiude gli occhi per lo shock, e si sente disintegrarsi.
Il suo ultimo pensiero è, sarcasticamente, rivolto al Tredici Febbraio.
Poi
muore.



 

Un battito. Due battiti. Tre battiti.
Pausa.
Di nuovo.
Un ritmo continuo e ripetitivo di colpi secchi e vuoti. Le lancette che scoccano i secondi più inutili, istanti che lo dividono dal nulla e da nessun caso e da quel niente più totale sul quale ha ora paura di affacciarsi. Dentro di sé qualche traccia di razionalità lo porta ad aver paura di questa dimensione chiusa e intricata in cui si trova, questo retroscena , questo ‘dietro le palpebre’, che rende tutto più inconsistente e informe.  
Le sue prime parole, appena sente di possedere delle palpebre, e le batte, sono “John”, e poi subito dopo c’è silenzio. Uno statico silenzio di fondo che non ha mai sentito prima. Se si sforza di sentire il flusso dei suoi pensieri, non sente nulla, ancora una volta, se non quel silenzio. Non capisce.
Muove un’altra palpebra e cerca fra le tasche della mente le chiavi del Mind Palace; ma non le trova, e così inizia a respirare più velocemente, comincia a morire dentro, perché ora come ora l’edificio psicologico  potrebbe semplicemente non esistere più, potrebbe essere crollato, distrutto, raso al suolo, sgretolato.
Sherlock ha paura e per questo non apre gli occhi, se non quando sente un rumore di chiavi girare per due volte nella toppa (della realtà, non del suo palazzo), e dei passi calibrati.
“Signor Holmes, s’è svegliato, finalmente, direi,” esordisce una voce maschile.
E’ un uomo alto e allampanato; Sherlock cerca segni del suo passato nel tono della sua pelle, nel modo in cui s’è abbottonato il camice, ma non riesce a vedere niente. Si passa una mano fra i ricci corvini e inizia a sudare freddo.
Non risponde alle parole del medico, lascia sia lui a fare il primo passo.
Il dottore si accovaccia accanto a lui e inizia ad osservarlo con indecisione, come se non sapesse se toccarlo o meno.
“Signor Holmes, come si sente?”
Come si dovrebbe sentire? Guarda il volto dell’uomo e non vede nessun’indizio, come se non fosse più capace di dedurre. Come dovrebbe sentirsi. Come.
“Sarà confuso, immagino.”
“D-dove…” le parole gli escono fuori rudemente, la gola gli brucia. Continua a osservarsi attorno e a sentire quel rumore statico ronzargli nella testa.
“Si trova nell’ospedale St.Petyr di Cardiff, reparto…” tossicchia “psichiatria.”
Sherlock aggrotta le sopracciglia e appoggia la schiena contro le pareti bianche del muro. Nota il letto dall’altra parte della stanza, accanto ad una finestra, e la scrivania infestata di fogli sparsi e penne stilografiche. Sembra un posto vissuto.
Vissuto, ma da chi?
“Moriarty…?” è un sospiro confuso e roco.

John? Lestrade? La signora Hudson?
John?!

In un secondo Sherlock si sente come una rondine in gabbia, sente il petto stringersi e prova ad alzarsi con scarsi risultati, finendo col ricadere con la schiena contro il muro e ritrovandosi le  mani di quell’uomo altissimo sulle spalle. Ha le mani troppo grandi, e una faccia olivastra, probabilmente di origini francesi, piccoli occhi neri e sopracciglia folte.
“Non si sforzi troppo, Signor Holmes”
“Ma…ma…chi è lei?” gli occhi del detective si accendono subito di una rabbia impazzita e senza meta specifica. “Cosa vuole da me? Mi faccia subito uscire di qui, mio fratello occupa--“
“Una carica minore nel governo britannico, già…” il dottore finisce la sentenza con una nota amara nella voce, e un sospiro.
Sherlock non capisce, si dibatte, si dibatte fin quando i suoi occhi non gli mostrano nient’altro che rosso, rosso carminio sulle pareti e sul volto dell’irritante dottore che, a passo veloce, ritorna alla porta della cella per chiamare qualcuno.
Quando un paio di braccia forti lo placcano al pavimento, e un ago gli penetra la vena del collo, Sherlock sente una forte ondata di nausea e, poi, nient’altro. Di nuovo.





 
   
 
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