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Autore: Beatrixxx    15/02/2014    4 recensioni
Osservo i miei occhi grigi, quelli non sono cambiati. Lentamente mi allontano dal mio riflesso. Vedo il mio viso, quello sì che è cambiato. Mi allontano ancora finché non vedo tutto il mio corpo nello specchio alto e stretto che si regge da sé in un angolo della mia camera. Il vecchio vestito nero che indosso mi sta troppo grande, sembra un sacco dell’immondizia su di me.
Ero veramente grassa quando lo indossavo quel giorno in cui è morta la nonna un paio d’anni fa. 
Non ricordo quanto pesavo esattamente, so solo che da allora avrò perso almeno una decina di chili. Ora so esattamente quanto peso (46,2 per uno e sessantacinque d’altezza) ma non è abbastanza, non sarò mai abbastanza magra, mai abbastanza bella com’era Anna.
Genere: Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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VUOTO

 

 

-Fool!
Una botta mi arrivò dietro la testa facendomi strizzare gli occhi e barcollare in avanti. Sentii delle risate che mi passavano accanto, la testa mi girava, aprii gli occhi mettendo a fuoco Alberto e co. Ridevano e puntavano l’indice contro di me chiamandomi “balena”.
“Idioti” pensavo ma non lo dicevo. Mi salirono le lacrime agli occhi un po’ per il dolore dietro la testa, un po’ perché gli davo ragione. Ero grassa, mi facevo schifo e quei teppistelli non facevano che ricordarmelo. So che a tredici anni i ragazzi si divertono ad andare contro gli “sfigati”, come li chiamavano loro. Io ero debole, inerme.
“Andrà sempre così” pensavo.
Entrai in classe a testa bassa, la frangetta laterale mi copriva mezzo viso, con i miei capelli rossi troppo appariscenti nascondersi non era un’impresa facile. Era il primo giorno dell’ultimo anno delle scuole medie e già non vedevo l’ora della fine. Gli altri due anni erano stati uguali. Sempre derisa, umiliata, bullizzata e tutto per colpa mia e del mio grasso ingombrante, fuori luogo.
“Resisti, resisti” mi dicevo “nove mesi circa e tutta questa sofferenza avrà fine. Sì… ne sono sicura”.

Osservo i miei occhi grigi, quelli non sono cambiati. Lentamente mi allontano dal mio riflesso. Vedo il mio viso, quello sì che è cambiato. Mi allontano ancora finché non vedo tutto il mio corpo nello specchio alto e stretto che si regge da sé in un angolo della mia camera. Il vecchio vestito nero che indosso mi sta troppo grande, sembra un sacco dell’immondizia su di me. Ero veramente grassa quando lo indossavo quel giorno in cui è morta la nonna un paio d’anni fa.
Non ricordo quanto pesavo esattamente, so solo che da allora avrò perso almeno una decina di chili. Ora so esattamente quanto peso (46,2 per uno e sessantacinque d’altezza) ma non è abbastanza, non sarò mai abbastanza magra, mai abbastanza bella com’era Anna.
Mi sembra che sia trascorso tantissimo tempo, eppure sono passati solo tre anni. Tre anni dal giorno in cui ci siamo parlate per la prima volta, io e Anna.

-Ciao!- disse Anna facendomi un sorriso a trentadue denti.
-Ciao- risposi guardandola timidamente.
Era un po’ più alta di me e aveva i capelli lunghi e biondi. Era “quella nuova”, quella che si era trasferita da Milano. Poco prima Marco, uno del gruppo di Alberto, era passato vicino al mio banco facendo cadere il mio astuccio. Prima che potessi chinarmi a raccoglierlo, Anna si era materializzata lì e aveva detto ad alta voce: “Idiota” rivolgendosi a Marco. Io ero così sorpresa che rimasi come paralizzata. Anna mi aveva raccolto l’astuccio e salutata.
-Io mi chiamo Anna. Tu dovresti essere Sofia, giusto?
Da allora abbiamo cominciato a parlare e di lì a qualche giorno eravamo già amiche.
Oh Anna… se tu fossi ancora qui. Perché mi hai lasciata sola?
Ricordo di aver pensato la stessa frase quando la mamma morì a causa di un tumore quando io avevo appena sei anni. Consideravo Anna come una sorella maggiore. Il dolore che provo per la sua morte equivale a quello di quando persi mia madre.
-Sofia? Sei pronta?- La voce di mio padre mi riporta al presente.
-Sì, Arrivo!
Sto venendo a salutari per l’ultima volta, Anna.


Siamo a metà Marzo. Piove ma non fa freddo. Sopra il vestito indosso una giacca lunga e nera regalatami da Anna lo scorso Natale. La porto aperta per non far sembrare il vestito troppo largo.
Una volta salita in macchina con mio padre, m’infilo gli auricolari nelle orecchie e scelgo una canzone degli Evanescence: My Immortal.
Mio padre non si lamenta quando ascolto la musica in macchina. I genitori di Anna si sarebbero sicuramente arrabbiati se la loro perfetta ed educata figlia avesse fatto una cosa del genere. La prima volta che vidi i signori De Angelis, mi erano sembrate delle persone oneste, serie… fin troppo serie. Solo una volta avevano sgridato Anna davanti a me, ed era stata per una questione futile che neanche ricordo.
Anna diceva che i suoi erano i classici genitori che appaiono perfetti agli occhi di tutti ma che in verità tra le mura domestiche non si comportano come dei genitori esemplari. Litigavano troppo e sempre ad alta voce, urlavano spesso e non mangiavano mai insieme. Era importante, per i signori De Angelis, che la loro “preziosa” figlia fosse sempre al top: doveva prendere il massimo dei voti in tutte le materie, doveva essere sempre vestita bene, pulita e ordinata, non doveva mai rispondere male ai genitori che tenevano così tanto a lei… Tutta apparenza.
Anna non era felice.
I suoi genitori non avevano mai dimostrato affetto nei suoi confronti. Anna non si confidava mai con loro perché quando provava a farlo, i suoi non mostravano il minimo interesse. Ciò che era veramente importante era il suo rendimento scolastico e come appariva agli occhi delle altre persone, il resto non era molto rilevante.
Anna non era felice.
Quando i suoi genitori litigavano, Anna mi chiamava per sapere se poteva venire a studiare, a chiacchierare o a fare una passeggiata insieme a me (ovviamente io accettavo sempre).
Quando i suoi genitori litigavano di sera, Anna si chiudeva in camera sua e si metteva sul letto a sentire la musica del suo iPod con le cuffiette.
Quando i suoi genitori urlavano, Anna alzava tantissimo il volume della musica e si premeva il cuscino sulle orecchie per non sentire niente. A volte piangeva… tanto.
Anna non era felice.
Sbatto le palpebre e una lacrima mi scende lungo una guancia. Alzo il volume dell’iPod e guardo il cielo nuvoloso attraverso il finestrino.


-Quante calorie hai perso sul tapirulan?- mi chiese Anna una volta uscite dalla palestra.
-450 e tu?
-500.
-Bravissima!
Ci battemmo il cinque e ridemmo felici dei nostri progressi. Stavamo entrambe perdendo molto peso.

Volevamo sentirci leggere…

Sognavamo di volare via, lontano dalla vita quotidiana, lontano dagli obblighi. Odiavamo sentirci oppresse. Volevamo liberarci dalle angosce e dai dispiaceri.

…leggere come delle farfalle.

Anna era arrivata a pesare 41 chili ed era alta un metro e settanta. Anche se indossava una maglietta a maniche lunghe, si potevano scorgere le clavicole e le ossa delle braccia. Aveva il viso scavato e le gambe sottilissime.
-In palestra riesco a scaricare tutto lo stress e la rabbia accumulata durante la settimana- diceva lei col sorriso sulle labbra.
Quello però non fu un giorno come gli altri. Capitò qualcosa d’imprevisto. In verità successe qualcosa che la maggior parte della gente riterrebbe inevitabile ma non lo era per me. Avevo sempre ritenuto Anna una ragazza invincibile. Mi sbagliavo. Il suo corpo non era abbastanza forte come lei credeva. Come tutti anche lei era un essere umano con le sue debolezze e fragilità.
Anna svenne proprio quel giorno. Era lì a fianco a me. Stava parlando quando all’improvviso s’interruppe a metà frase. Si era fermata e si premeva una mano sulla fronte con gli occhi chiusi.
-Anna, tutto bene?- le chiesi preoccupata e mi avvicinai a lei.
-Sofi, non mi sento…
In quel momento perse i sensi e, prima che potesse cadere, io riuscii a sorreggerla per non farla cadere.
-Anna! Anna!!
Misi la sua borsa sotto la sua testa. Era pallida, la sua fronte era imperlata di sudore.
-Anna!
Mi veniva da piangere, mi tremavano le mani. Presi il mio cellulare e chiamai l’ambulanza. Successe tutto così in fretta. Anna venne portata al pronto soccorso e mio padre venne a prendermi.
In seguito Anna venne ricoverata in ospedale dove rimase per quasi due settimane.

L’andai a trovare quasi tutti i giorni. Feci tante assenze a scuola ma non mi importava. Anna aveva bisogno di me.
Io, però, non ho potuto fare niente.
Ogni volta che andavo a trovarla in ospedale, le stavo vicino, parlavamo ma vedevo che col passare del tempo diventava sempre più debole. Negli ultimi giorni era spaventosamente pallida, aveva delle occhiaie molto grandi, respirava in modo strano come se avevate qualcosa che le premesse sul petto.
L’ultimo giorno che l’andai a trovare pianse, stava malissimo, l’abbracciai per consolarla e sentii le ossa della schiena e delle spalle che ormai erano così evidenti che se l’avessi vista nuda mi sarebbe sembrata uno scheletro. Piansi anch’io e la strinsi leggermente a me. Mi pareva fragile come vetro.
-Grazie Sofi.
-Per cosa?
-Per tutto. Tu ci sei sempre stata, mi sei sempre stata vicina nei momenti più difficili.
In quel momento si aprì la porta della stanza ed entrò un’infermiera.
-L’orario delle visite è finito.
-Torno domani- dissi allontanandomi dal letto.
-Ciao Sofi- aveva gli occhi gonfi e gli zigomi umidi di lacrime ma abbozzò un sorriso.
-Ciao Anna- chiusi la porta e m’incamminai verso l’uscita dell’ospedale asciugandomi le lacrime col dorso della mano.
Quella fu l’ultima volta che la vidi.

 

Ora lei è davanti a me. No… dentro quella bara non c’è lei ma solo il suo corpo, se tale si può definire.
Lei non c’è più.
Lei. Non. C’è. Più.
Sento la gola gonfiarsi e gli occhi inumidirsi. Inizio a tremare.
Oh no! Mi sta per venire un attacco di panico! A volte mi capita ma non in luoghi pubblici. Abbasso la testa e nascondo bocca e naso con le mani per respirare. Mi esce un singhiozzo. Sento la mano di mio padre poggiarsi sulla mia spalla. Tolgo le mani dal viso e lo guardo.
-Se vuoi possiamo andarcene- dice lui.
Con gli occhi sbarrati faccio velocemente di sì con la testa.
A che servo qua? Ormai Anna non ha più bisogno di me. Lei non può più soffrire, io invece sono ancora su questo pianeta e soffrirò ancora.
Ormai il funerale è finito. Io e mio padre andiamo a fare le condoglianze ai genitori di Anna e ci dirigiamo verso l’uscita della chiesa mentre le altre persone parlano tra di loro.
Mi dispiace Anna, non sono stata in grado di aiutarti.


Sono sotto le coperte. Appena siamo arrivata a casa, sono andata in camera mia, ho indossato il pigiama e mi sono infilata nel letto, anche se erano appena le sette del pomeriggio. Mio padre bussa ed entra, si siede sul letto e mi chiede se ho voglia parlare con lui.
-Grazie papà ma ora preferirei dormire.
Preferisco dormire per non risvegliarmi più. Mi sento inutile.
Mio padre non insiste e mi lascia da sola.
Sono sola.
Sento come se una parte di me fosse morta. Ma in fondo è così. Anna faceva parte della mia vita. Eravamo come sorelle. In pochi giorni è finito tutto. Le nostre speranze, i nostri sogni… in frantumi. Non voleremo più via da questo mondo falso e crudele. Però, ora che ci penso, lei l’ha già fatto. Si è liberata del suo corpo ed è volata via come una farfalla. Io invece mi sento inchiodata a terra.

Io sono un verme e lei una farfalla.

Scaccio questo assurdo pensiero e respiro profondamente. Mi gira un po’ la testa, ho bisogno di dormire.
Spero di non sognare. I miei non sono sogni ma incubi. Se per caso sogno qualcosa di bello non me lo ricordo. Ho decisamente bisogno di rilassare e svuotare la mente.
Domani si torna a scuola… purtroppo.
Spero proprio di non sognare.


Titititì titititì titititì…
è la sveglia.
Mi tiro su, distendo le braccia e inarco la schiena. Mi alzò dal letto infilandomi le pantofole. Vado verso l’armadio e lo apro.
Vuoto.
Com’è possibile? Abbasso gli occhi.
No, non è vuoto. Sul fondo dell’armadio c’è uno scheletro con in testa qualche ciocca di capelli lisci e biondi.
Aaaaaaaa!!
Titititì titititì titititì…
Mi tiro su di scatto. Respiro affannosamente guardandomi intorno con gli occhi sgranati. Sento il cuore battermi forte nel petto.
Titititì tititiBAM! Con un pungo spengo la sveglia.
Era solo un incubo. Cominciamo bene la giornata…
Chiudo gli occhi, respiro e mi lascio cadere sul letto. Sono esausta. è come se avessi corso per un chilometro.
Dannati incubi!
-Forza Sofia. Puoi farcela. DEVI farcela. Alzati e vai a scuola. Hai saltato troppi giorni- dico ad alta voce mentre mi tiro su svogliatamente.
Sospiro e con le dita mi levo i miei capelli ramati dal viso, portandoli dietro. Mentre mi stiro, sento scrocchiare le vertebre della spina dorsale. Avrei potuto dormire per tante altre ore ma non posso, il dovere mi chiama.

Vado in bagno e dopo essermi lavata, mi peso.
45 precisi! Sorrido.
-Almeno una cosa sta andando bene- dico a me stessa mentre mi vesto.
Sto perdendo peso perché da quando Anna è svenuta quel giorno avrò mangiato pochissimo senza nemmeno impegnarmi o fare attività fisica. Di solito penso continuamente al cibo e mi dispero ogni volta che oltrepasso il limite stabilito da me e da Anna… più da Anna.
Questi giorni invece i miei pensieri non erano rivolti molto al cibo e più in generale a me stessa. Le mie attenzioni si sono focalizzate sulla vita di Anna.
Mentre penso, vado in cucina. Mio padre è seduto al piccolo tavolo in mezzo alla stanza. Sta leggendo il giornale e ha una tazza di caffè in mano.
-Buongiorno.
-Giorno Sofi.
Oggi non ce la faccio a saltare la colazione. Mi sento troppo debole, ho bisogno di zuccheri.
Prendo dal cesto della frutta una mela verde: 50 calorie circa. è stata Anna ad insegnarmi a contare le calorie degli alimenti. Mentre lavo la mela, ripenso a tutte le volte che cercavamo su internet le calorie di ogni cibo.
Vado a sedermi di fronte a mio padre e do un morso alla mela.
-Come ti senti oggi?- mi chiede lui mentre ripiega il giornale e lo mette sul tavolo.
-Bene- rispondo io sorridendo.
Non è vero, non sto bene. Mi duole ancora la testa e mi sento giù fisicamente e psicologicamente.
-Vuoi che ti accompagni a scuola?
-No ma grazie lo stesso. Ce la faccio papà. Sto bene.
Mentire è diventata un’abitudine. I genitori diventano intrattabili quando iniziano a preoccuparsi.
-Come vuoi- dice mio padre prima di finire il caffè. Non è mai stato molto loquace. Meglio così.

Di solito, per andare a scuola, prendo la bici. Oggi piove e mi tocca aspettare l’autobus. 

è tardi, la lezione sarà iniziata da cinque minuti.
Corro e, arrivata davanti l’aula, apro la porta troppo rumorosamente.
Diamine… meno male che non volevo farmi troppo notare…
Si sono tutti girati a fissarmi e la professoressa di storia mi guarda severamente.
Ma proprio lei doveva esserci oggi in prima ora?!
-Mi scusi per il ritardo- dico cercando di riprendere fiato.
Sento un forte dolore nel petto e alla milza. Sono stata troppi giorni senza fare esercizio fisico, non sono più abituata a correre.
Mentre vado a sedermi al mio solito posto, sento bisbigliare.
…Anna… morta… incidente… suicidio… com’è successo?… avrà sofferto?… poi chiediamo a Sofia…
Oh no! Sarò sommersa di domande quando la lezione sarà finita. Me lo dovevo aspettare. Ero la migliore amica di Anna dopotutto…

La lezione passa lentamente. Dopo mezz’ora ho già sonno.
Mi torna in mente l’incubo fatto la scorsa notte, le mie palpebre diventano pesanti.
Odio la scuola… odio gli insegnanti, gli alunni… odio tutti. Voglio andarmene… ma sono inchiodata alla sedia da catene invisibili. Ho la bocca cucita da un filo invisibile. Voglio essere invisibile…

Suona la campanella.
Non faccio in tempo ad alzarmi che già Alessia e Carlotta sono davanti a me e cominciano a fare domande riguardo la morte di Anna.
Blablabla… tutte domande a cui non ho voglia di rispondere.
“Lasciatemi in pace” penso. Vorrei tanto urlare per azzittirle ma tutto quello che faccio è alzarmi e uscire dalla classe. Sicuramente per questo verrò vista malissimo ma non mi importa. Non m’interessa più piacere alla gente. Voglio solo essere lasciata in pace!
Da sola però sarà più difficile sopportare tutto.


Sono in camera mia, seduta davanti alla scrivania.
È passata una settimana da quando sono tornata a scuola dopo la morte di Anna. Le giornate sono state monotone, noiose e a volte stressanti. Molti compagni di classe sono venuti a chiedermi di Anna ma io non ho detto niente, a parte: -Per favore, preferirei non parlarne.
Per il resto della settimana non ho praticamente aperto bocca. Ho seguito pochissimo ciò che i processori hanno cercato di insegnarci. è come se a scuola non ci fossi stata. Diciamo che almeno non ho fatto altre assenza. Ero presente fisicamente ma non mentalmente.
Ma che senso ha? Ora che Anna non c’è più, mi sento così vuota… così inutile…
Non mi sono mai fermata a riflettere seriamente riguardo me stessa.
Io e Anna eravamo come delle gemelle, così unite che ora mi sento una persona a metà.
Ho mai avuto una vera identità? Chi sono veramente? E se non fossi mai diventata amica di Anna? Come sarebbero andate le cose? Come sarei io adesso? Come prima? Avrei fatto altre amicizie? Sarei stata più felice o meno felice?
Chiudo il libro di fisica e lo lancio sul letto.
Ma perché mi sto facendo queste assurde domande?
È da più di mezz’ora che cerco di studiare ma non ci riesco. Sento lame di coltelli trafiggermi il cervello. Mi torna in mente l’incubo. Ancora?! Basta!! Quest’incubo mi ha perseguitata tutta la settimana!
Mi alzo dalla sedia e comincio a camminare avanti e indietro nella stanza come un animale in gabbia.
Ma è possibile che non riesco più a controllarmi? Non riesco a concentrarmi, a trattenermi…
Ma perché?
Non ho nessuno con cui sfogarmi… ecco perché.
Ad Anna potevo dire tutto. Potevo sfogarmi. Parlavamo anche di cosa non ci piaceva della scuola, dei professori, dei compagni di classe, dei genitori… di ogni cosa.
Ora sono costretta a tenermi tutto dentro.
Non sono mai stata brava a fare amicizia… non senza Anna. Solo insieme a lei sono riuscita ad integrarmi nella classe in modo da non essere “torturata” come succedeva alle medie. Agli occhi dei nostri compagni di classe e dei professori, noi due eravamo persone normalissime.
Ora però i miei compagni di classe mi vedono come un’asociale depressa.
Ma perché m’importa tanto del giudizio altrui? Ah sì… è stata Anna a dirmi: -Se vuoi vivere serenamente, devi piacere alla gente. Cazzata… Se si vuole vivere serenamente, bisognerebbe innanzitutto piacersi e POI piacere agli altri. Il problema è che io non mi piaccio. Non mi piaccio per niente! Mi reputo una persona falsa, imbranata, pigra, stupida, brutta, inutile… un peso per il mondo.
Sento molto caldo, il mio respiro è diventato più veloce, inizio a tremare.
Oh no! Un altro attacco di panico, no!
Quasi mi butto sul letto e affondo il viso nel cuscino morbido che sa di pulito.
Dopo un po’ riprendo a respirare normalmente e quando mi calmo del tutto, mi giro su un lato. Inaspettatamente mi vengono le lacrime agli occhi.
Piango.
Piango per sfogarmi, perché sono sola e perché so che è colpa mia. Piango perché Anna è morta e perché io non ho fatto effettivamente niente per impedirlo.
Piango finché ho forza di piangere.

Mi sveglio con le guance umide e appiccicose. Mi sono addirittura addormentata mentre piangevo.
Che pena che faccio…
Esco dalla mia camera, attraverso il corridoio e vado in bagno. Mi spoglio e salgo sulla bilancia.
43,9.
Non ricordo l’ultima volta che ho mangiato.

Oggi in classe sono più stanca del solito. Mi sarei addormentata sul banco se il professore di matematica non mi fosse venuto a rimproverare dicendomi di stare attenta alla lezione.
Che palle la scuola…
Meno male che oggi ho chiesto a mio padre di venirmi a prendere. Mi sento veramente debole. 

Suona la campanella.
Ooh! Finalmente l’ultima lezione è finita!
Metto le mie cose nello zaino e mi alzo dalla sedia troppo velocemente.
Per un secondo vedo tutto nero. Batto le palpebre e la mia vista ritorna lentamente come prima.
Sono decisamente troppo stanca.
Seguo la corrente di alunni diretti verso l’uscita della scuola. Intravedo mio padre che mi aspetta appoggiato alla sua macchina grigia. Quando riesco ad uscire dal cancello, qualcosa mi trattiene. Mi volto e vedo le facce severe di Alessia e Carlotta. Alessia mi lascia la manica della giacca e si mette a braccia conserte.
Con sguardo interrogativo chiedo: -C’è qualche problema?-
Carlotta mi risponde: -È quello che volevamo chiedere a te! Sei diventata sempre più scostante dopo la morte di Anna.
-Sentite ragazze…
Ora è Alessia che prende la parola: -No no, ora ci ascolti! Eviti sempre tutti senza motivo.
-Bhè…ecco…
-Vogliamo sapere perché hai questo atteggiamento con noi.
-Non è che io ce l’abbia con voi…
-Perché non ci rispondi quando ti facciamo qualche domanda su Anna? Noi non possiamo sapere niente solo perché eri solo TU ad essere sua amica? È per questo?!
-Vi ho già detto che non mi va di parlare di Anna!!
Si sono ammutolite appena ho alzato la voce. Con la coda dell’occhio vedo che alcuni ragazzi si fermano a guardarci.
-Ma non capite?! Non ce la faccio più! Ogni giorno c’è qualcuno che mi chiede qualcosa di Anna! E va bene, ve lo dico! Anna è morta perché era anoressica! Ok?! E non guardatemi così. So che lo sospettavate e so anche che spesso parlavate male sia di lei che di me! Ma che vi costa lasciarmi in pace? Non capite la mia sofferenza? Non ce la faccio più!!
Sto tremando, respiro a fatica, mi sento soffocare e sento un forte dolore al petto. Inizio a sentire ovattato e la mia vista si annebbia. Non riesco a pensare a niente. Non mi sento più le gambe.
L’ultima cosa che sento è il mio nome urlato da mio padre.
-Sofia!


-Sofi? Sofi?
-Papà…
Ma dove mi trovo?
Sbatto le palpebre un paio di volte. Tutto intorno a me trema. Ho un forte mal di testa perciò richiudo subito gli occhi. Sento di essere sdraiata su un letto con una coperta addosso. Ho una mascherina che mi compre naso e bocca e che mi da ossigeno. Sono su un’ambulanza.
-Sofia, sono qui- la voce di mio padre mi rassicura.


Ora sono in una stanza dell’ospedale.
Non ero mai svenuta prima. è stato strano. Il mio corpo, e sicuramente anche la mia psiche, non ha retto.
Il viaggio in ambulanza mi è sembrato lunghissimo. Non vedevo l’ora che mi riportassero sulla “terra ferma”.
Dopo alcune visite, i medici mi hanno detto che devo riposare e mi hanno spostata in questa stanza. Entra mio padre e mi saluta. Poi avvicina una sedia al letto e si siede accanto a me.
-Come ti senti?
-Un po’ meglio.
-Hai bisogno di qualcosa?
-No, grazie.
-Vuoi che chiami l’infermiera?
-No, non ho bisogno di niente.
Sospiro.
-Sono molto stanca.
-Va bene, ho capito… ti lascio riposare.
-Grazie papà. Scusami.
-Scusarti per cosa?
Chiudo gli occhi e sospiro di nuovo.
-Sono un disastro.
-Sofia, guardami- dice seriamente mio padre.
Io riapro le palpebre e lo guardo negli occhi. Lui mi mette una mano sul braccio.
-Sono io a dovermi scusare con te. Sono stato cieco. Non ti capivo. Non sapevo quanto tu soffrissi.
-Ma sono stata io a non dirti niente. Non volevo farti preoccupare. Mi dispiace.
-Non essere triste, tesoro, insieme sistemeremo tutto. Va bene?
-Va bene papà- gli dico sorridendo mentre si alza ed esce dalla camera.
-Cerca di dormire. Ok?
Io annuisco e lui chiude la porta.
Mi viene da piangere. La mamma rimarrebbe delusa da me. Papà non si merita questo dispiacere. Solo ora capisco quanto bene mi vuole. Qualche ora fa avrei detto che per lui ero solo una figlia da mantenere e niente di più. Non è così. Oggi papà ha dimostrato di tenere a me.
Allora non sono sola come pensavo…
Chiudo gli occhi.
Mi sento meglio.

Ho dormito. Non ho sognato.
 

Sono stata in ospedale per due giorni.
Ora mi trovo in macchina con mio padre che mi sta accompagnando a fare una visita da un medico specializzato in disturbi alimentari.
Durante questi giorni ho avuto il tempo di riposare corpo e mente. Ho riflettuto molto riguardo me stessa e la mia situazione.
Quando entro nello studio, scopro che il medico è una donna. Dopo una breve conversazione fatta da sue domande e da mie risposte, mi misura e mi fa salire sulla bilancia.
43,5.
Caspita! Sono scesa parecchio di peso.
Continuo a fissare il numero sulla bilancia. Non mi sento felice e soddisfatta come quando vedevo i risultati delle restrizioni alimentari, delle sudate in palestra, dei digiuni… anzi, mi sento in colpa verso me stessa.
è inutile rimuginare sul passato, l’importante è saper ciò che si vuole adesso.
Anna è morta di anoressia. Io non voglio fare la sua stessa fine.
La dottoressa mi fa sedere su una sedia di fronte alla scrivania.
-I dati parlano chiaro, Sofia- dice mentre va a sedersi alla scrivania -tu soffri di anoressia. Se vuoi farti aiutare a risolvere il problema, puoi venire nella clinica specializzata in disturbi alimentari dove lavoro. Lì ci sono ragazze che, come te, hanno problemi col cibo e che non vogliono più averne.
Mi guarda aspettando una risposta che non arriva.
-Se vuoi, ora possiamo far entrare tuo padre?
Continuo a fissare la dottoressa negli occhi ma sto pensando ad altro.
Mentre stavo venendo qui, avevo immaginato che avrei potuto scegliere di andare a stare in una clinica del genere. Ora, però, mi ritrovo un po’ confusa e indecisa.
-Sofia?
-Ah… sì sì. Gli dico di entrare.
Esco dallo studio e chiamo mio padre. Quando entra, si siede sulla sedia vicina alla mia e la dottoressa comincia a parlargli della mia situazione.
Io un po’ ascolto e un po’ penso ad altro.
Sì, credo proprio di avere ragione: l’importante è sapere ciò che si vuole in questo momento.
Ora so quello che voglio.
Voglio vivere… vivere bene. Sì… perché, se no, che si vive a fare? A che serve continuare a vivere se non si cerca di essere felici? Dopotutto, si vive una volta sola.
Durante questi anni non ho fatto altro che costruirmi una gabbia con le mie mani e con l’aiuto di Anna. Non do la colpa ad Anna. Semplicemente lei non voleva stare sola, voleva qualcuno di cui potersi fidare, un’amica sempre vicina a lei. Anna non ce l’ha fatta a vivere, forse è stata lei a non volerlo.
Ormai però ho accettato la sua morte. È andata così e mi dispiace ma ora devo voltare pagina e prendere il controllo di me stessa.
Voglio ricominciare. Come una fenice, rinascerò dalle mie ceneri per poi riprendere a volare e a sentirmi libera perché padrona di me stessa.
La dottoressa mi da un foglio. È il modulo per accedere alla clinica. Lo leggo attentamente.
Ora so quello che voglio.
Voglio farmi aiutare, imparare e liberarmi da ciò che più di tutto, durante questi anni, mi ha fatto soffrire: l’anoressia.
Prendo in mano la penna e firmo:
Sofia Vitale

   
 
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