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Autore: BlackEyedSheeps    16/02/2014    3 recensioni
“E’ tutto a posto, vero?”
“Sono in vacanza. Cosa potrebbe andare storto? A parte i vicini di casa che decidono di trapanare i muri alle sette del mattino…”

Clint, ancora perseguitato dai superstiti demoni degli eventi di New York, è sempre più isolato. Quando la situazione tocca il fondo, Natasha decide di intervenire, rifiutandosi di restare a guardare. Ma anche lei dovrà fare i conti con i postumi della battaglia degli Avengers...
[Clint/Natasha] [Post-The Avengers]
Genere: Angst, Erotico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Clint Barton/Occhio di Falco, Natasha Romanoff/Vedova Nera
Note: Movieverse | Avvertimenti: nessuno
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- Questa storia fa parte della serie 'Compromised'
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CAPITOLO 6

 

It's not like you to say sorry
I was waiting on a different story
This time I'm mistaken
For handing you a heart worth breaking

(How you remind me - Nickelback)

 

Superbia

 

 

Tutto era iniziato come un docile scherzo.

Di fatto, poi, si era concretizzato in qualcosa di molto più serio.

Natasha brandiva con distacco un paio di lunghe forbici e un rasoio. Entrambi oggetti che potevano tramutarsi in efficaci armi letali, nelle sue mani esperte.

“Devi stare fermo.”

Tante grazie.

Clint non aveva intenzione di muovere un muscolo. Si limitò a stringersi nelle spalle con espressione indifferente. O tale, all’apparenza.

“L’ho già fatto altre volte”, lo rassicurò lei, sporgendosi verso di lui. Si appoggiò alla sedia su cui lui stesso era seduto. Il suo ginocchio improvvisamente troppo vicino alla zona rossa delle sue parti basse. “L’importante è che non tremi come una foglia.”

“Non sto tremando.”

“E' una precauzione.”

“Un suggerimento, mh?”

“Io non do suggerimenti. Io avviso.”

La schiuma da barba con cui gli aveva cosparso il viso cominciava a dargli fastidio, sciogliendosi a contatto con la pelle accaldata. Il rasoio si avvicinò a una delle sue guance.

 

Non era del tutto sicuro di come fosse successo, il concederle la sua toelettatura. Lei si era offerta e lui non aveva avuto niente da dire a riguardo.

Il fatto che il suo stato mentale fosse tornato ad essere quantomeno coerente con il Clint che entrambi preferivano, metteva la questione su un piano pratico. Spogliare il Clint distrutto dal suo caos, diventava quasi un rituale dalle influenze sacrali.

I capelli lunghi, la barba scomposta, imbarazzante, tutto ciò che aveva fatto da scudo... doveva liberare l’uomo che si era nascosto dietro quella maschera per troppo tempo.

Ogni volta che la lama passava sul suo viso, portava via uno strato di disordine e falsità.

 

Natasha sapeva fare il suo lavoro: che fosse la prima volta o la centesima, le sue mani erano delicate, precise, non aveva dubitato un solo istante della sua competenza, nemmeno mentre la lama scivolava libera dove pulsava la sua giugulare.

Socchiuse gli occhi e si lasciò trascinare da quella tranquillità statica di cui aveva goduto dal momento in cui lei era riuscita a liberarlo dal suo blocco. Una serie concatenata di eventi che lo avevano sciolto da quella gabbia d’angoscia e tormento che l'aveva tenuto prigioniero, senza che si fosse consumata quella tragedia verbale che si aspettava.

 

Natasha non aveva mai avuto bisogno di troppe parole. Sebbene lo avesse supplicato di regalargliene nei suoi momenti più silenziosi.

Continuava a non farlo, a non chiedergli niente. Eppure le era sempre piaciuto ascoltarlo.

Forse avrebbe solo dovuto fare il primo passo per capire che effettivamente Natasha non aspettava altro che il momento in cui avesse davvero preso a parlare di sé.

Finora non c’erano state grosse occasioni di discussione.

Avevano litigato certo, erano arrivati alle mani e poi si erano consolati, uno nelle braccia dell’altra, senza dirsi una sola parola. Senza una sola spiegazione.

Se da un lato gli piaceva pensare che non servissero loro scambi verbali per capirsi, dall’altro non era del tutto convinto che non ci fosse una sorta di riluttanza.

E questa volta non da parte sua. Lui avrebbe parlato eccome, e lei probabilmente si sarebbe limitata ad ascoltarlo come sempre faceva, silente e attenta, pronta ad accogliere il suo sfogo.

Ma cosa pensava lei di quella faccenda? Cosa aveva presumibilmente passato?

Imperscrutabile, se non per l’angoscia che era trasudata in un momento di debolezza e tutta rivolta nei suoi riguardi.

Egoisticamente aveva affrontato il problema solo dal suo punto di vista, per poi rendersi conto che non si era mai chiesto come avesse affrontato lei, tutta quella faccenda. Dall’ascesa di Loki, dal danno temporaneo al suo compagno, dalla dipartita di… Coulson.

La perdita non era stata solo sua. Natasha poteva affrontare la cosa in modo diverso, certo, ma non meno dolorosamente.

Eppure non ne aveva fatto parola. Non aveva dato a vedere ciò che realmente pensava.

 

Improvvisamente si sentì inutile. Tutto concentrato a pensare ai propri problemi, ai personali demoni in libera uscita, senza chiedersi quali fossero quelli altrui. Quelli di una delle poche persone di cui gli importasse veramente qualcosa.

 

La lasciò finire con il rasoio, seguendo i suoi movimenti in silenzio, flessuosi e misurati, finché non gli fu di nuovo di fronte con le sole forbici, pronta a dare una massiccia sfoltita alla sua chioma.

Non era ancora così cieca da non capire che Clint stava formulando qualcosa di elaborato.

“Dovrò chiederti ogni volta che cosa ti ronza per la testa o tornerai a tormentarmi spontaneamente con le tue chiacchiere, prima o poi?” la sua frase più lunga da giorni.

“Era quello che mi chiedevo anche io… nei tuoi riguardi”, fu la sua pronta, quanto poco attesa risposta.

Avvertì il suo sguardo confuso, ma altrettanto rapidamente cancellarlo come si fa con un colpo di spugna su una lavagna.

Gli si portò alle spalle, con la scusa della tosatura imminente, probabilmente solo per impedire che la maschera di freddezza eretta per quel breve istante, crollasse sotto il peso del suo giudizio.

Clint rimase in silenzio, senza sapere esattamente come proseguire quella scomoda conversazione.

Sentì la mano di lei sistemargli i capelli e la prima sforbiciata rompere il silenzio.

Inspirò a fondo, i fumi della doccia a umidificare l’atmosfera tutt’intorno, il vago odore d’agrumi a profumare l’aria. Era tutto così familiare e conciliante che interromperlo per un terzo grado forzato quasi lo frenò.

Poi di nuovo il senso di colpa nei suoi riguardi, avvertì quella spinta d’egoismo, non volontario, premere contro il suo sterno, in un grumo doloroso.

Non era così che voleva sentirsi, non così voleva affrontare la sua rinascita, quella nuova situazione.

“Tasha…” non la sentì fermare le sue mani. Come se avesse azionato il meccanismo di pilota automatico. Un pettine gli riallineò i capelli e un secondo colpo di forbice lo anticipò.

“Non credo di averti ringraziato ancora per quello che… insomma… hai fatto per me”, finì di prenderla più alla larga di quanto avesse preventivato.

“Una rasatura e un taglio di capelli non mi sembra debbano essere affrontati tanto formalmente”, la sua risposta monocorde.

Clint poteva capire, dal solo modo in cui gli sistemava i capelli, che si era appena rilassata, credendo fosse solo un’estemporanea confessione dei suoi confusi sentimenti a riguardo.

“Lo sai che non parlo di questo…”

Lei, come previsto, rimase in silenzio, a continuare il suo compito, senza scalfiture.

“Avevi capito di cosa avevo bisogno, hai affrontato il problema che io per primo non volevo affrontare… lo capisci, vero, quanto questo… significhi per me?”

Di nuovo silenzio e il rumore delle forbici.

“Credevo di averti detto... che parli troppo, Clint”, era forse una nota d'incertezza, d'imbarazzo, quella che ora sentiva nel suo tono?

“Io forse sì, ma tu no”, l'argomento tornava prepotentemente a galla.

Un silenzio ora carico di aspettative. Natasha attendeva il resto. La sua mano incerta.

“Non devi dirmi niente? Non vuoi parlare di quello che è successo?”

La sentì sbuffare una risata e forzare un po' troppo il pettine: “Non ero io quella che non riusciva ad affrontare la cosa.”

“Lo so. Ma credevo che magari ne volessi parlare. Questa cosa ha colpito te, tanto quanto me. Mi chiedevo se...”

“Non c'è niente da dire a riguardo.”

“Credevo...”

“Qualsiasi cosa credessi, credevi male”, lo interruppe bruscamente. “Io sto benissimo.”

“Sul serio?”

La forbice smise di fare il suo dovere.

“Sul serio.”

Le sue parole, taglienti tanto quanto basta a farlo sentire un perfetto idiota.

Lei non aveva bisogno di aiuto. Era pure sempre la Vedova Nera. La donna che nella sua vita ha subito traumi ben più consistenti di una banalissima invasione aliena, la pseudo distruzione della città che l'aveva accolta, la morte di un amico.

“Hai ragione, scusami... per un attimo ho pensato...” che volessi sfogarti “... male.”

La sentì immobile alle sue spalle, come una fiera che aspetta di capire quale sarà la prossima mossa dell'avversario.

Clint restò in silenzio. Non era sicuro di essere in grado di affrontare la sua superbia. Il modo in cui affrontava tutto ciò che probabilmente la metteva a disagio. Relegandolo come un affare da contrastare, con la convinzione che fosse al di sopra di futili emozioni umane. Qualcosa che non le era necessario o che preferiva non dover proprio portare a galla.

Il suo meccanismo di autodifesa.

Perché lui lo sapeva, lo sapeva che Natasha tutto era fuorché un automa privo di coscienza o incapace di provare dolore e turbamento. Gli ultimi anni che aveva condiviso con lei gli avevano permesso di scoprirlo, di sviscerarlo. E quegli ultimi giorni erano stati l'ennesima riprova di quello che lui conosceva.

 

Il fiume di parole, che aveva minacciato di sgorgargli dalle labbra, si era improvvisamente raffreddato.

Se lei non aveva bisogno di alcuno sfogo, perché lui avrebbe dovuto donarle il suo? Poteva imparare da lei a gestire il dolore. Forse era lui ad essere troppo emotivo.

 

Eppure se aveva risolto il problema dei suoi incubi, se era riuscito a farle capire che si sentiva in colpa nei suoi riguardi per qualcosa che però era stato malignamente indotto, non riusciva a liberarsi del mostro più grande, quello che di cui non si sarebbe disfatto facilmente.

Coulson gli mancava e, per quanto avrebbe potuto battersi per soffocarlo, non ci sarebbe mai riuscito veramente. E avrebbe voluto parlarne con lei, chiederle che cosa aveva provato, se era riuscita a vederlo, a dargli un ultimo saluto. Tutte cose di cui non avevano avuto modo di parlare.

Non aveva partecipato ad alcun funerale, se ne era completamente disinteressato, di contro nessuno era venuto a inoltrargli un macabro invito formale.

Natasha non ne aveva fatto menzione. E se lei, per prima, non aveva intenzione di parlarne, perché gravarla di quel peso? Se lei era riuscita ad accantonare il tragico evento, perché lui non poteva farlo?

Forse doveva imparare a erigere lo stesso meccanismo di difesa della Vedova Nera.

Capire che, crogiolarsi nel dolore, sebbene ancora troppo fresco, non avrebbe aiutato. Lo avrebbe solo indebolito, soffocato.

Si doveva andare avanti. A costo di rischiare di sembrare un gelido pezzo di ghiaccio. Superiore a chiunque altro.

“Hai finito?” le domandò allora, la pressione delle sue dita sulla sua nuca era venuta a mancare da un pezzo.

Sospirò qualcosa, quando di nuovo non gli rispose.

Si voltò appena in tempo per scorgere le mani di Natasha tremare.

 

 

***

 

Fu costretta a fare appello a tutto il suo autocontrollo per arginare la rabbia che aveva preso a turbinarle nello stomaco, a gonfiarsi e straripare come un fiume in piena. Rimase immobile, come paralizzata, incapace di far fronte all'incredulità che si stava pericolosamente trasformando in furia. Avrebbe voluto trattenerla, costringerla ad assopirsi – un'operazione che le risultava ormai semplice e congeniale il più delle volte – ma, nonostante tutti i suoi sforzi, le parole premevano alla base della sua gola e non sembravano avere alcuna intenzione di ritornare da dov'erano venute, in quell'oscuro angolo della sua mente in cui la bestia e l'essere razionale combattevano ogni giorno fino allo sfinimento. Si sentiva come se, inavvertitamente, avesse premuto un interruttore, attivato un meccanismo che non avrebbe avuto altra soluzione se non la deflagrazione... per quanto stupida le apparisse.

Strinse le forbici nella presa delle proprie mani, indietreggiò di un passo quando Clint si voltò verso di lei, interrogandola con uno sguardo che le risultò odioso, insopportabile.

Le mani le tremavano, la porcellana della sua pelle come una precaria gabbia sul punto d'andare in mille pezzi e liberare il mostro che vi si nascondeva. Era la seconda volta che si sentiva sull'orlo del baratro, non se ne capacitava.

Aggirò lentamente la sedia, lo fronteggiò. Le dita, stritolate attorno al ferro, le dolevano.

“Ti ho cercato per settimane”, la voce le uscì in un bisbiglio appena udibile, quasi si stesse impedendo di urlare per paura di non riuscire più a smettere. “Mi hai ignorata”, gli ricordò con la stessa, febbricitante freddezza. “E adesso...” allargò le braccia, come ad indicare la situazione in cui si trovavano, “adesso mi vieni a chiedere se ho voglia di parlarne?”

Sbuffò una risata, un accenno gelido che durò solamente per qualche istante.

“Ci conosciamo da anni”, riprese, “credi che funzioni? Chiedermi se ho voglia di parlarne? Hai mai funzionato?” Mai. Mai... mai.

L'occhiata confusa di Clint non fece che farla arrabbiare ancora di più.

“Sei sorpreso?” Insisté. “Mi hai piantata in asso. E' passato il tempo in cui avevo voglia di parlarne – se mai c'è stato! - ed è passato per colpa tua, non mia!” Strozzò la lieve impennata che il suo tono aveva preso sul finale. “Quindi risparmiati il tono saccente. Lo sai come sono fatta, perché te ne sorprendi adesso?”

Le sembrò sul punto di aprire bocca, non gliene concesse il tempo: con un movimento brusco, violento, eppure calcolato, conficcò le forbici nello spicchio di sedia che si intravedeva tra le gambe di Clint. Ondeggiarono, ma rimasero piantate dov'erano, mentre i suoi occhi, verdi di rabbia, cercavano quelli sempre più smarriti dell'uomo.

Fece un ulteriore passo indietro, raddrizzò la schiena, gli voltò le spalle e sembrò sul punto di uscire dal bagno, d'andarsene. Solo pochi passi, però, e tornava a fronteggiarlo, faccia a faccia.

“Smettila di dire che sapevo di cosa avevi bisogno”, aggiunse, velenosamente, con urgenza, ignorando la parte di lei che avrebbe voluto fermarla e farla ragionare, “ti sembro il tipo che scopa con gli uomini per farli sentire meglio?” Il fastidio che quella considerazione le aveva provocato, e che aveva accantonato come stupida perché sapeva nascere da un malinteso nascosto tra le parole di Clint, esplose senza alcun preavviso. “L'unico motivo per cui sono venuta a letto con te è perché volevo farlo!” Precisò, lasciandosi prendere da un'improvvisa smania di giustificarsi e chiarire. “Non c'entra niente col tuo star male, con tutti i tuoi cazzo di problemi, non è mai stato quello il punto! Per chi -” fece una pausa, come incapace di contenere tutta l'irritazione che le stava facendo bruciare lo stomaco. “Avrei potuto averti quando e dove avrei voluto, lo sai questo, vero? L'unico motivo per cui non è successo è perché ti ho risparmiato l'umiliazione”, riprese astiosa. “Credi di essere tanto nobile e galante, ma ti avrei fatto capitolare ad occhi chiusi... prima o poi avresti smesso di resistermi, di accumulare una scusa dopo l'altra, di spiegarti perché era sbagliato.” Riprese fiato, le guance in fiamme. “Probabilmente ti fai persino gran vanto della tua stoica resistenza, ma se ci sei riuscito per così tanto tempo è solo perché io l'ho voluto. E se adesso è successo è perché ne ho avuto abbastanza... e del modo ridicolo in cui consideri certe cose e dell'insopportabile bisogno che sembri avere di proteggermi, quando in realtà sei solo un dannato codardo che non vuole che io sia di qualcun altro, che mi guarda male e mi disapprova tutte le volte che una missione richiede da me certe cose, ma che non ha le palle di farsi avanti, di dirmi che cosa vuole davvero. Lo fa per rispettarmi. Perché rispettare una donna significa trattarla come una deficiente che deve essere protetta da se stessa. Credi che il sesso sia un'offesa, Clint? E' per questo che ti sei sempre trattenuto? Non hai capito un cazzo. Non ti accorgi neppure di quanto risulti meschino e squallido nei confronti delle altre donne che ti sei portato a letto... e io? Io dovrei essertene... grata?”

Alzò gli occhi al soffitto, sollevò le mani come per bloccare quella ridicola conversazione che lei aveva iniziato e che lei soltanto stava alimentando.

“Sai cosa? Non m'importa che cosa intendevi dire. Non ho la più pallida idea di cosa mi ha spinto a portarti quaggiù. Magari neanche avrei dovuto... sono andata alla cieca. Completamente alla cieca, Clint. Perché tu non mi hai dato niente con cui lavorare. Niente! Ti sei comportato come uno stupido principiante, mi hai lasciata da sola e adesso ti offendi anche se non voglio parlartene. E' storia vecchia ormai”, le parole le sgorgarono dalle labbra, amareggiate, rapide, concise. “E' troppo tardi.”

Scosse il capo, distolse lo sguardo, incapace di sostenere quello di lui, inquisitore. Uscì dal bagno e scese rapidamente le scale per il piano inferiore.

Ebbe appena il buon senso di infilarsi gli stivali bordati di pelliccia, di recuperare una sciarpa abbandonata sull'attaccapanni lì accanto, avvolgersela attorno al collo prima di uscire, alla mercé del freddo e delle intemperie.

Ignorò il gelo che la investì insieme al vento. Lo scricchiolio del legno l'accompagnò mentre scendeva i gradini del portico. Scartò il vialetto e optò per la distesa di neve fresca e soffice che la divideva dal bosco, una macchia scura in cui non vedeva l'ora di trovare rifugio.

Strinse le braccia al petto, riparandosi in qualche modo dal freddo che il maglione che indossava non era sufficiente a respingere.

Non aveva una meta precisa: voleva solo smettere di pensare, di impedirsi di tornare allo sfogo con cui aveva appena dato spettacolo, e che già – se anche solo lo sfiorava col pensiero – le appariva immotivato e francamente imbarazzante. Vagò alla cieca, così come aveva fatto e come continuava a fare con il suo partner: c'era un non so che di ironico e paradossale nel dover aiutare Occhio di Falco a vedere. Come faceva, lui, a non accorgersi che era la classica situazione del cieco che guida il cieco? Ma solo uno, tra loro, era rinomato e conosciuto per la sua mira infallibile.

Il freddo le tolse il respiro per un istante. Fu costretta a fermarsi, alberi e neve tutt'intorno a lei.

Mentre restava ferma, ad ostacolare col proprio corpo il soffiare del vento, una consapevolezza si impossessò di lei: che interagire con il mondo era come affrontare quei turbini gelidi, la neve, freddi e inospitali. Le ricordavano la sua terra, quella che aveva abbandonato come il teatro di un dramma cui non avrebbe mai più voluto assistere. Il suo. E Clint... Clint era per lei come il cottage. Caldo, accogliente, ma spesso anche soffocante e scomodo.

Quali che fossero le circostanze, sapeva che era lì che sarebbe sempre tornata.

 

***

 

Arrancò su per le scale, brancolando nel buio insufficientemente mitigato dal biancore della luna che trapelava dagli scuri socchiusi delle finestre del salotto. Teneva le braccia ancora strette al petto, quasi che il freddo le avesse bloccate in quella posizione, intirizzite, congelate. La Regina dei Ghiacci, pensò, rammentando uno dei tanti nomignoli che Clint le aveva affibbiato.

Barcollò nella camera da letto: il gelo non le aveva intorpidito i sensi al punto di non permetterle di accorgersi del ritmo del respiro dell'uomo apparentemente assopito sul letto. Probabilmente con il proposito di aspettarla, chiederle se non fosse per caso impazzita, si doveva essere addormentato. Il suo rientro, però, l'aveva svegliato. Natasha li conosceva a memoria quei respiri: vi sapeva leggere il sonno, il nervosismo, la sofferenza, l'ilarità... un superpotere – visto che va tanto di moda, pensò – di cui, probabilmente, non sarebbe mai riuscita a liberarsi, neanche volendo.

Si appoggiò con una mano allo stipite della porta, inspirò a fondo, non molto lucida, prima di decidersi ad avanzare fino al materasso, su cui si sedette senza dire una parola.

Fiocchi di neve sparsi le si stavano sciogliendo tra i capelli umidi, sul maglione, la sciarpa. Le guance, il viso, arsi dal freddo, sembravano come pulsare al calore del cottage, come se il sangue avesse ripreso a scorrere nelle sue vene solo in quell'istante, facendosi faticosamente strada nel suo corpo ibernato. Regina dei Ghiacci, si ripeté.

Gli dava le spalle, fissando invece lo sguardo sull'unica finestra della stanza. Lo sentì muoversi un poco, forse valutando il da farsi. Doveva aver deciso di non parlare, di aspettare che fosse lei a fare la prima mossa.

Protrasse ancora quella pausa di nonsenso con cui aveva avuto cura di riempire il disagio che li aveva divisi, nonostante tutto, durante quel breve e surreale soggiorno su una montagna sperduta del Canada.

“Rogers...” la voce le uscì bassa e roca, quasi irriconoscibile. “Rogers mi ha chiesto se avevo voglia di parlarne. Più di una volta... finché non deve aver pensato di risultare scortese. Indiscreto.” Una di quelle parole per bene che è abituato ad usare. “E' simpatico, Rogers, lo sai?” Accennò a voltare un po' il capo in direzione di Clint, ma si bloccò a metà strada. Tornò allo spicchio di cielo e alla macchia scura che le fronde degli alberi dipingevano oltre il vetro appannato.

“In un certo senso, anche lui è un disadattato”, sussurrò, mentre l'uomo alle sue spalle si rimetteva seduto. “Eppure, nonostante tutto, credo che sarà lui quello ad ambientarsi prima di tutti noi.” Disadattati come lui, pensò, solo che il problema, per Capitan America, non era il mondo, era il tempo. Per lei, invece, e in una certa misura anche per Clint, l'errore stava nelle cose, c'era sempre stato, quale che fosse il tempo in cui si erano ritrovati a vivere.

“Ho rivisto quel pallone gonfiato di Stark, il dottor Banner”, si strinse impercettibilmente nelle spalle, “tutti mi hanno chiesto di te.” Si aspettavano che sapessi qualcosa. Supponevano chissà che cosa, Clint, e io non sapevo che diavolo rispondere. Perché avevano ragione a supporre: anche io l'avevo fatto. Anche io mi aspettavo di sapere qualcosa. Di te.

Una leggera pressione sulle spalle, il calore delle sue mani, la sciarpa che le scivolava via dal collo bianco e freddo. Lo lasciò fare, come se non avesse le energie per parlare e occuparsi di qualsiasi altra cosa al tempo stesso.

“C'erano tutti”, le parole le uscirono più astiosamente di quanto avesse preventivato, più di quanto si sentisse in grado di fare in quel preciso istante, “ma non c'eri tu.”

Un'accusa.

Sollevò le braccia, come un burattino, disincastrandole dalla loro morsa marmorea attorno al suo petto, permettendogli di toglierle il maglione bagnato, di attirarla maggiormente sul letto. Cadde distesa ad osservare il soffitto su cui si muovevano le ombre proiettate degli alberi, di Clint, il riflesso del vetro, il baluginio della neve che li circondava. Le piaceva, quel posto, le sembrava di trovarsi su un altro pianeta.

“Mi aspetto che Rogers mi chieda se ho voglia di parlarne”, per educazione, più che altro, “ma non tu.” Ricordava di aver provato un sorprendente moto di tenerezza nei confronti del Capitano, che sembrava sinceramente interessato ad aiutarla, ma che non aveva la più pallida idea di come leggerla o maneggiarla. Ma lo stesso, grossolano errore di approccio le aveva procurato una reazione ben diversa quando era stato commesso da Clint: non l'aveva voluto accettare, non gliel'avrebbe lasciata passare.

Lasciò che le rimuovesse gli stivali, i calzini umidi, che le sfilasse i jeans prima di prenderle i piedi tra le mani, nelle sue dita ruvide, e riscaldarglieli. Le tornò in mente di quella volta, in Alaska, in cui, durante la rapida fuga che era seguita ad una missione decisamente tirata per i capelli, era caduto in un lago ghiacciato. L'aveva tirato fuori a fatica, l'aveva portato in salvo, riscaldato come poteva. Si era spogliata e aveva fatto altrettanto con lui, privo di sensi, intrecciando i loro corpi per spartire il calore di cui necessitava disperatamente. Le sarebbe piaciuto se non ci fosse stata la sua vita a rischio. Lui si riprese in infermeria, sull'helicarrier, un paio di giorni dopo. Non ricordava niente. Gli disse che i soccorsi erano arrivati poco dopo la sua caduta e nient'altro.

“Parlare è inutile”, esalò, socchiudendo gli occhi. “Parlare complica le cose”, aggiunse, con un'inflessione quasi da ubriaca. “Quello che faccio è guardarti. E basta. Ascoltarti... quello mi aiuta.”

Clint l'afferrò per la vita, la trascinò sotto le coperte, la strinse a sé, nascondendo il viso nell'incavo del suo collo. La guancia di lui, adesso, era soffice e liscia: la sua pelle infreddolita e ancora irritata dal contatto con la sua barba, ringraziò tacitamente.

“Mi serve a capire... e dopo che ho capito non ho bisogno di nient'altro.” Si voltò automaticamente verso di lui, infilò le mani sotto la maglia che indossava e con quelle cercò il calore del suo petto. Le lasciò là sotto, a riscaldarsi.

“Tra me e il resto del mondo ci sei tu.” Sei come un interprete, suggerì a se stessa. Clint era il filtro tra lei e quello che la circondava. Era stato lui a offrirle la possibilità di liberarsi dalla realtà allucinata in cui erano arrivati a scontrarsi, anni e anni prima, in una piazza affollata di Lisbona. “Quando non ci sei, ci metto di più. Ci riesco lo stesso, ma... ci vuole di più.” Era la verità. Rigettava ogni nozione di co-dipendenza: erano indipendenti. L'unico motivo per cui ricercavano la compagnia (professionale e non solo) l'uno dell'altra era perché la volevano. Non perché ne avevano bisogno. Erano autosufficienti, equi, alla pari.

Sentì i muscoli, i nervi di Clint, tendersi sotto le sue mani.

“Mi dispiace”, pronunciò infine, soffiandole le parole sul viso.

Il suo respiro sapeva di tè agli agrumi, quello che aveva comprato per sbaglio almeno un paio di anni fa, e che aveva lasciato a marcire nel fondo di un armadietto a caso della cucina.

Si strinse maggiormente a lui, ormai in preda al torpore della stanchezza, al familiare tepore del corpo di lui. Il sonno se la stava per portare via, ancora inaspettatamente, come la sera precedente, in circostanze ben diverse.

La voce, poi, non era neppure sicura che le fosse realmente uscita di bocca, o se gli avesse risposto soltanto in sogno.

“Lo so.”

 

____________________________________

 

N.d.A.: grazie ancora ai commentatori abituali e nuovi :D al prossimo (e ultimo) capitolo!

 

 

 

 

  
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