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Autore: Chambertin    18/02/2014    3 recensioni
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«Desmond, per piacere, almeno ascolta quello che abbiamo da dirti!»
«Ho detto no.» il ragazzo stava già per chiudere la porta anche se gli altri due cercavano ancora di parlare.
«Ti capiamo, ma-»
«Ecco, allora se mi capite giratevi e tornatevene da dove siete venuti!»
Il ragazzo inglese prese fuori dalla tasca una chiavetta USB bianca, Desmond aggrottò la fronte non capendo – o non volendo capire – cosa fosse, poi con un movimento di dita, l’altro, fece girare l’oggetto sul quale spiccava un simbolo triangolare interamente nero e il nome di quella società che sarebbe dovuta sparire dalla faccia della terra, per il bene di tutti.

[Questa fic fa parte della serie Assassin's Creed Genderswap © No al PLAGIO]
Genere: Avventura, Sentimentale, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Desmond Miles, Nuovo personaggio, Rebecca Crane, Shaun Hastings
Note: Missing Moments | Avvertimenti: Violenza
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- Questa storia fa parte della serie 'Assassin's Creed: Genderswap'
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Mentore, ti considero.
Solo grazie a te
dal nulla, esce il tutto.

ricordo 0.5 fantasmi del passato.
 
Le dita di Desmond scivolavano delicatamente sul corpo di Elena, seguendone ogni lineamento; partivano dal polso, proseguendo lungo tutto il braccio, fino all’incavo del collo – gli pareva così dannatamente fragile – e mentre saliva ancora poteva sentirle il battito del cuore, più veloce rispetto al solito.
Gli venne da sorridere, posando appena le labbra su quelle di lei, sottili e morbide.
Elena strinse le lenzuola azzurre tra le mani affusolate, mentre Desmond le sussurrava parole affettuose vicino all’orecchio, provocandole fugaci brividi lungo tutto il corpo.
Quelle stesse lenzuola lasciavano trasparire alla luce della luna un fisico tonico e ben curato sovrapposto al suo, che incurvò leggermente per far si che il braccio di Desmond le scivolasse sotto la schiena nuda, che ancora una volta si stupì di come il corpo di Elena potesse essere così fresco, quando il suo si accendeva di più ogni minuto che passava.
Elena gli passò le dita sulle labbra appena socchiuse, mentre lui assaporava quel tocco fino in fondo, suscitandogli sul dorso sensazioni simili al gusto di frutti dal sapore agrodolce, e quando si soffermò delicatamente sul lembo di pelle più chiaro, sulla destra, che gli attraversava le labbra in verticale, lui d’istinto le prese la mano e chinando il capo baciandole il palmo, ad occhi chiusi.
Né l’uno né l’altra desiderava di più, bastava quella dolcezza per rendere tutto così bello. Ancora più bello.

 

 
«Ehi, guarda là!» lei prese sotto braccio il ragazzo, che più che starla ad ascoltare sembrava intento a fare il possibile per leggere la prima pagina del “El Paìs”.
«Va bene che sono poliglotta, ma se continui a tirarmi da una parte all’altra, come faccio a leggere le notizie importanti del mondo spagnolo?»
«Dai, dimmi qualcosa di questa chiesa!»
«Questa chiesa, oh, questa chiesa è solo la Cattedrale di Granada.» fece lui sistemandosi gli occhiali sul naso, rimettendo il giornale nella tracolla di cuoio. «Prima del 1492, Granada era parte integrante del Sultanato, e il suo sultano era il Boabdil – non ti sto a dire il nome intero perché tanto non lo capiresti - ventiduesimo della dinastia dei Nasrí, che però fu anche l’ultimo...»
Per la verità neanche lei lo stava ad ascoltare poi più di tanto; si guardava intorno, le case, i colori, teneva il mento in su e sorrideva come una bambina.
«Oh, guarda! Lì c’è qualcosa che potrebbe interessarti!» e indicò un bar, sulla cui tenda rossa spiccava un “Seite mil café” di un bianco accecante. Lui si fermò e osservò il piccolo locale: all’esterno sotto quella tenda c’erano cinque tavolini, abbinati a due sedie, in ferro battuto anch’essi di colore bianco, le tovaglie erano arancioni e gialle, di un tessuto a trama larga, quasi grezzo, decisamente in contrasto con la finezza di quel piccolo angolo di paradiso.
«Tu sei proprio sicura, eh? Forse ne sei più interessata te, non credi?»
«Beh dai, magari fanno anche del tè!»
«In un bar, che si chiama Settemila caffè, ovvio, fanno il tè»
Il ragazzo prese fuori dalla borsa il portafoglio in cuoio nero della Saint Laurent Paris e controllò quante monetine gli rimanevano; compiaciuto dal risultato entrò nel bar mentre la ragazza si sistemava seduta al tavolino subito a destra dell’entrata.
Il barista era un ragazzo giovane, alto dai capelli corti castani e un sorriso sempre sul volto, con uno strofinaccio puliva un bicchiere e guardava alla televisione la partita Valencia-Granada ridendo di come un calciatore si era lanciato a terra per avere un calcio di rigore.
«¿Cuánto cuesta un café en este bar?» la pronuncia del ragazzo era pressoché perfetta, tale da far credere al barista che fosse proprio spagnolo, ma quando abbassò lo sguardo dallo schermo al cliente che aveva appena parlato si ricredette. Perché? Perché uno vestito così bene poteva essere solo un inglese.
«Cuesta 1,19 euros como en todos los otros bares de Granada, señor. Es la ley.» gli rispose indicando il fast-menu affianco al battitore di cassa, dove erano elencati tutti i tipi di caffè disponibili in quel bar.
Non erano settemila, constatò lui.
«¡Cuál fortuna! Tengo basta dinero por un café solo... ¿Por ventura me puede preparar una taza de té?» Sapeva quali fossero i gusti dell’amica, e sapeva fin troppo bene che il caffè lei lo voleva rigorosamente amaro. Quindi quale prendergli se non un caffè nero corto, servito in una tazzina piccola? E lui? Beh, lui del caffè non ne coglieva l’essenza, ma il tè, oh il tè, quello era il suo tesoro, la sua ragione di vita, e quando il barista gli porse un altro cartoncino plastificato con sopra tutti i tipi di tè – cinque, per l’esattezza – scelse il più comune tè al limone.
«Pero el té costa 1,50 euros, ¿tiene basta dinero también por aquél?» scherzò il barista, dandogli le spalle per usare la macchinetta del caffè.
«¡Es importante que me prepare este benedetto tè!»
Il barista rise di gusto all’affermazione porgendogli il vassoio con sopra la tazzina di caffè, un contenitore di zuccheri dalle fragranze più stravaganti, una ciotolina con diversi stuzzicherie, una tazza grande con solo il filtro dentro, versando infine l’acqua calda in una caraffina coprendola con un piccolo coperchio per evitare che i vapori uscissero e la facessero raffreddare troppo in fretta. «¡Aquí, hasta luego!» il barista lo salutò, e lui fece altrettanto.
Quando uscì col vassoio in mano, la ragazza stava scrivendo velocemente sulla tastiera qwerty del suo BlackBarry chissà che cosa; ormai quel cellulare era diventato vecchio per molte persone, ma per lei no, era un telefono molto più maneggevole, i tasti erano tutti lì e anche se piccoli riuscivano a soddisfarla molto di più.
«Saresti perfetto come cameriere, sai?» lo prese in giro mentre si sporgeva dal suo posto per rubargli una nocciolina.
«Non sei simpatica»
«Oh, andiamo, sto imparando dal migliore!» gli rispose lei ammiccando, mentre cominciava a dondolarsi sulle gambe posteriori della sedia.
Nonostante fosse metà Novembre, la giornata era calda e quanto meno accettabile, infatti il ragazzo si tolse la sua giacca blu nuova e scoprì una camicia azzurra a maniche lunghe azzurra – che in realtà, aveva notato la ragazza, con il colore dei suoi capelli stonava in maniera esponenziale, ma non gliel’aveva mai detto, anche perché l’importante è “saperli portare i vestiti” e lui, oh, se lo sapeva fare.
«Il tè costa più del caffè qua» osservò lui, sorseggiando dalla tazza in maniera molto professionale, atteggiamento che fece sorridere l’altra, perché le ricordava momenti felici passati quando ancora erano tutti insieme, quando ancora potevano veramente definirsi squadra.
«Mi chiedo perché dobbiamo sconvolgergli la vita, ancora una volta» cominciò lei guardando il fondo della sua tazzina di caffè. C’era chi sapeva interpretarli, quei fondi, ma non ci aveva mai creduto fino in fondo; anni prima – molti anni prima – ci aveva provato, ma oltre a spillarle un fottio di soldi, quella signora le aveva detto che si sarebbe sposata, avrebbe avuto due bellissimi bambini e si sarebbe accomodata in una casa dove avrebbe vissuto di rendita per il resto della sua vita. Invece?
Lui rimase in silenzio, preferendo continuare a leggere il giornale.
Quando parlò, la sua voce era pacata, quasi distaccata, e non alzò gli occhi dalla pagina della borsa estera «non abbiamo altra scelta» aveva detto.
«Sì, ma sono passati cinque anni! Si è rifatto una vita, è felice ora! Cosa ti fa credere che ci ascolterà?» lei alzò la voce, togliendogli il giornale da sotto il naso e finalmente lui la guardò, si tolse gli occhiali e cominciò a pulire le lenti col tovagliolo di stoffa. Quello era il segnale che stava per attaccare con la sua predica intellettuale.
«Non abbiamo altra scelta» ripeté, prendendo dalla borsa in cuoio un I-Pad e un taccuino grigio «anche io non vorrei arrivare a tanto, ne ha passate tante, troppe, per i miei gusti»
lei sapeva che ci era affezionato, perché in fondo specialmente nell’ultimo periodo avevano legato parecchio, prima che tutto si rompesse.
«Ma abbiamo questa» continuò lui, accedendo alle sue mail per visualizzarne una in particolare: niente di che, una semplice mail di spam; poi aprì il taccuino e andò alla pagina segnata da un segnalibro colorato: era piena di segni a matita, parole cancellate, lettere, numeri, simboli, e ce n’erano un paio cerchiati in rosso e sottolineati un infinità di volte.
«Subject  »
Il simbolo che aveva cambiato la vita di tutti loro; ma in realtà cos’era? “Il logo di una casa farmaceutica importante” avrebbero risposto in tanti; ma, no, loro sapevano cos’era e cosa significava davvero, e di certo non era solo una casa farmaceutica.
«Però non sappiamo se si riferisce proprio a Desmond» esclamò la ragazza puntando il dito sulla parola cerchiata.
«È vero, infatti credo si riferisca a se stesso» col dito fece scivolare verso il basso la mail, alla fine, e girò pagina sul taccuino «qui in questo punto, cita l’Animus, e una città italiana – che ancora non ho identificato – ma che sono sicuro non sia né Firenze, né Roma, né altre città che abbiamo avuto occasione di conoscere in passato»
«Di conseguenza non si riferisce ad Ezio»
«Esatto»
«Allora di chi parla?»
«Questo non lo so ancora, e credo non lo dica neanche in verità» lui scosse la testa, sconsolato, poggiandosi allo schienale della sedia, a braccia conserte
«Ma se l’ha mandata proprio a noi ci sarà un motivo, o no?» chiese la ragazza, avvicinandosi il taccuino.
«Sicuro» fece lui puntando una parola scritta in rosso «ci sta chiedendo AIUTO»
 
 
Quando Elena aprì gli occhi, Desmond già non c’era. Era strano, ma quella notte proprio non l’aveva sentito né alzarsi, né uscire di casa, ed era strano perché ogni volta dopo il bacio sulla tempia che le dava, lei fingeva di continuare a dormire per poi alzarsi e guardarlo dalla finestra chiudersi il cancello alle spalle per poi sparire dalla sua visuale.
Rimase prona sul letto, con le braccia sotto il cuscino e la testa voltata verso destra, dalla parte di Desmond, dove adesso russava Fatkin muovendo le sue piccole orecchie ad ogni minimo rumore.
Si sedette a bordo del letto, e si infilò ai piedi scalzi un paio di calzetti per poi alzarsi e scendere in cucina. L’orologio a muro segnava le dieci e venti; l’aveva montato suo padre, che poi montato forse non era proprio la parola più adatta, perché il meccanismo era inglobato nel cartongesso e le lancette sembravano muoversi per magia puntando sui numeri dipinti direttamente sul muro con una grafia elegante e minuziosa, e ad Elena piaceva così tanto perché le ricordava i bei momenti passati con lui, di quando credeva che con un bastoncino regalatele a Natale potesse far spostare quelle lancette nel nulla. Sorrise mentre prendeva dalla lavastoviglie una tazza e la riempiva con dell’acqua calda e una bustina per una tisana alla rosa canina rigorosamente addolcita con due cucchiaini di miele.
Ogni tanto lanciava un’occhiata al cellulare sul bancone chiaro della cucina sperando di sentirlo suonare, sperando che le arrivasse un messaggino da parte di Desmond in cui le diceva semplicemente “ho finito, dieci minuti e sono a casa”; quello solitamente era il momento di andare in bagno, aprire il rubinetto della vasca da bagno, metterci dentro i sali minerali e aspettare, solo aspettare che Desmond arrivasse a casa.
Quando suonò il campanello, quasi non le andò il sorso di traverso, alzandosi in fretta; tossì un paio di volte e si avvicinò alla porta e l’aprì, non guardò neanche nello spioncino perchè convinta che fosse il suo compagno, ma fuori c’erano un ragazzo e una ragazza, completi sconosciuti. Lui alto, robusto, dai capelli corti e rossi; lei più minuta, magra e dai capelli neri, lunghi e sottili.
«Si?» fece Elena alla loro vista, decisamente sorpresa.
«Oh, salve!» esclamò la ragazza, alzando la mano destra per salutarla.
«Scusate, cercate qualcuno?» chiese ancora Elena, aggrottando le sopracciglia. Le parevano strani quei due individui, arrivare di Domenica mattina con un sorriso – fintissimo, si vedeva – che andava da orecchio a orecchio, potevano essere solo una cosa «Noi non pratichiamo, mi dispiace»
«Aspetta, cosa? No, no! Non siamo portatori delle voci di chissà quale dio!» rispose il ragazzo sulla difensiva, togliendosi gli occhiali per pulirli sul lembo della camicia azzurra che spuntava da sotto alla giacca blu scuro; aveva uno spiccato accento inglese, notò Elena, ancora più confusa.
«In realtà, staremmo cercando una persona, e crediamo abiti qui. Miles. Desmond Miles.» disse la ragazza, diventando seria. Il sorriso era sparito in meno di un secondo, e questo spaventò Elena che si affrettò a rispondere «No, avete sbagliato casa, qui abita un Desmond, ma non fa Miles di cognome…» per poi cercare di chiudere la porta di casa.
Ma chi erano quelle persone? E perché stavano cercando Desmond – ammettendo che stessero cercando proprio lui, il suo Desmond.
«Oh, certo, come ho fatto a dimenticarmene!» esordì sempre la ragazza, portandosi una mano sulla fronte «Noi lo conosciamo col cognome del padre, mentre lui adesso ha preso quello della madre…!»
«…Chiabrera!» finì il ragazzo, ma Elena si rese conto che l’aveva appena letto sul campanello affianco alla porta.
«Se volete scusarmi, io avrei da fare molte cose, mi piacerebbe conversare con voi, ma…»
«No, aspetta, noi conosciamo Desmond, sul serio! Eravamo…»
«…Compagni di università!»
«Si, esatto, l’università!»
«Facoltà di lingue, per la precisione!»
Elena sgranò gli occhi per la velocità con cui quei due ragazzi terminavano le frasi l’una dell’altra, e questo la inquietava ancora di più.
In tre anni che stavano insieme, Desmond non le aveva mai accennato ad un università, le aveva sempre detto – molto sinceramente – che aveva lavorato in vari pub, bar, discoteche come barman, quello che faceva anche adesso al T-Yub sostanzialmente.
«Ha lasciato subito, comunque!» si affrettò a dire la ragazza.
«In ogni caso, Desmond, non è in casa… gli dirò che siete passati, ok?» Per la seconda volta Elena fece per chiudere la porta, ma il ragazzo la fermò con la mano.
«No, dobbiamo vederlo, è importante.»
Cercò di spingere la porta ma la resistenza dall’altra era troppo forte. Che era robusto l’aveva visto, ma non immaginava minimamente che potesse avere tutta quella forza – anche se, diciamocelo, in confronto ad Elena anche un cagnolino di piccola taglia avrebbe potuto avere più forza. Le stava prendendo il panico, e si chiese ancora una volta chi fossero quelle persone, sentiva gli occhi inumidirsi, e diventare sempre più accaldata, voleva solo chiudere quella maledetta porta, inserire la sicura, chiudere le tende e allontanarsi da qualunque punto di accesso alla casa; sentiva il cuore in gola, la paura farsi sempre più concreta sul suo corpo: tremori alle mani, formicolii che la privavano di tutta l’energia che aveva nelle gambe, vista annebbiata.
«Abbiamo fatto molta strada, America-Spagna non è proprio una passeggiata, e non saremmo arrivati fin qui se non fosse stato veramente importante…»
«Si, immagino. Riferirò.» Rispose lapidaria e si stupì di come quelle parole le uscirono con un tono di voce così pacato, così freddo, non credeva di riuscire a gestire così le sue emozioni, o forse era stata sola fortuna? Molto probabilmente, anzi sicuramente era così, pensò lei. Alzò gli occhi e finalmente la porta si chiuse senza opposizioni da parte di nessuno.

«Non è andata particolarmente bene…»
«È tutta colpa tua, Shaun.»

  ~~

No, ma serio? E' da Maggio che non aggiorno? D: Beh ragazzi che dire allora a questo punto? Sono tornata proprio nel periodo di San Valentino uno dei giorni più inutili di tutto l'anno - insieme all'onomastico - però sotto un certo aspetto possiamo dire che questo capitolo sia il vostro regalo, perchè anche se pochi avete messo la storia fra le ricordate o le seguite o adirittura fra le preferite - tasto che oramai solo in pochi usano - e anche a quelle buone anime della Medea e della Colle, che da facebook sono venute qui a commentare, grazie infinite <3
Passando al capitolo: come avevo già preannunciato questa sequenza genetica non sarà lunga essendo quella introduttiva diciamo, quindi siamo più o meno a metà, e avendo già detto che Demond ha cambiato cognome, in questo capitolo ho voluto concentrare l'evento fondamentale della storia.
So che la lettura risulta un po' pesante con tutti questi "la ragazza", "il ragazzo", "lui", "lei", ma il mio obiettivo era di rivelare almeno uno dei nomi solo alla fine del capitolo - come effettivamente ho fatto - per cercare di creare suspence.
Sfatiamo subito il mito della Shaun/Rebecca perchè nel mio mondo immaginario sono come Harry e Hermione, troppo amici per essere innamorati, ok LOL.
Ah, e... un'altra cosa veramente importante: non ricordo se Shaun è per il tè o per il caffè. Ho cercato in giro, ho chiesto in giro, e alcuni mi dicono per il tè altri per il caffè; guardo delle illustrazioni e alcuni gli fanno la tazza di tè in mano, ed altri quella di caffè. Ottimo, davvero... quindi io ho optato per il tè - essendo anche inglese, insomma - ma nel caso non ci avessi minimamente azzeccato, comptatitemi e pensate che questa è una What if ahah
Ultima cosa: non ho mai studiato lo spagnolo. Ho usato un vocabolario e google translate spagnolo-italiano per tradurre quello che scrivevo e vedere se veniva fuori una frase di senso compiuto, e più o meno ci sono riuscita LOL se ci dovessero essere errori, fatemelo sapereche provvederò a correggere :)

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