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Autore: Marra Superwholocked    18/02/2014    2 recensioni
"Io ero letteralmente spiaccicata al muro, con gli occhi serrati e la bocca che lo imploravano di mettere giù quel coso dalla luce verde.
Poi quell'aggeggio finì di far rumore e potei finalmente riaprire gli occhi.
E fu lì che conobbi il Dottore."
Genere: Avventura, Fantasy | Stato: completa
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Companion - Altro, Doctor - 10, Nuovo personaggio, TARDIS
Note: Missing Moments | Avvertimenti: nessuno
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NOTA DELLE AUTRICI
Come promesso, io e CassandraBlackZone abbiamo scritto lo speciale! Per quanto riguarda la mia ff, è il capitolo di chiusura, per la sua, invece, no. Parto col dire che Emily Creek è una nuova companion dell'Undicesimo Dottore, incontrata in corcostanze particolari.. Per qualsiasi chiarimento, leggete "The girl who keeps running" di Cassandra!!
Ecco a voi la prima parte di "Gli addii non esistono, per noi". Buona lettura,
xoxo
T.G.


Forse penserete che io sia stata molto stupida a scegliere come ultimo viaggio proprio un parco della mia stessa città. La verità è che non ci fu un vero motivo logico nel chiedergli di seguirmi fin lì. Lasciammo il Tardis nel vicolo in cui lo vidi per la prima volta e alle prime ore dell'alba iniziammo a percorrere le vie deserte di Milano rispettando, in silenzio, l'armonia dei canti degli uccelli.
“Cosa ti piace, per colazione?” gli chiesi, quando fummo sotto un portico pieno di negozi con le serrande a metà.
“Cosa mangiate a colazione, voi milanesi?”
Lo portai dunque davanti all'entrata di un bar in stile francese, dai tavolini circolari con sedie dallo schienale in ferro battuto decorato con grazia. Ho sempre amato quel posto. Mi sedevo fuori, in primavera, e facevo colazione in compagnia di un buon libro. Aspettavo l'orario di apertura del negozio in cui lavoravo e poi me ne andavo col sorriso.
Il Dottore mi guardò e dai suoi occhi percepii meraviglia e stupore per la bellezza di quel bar.
“Sei mai stata a Parigi?” mi chiese tornando a guardare l'interno del negozio, da cui provenivano le dolci note di La Vie En Rose.
“No, sono stata solo a Londra” risposi. Un terribile nodo in gola. Mi perdonerà?, pensai.
“Ah, Londra! Una città così ricca di mistero! Lì capita di tutto, credimi. E Parigi...” Lasciò la frase in sospeso, come se quella città gli ricordasse qualcosa o qualcuno che gli provocasse dolore. Sbatté velocemente le palpebre per scacciare le lacrime. Si era fatto cupo, in volto.
Nel tentativo di allontanarlo dai – possibili – brutti ricordi, lo portai all'interno del bar; lo feci accomodare ad un tavolino e lo controllai con la coda dell'occhio mentre mi dirigevo verso il bancone scintillante e quasi fatato per il marmo che sembrava appena levigato e il legno di ciliegio intagliato con motivi floreali. Se ne stava tranquillamente seduto a fissare il vuoto come se fosse stato drogato; tornai da lui con una tazza di caffè pesantemente zuccherato e due croissant integrali ripiene di miele. Gli misi tutto davanti agli occhi e lo fissai mordendo la mia brioche. Era ancora immerso nei suoi pensieri, ma non appena le sue narici incontrarono le scie di vapore profumato si rianimò. “Dove mi vuoi portare dopo?” mi chiese con una briciola di croissant su una fossetta. Quell'immagine mi fece arrossire – mi hanno sempre attratta gli uomini con le fossette – ma frenai gli impulsi e gli dissi che era una sorpresa, sebbene non fosse nulla di speciale.
Finimmo di fare colazione, uscimmo con calma dal bar e in un batter d'occhio fu ora di pranzo: ci fermammo ad un mercato per comprare due semplici panini al prosciutto che divorammo lungo il percorso per il Parco Sempione.


Uno sguardo veloce e via, senza nemmeno chiedersi da dove fosse mai saltata fuori una cabina telefonica della polizia. Nessuno al parco Sempione sembrò stupirsi, tranne magari qualche bambino attirato dal profondo blu e dalla curiosa scritta in inglese, o cani intenzionati a fare qualcosa di poco decoroso, come un pastore tedesco, che subito guaì e si allontanò dalla porta correndo appena ne uscì una ragazza con in mano un trofeo violaceo informe.
Prima di toccare terra, Emily lo ammirò soddisfatta con gli occhi che le brillavano e lasciò che l’aria invernale le colpisse leggermente le guance.
“Chi l’avrebbe mai detto! Ho vinto! Ho vinto sul serio! La mia prima partita a Ontìpyo!”
“Non è Ontìpyo!” urlò il Dottore dal ripostiglio “È Ontipyò
“Oh, scusami, Hermione. Bruci di invidia, vero?”
“Non direi.”
Il Signore del Tempo uscì dal TARDIS con un paio di giacche, uno lungo e verde per lui e uno più sportivo e rosso per Emily.
“È meglio se lo lasci nel TARDIS. Oltre ad essere un trofeo è anche un’antenna. Potrebbe causare interferenze qua intorno”
“Ok.”
La ragazza si avvicinò alla macchina del tempo e lasciò il trofeo all’entrata. Quando ritornò fuori vide il Dottore agitare il suo cacciavite sonico con la sua solita posa alla Superman.
Sforzandosi di non ridere, Emily lo ignorò e si limitò a chiedere: “Trovato qualcosa di nuovo?”
“No” disse lui controllando il cacciavite “ma non si sa mai. Dopo i Kujacara, Milano potrebbe diventare un nido per qualunque altra specie. Anche se…”
Con gli occhi assottigliati per la luce accecante del cielo bianco, il Dottore vagò con lo sguardo tra le persone e la natura circostante contaminata dalle strade. Non sapeva bene dire come e perché, ma qualcosa nell’aria oltre al forte odore di umidità solleticò non poco il naso dell’alieno.
“Anche se che cosa?”
“Non so… forse è un'impressione. Ho come un déjà-vu…”
“Ah beh. Per te dovrebbe essere normale, vista la vita che fai.”
“Sì, in effetti non hai tutti i torti.”
“Comunque, perché siamo tornati qui a Milano? Mi avevi promesso che saremmo andati su un altro pianeta, no?” disse Emily un po’ delusa.
“Beh, vista l’improvvisa partenza di Cristian in America e il prolungamento del lavoro di tuo padre, ho pensato che abbiamo tutto il tempo per girarci tutto l’Universo – cosa un po’ improbabile-. Un passo alla volta, ti devi un po’ abituare all’idea.”
Emily pensò alle parole del Dottore e subito le venne in mente un particolare che aveva tralasciato. Qualcosa di davvero importante che l’allarmò parecchio.
“Aspetta! Avrai pure parlato con Cristian e mio padre, ma che ne sarà della scuola?”
“Ah! Pensavi che me ne fossi dimenticato?”
Tutto eccitato il Gallifreyano tirò fuori dalla giacca un foglio ripiegato in quattro e lo mostrò ad Emily sorridente.
“Ecco qui nero su bianco una bella giustificazione del tuo viaggio d’istruzione a Londra per un totale di tre mesi! Eh? Sono stato bravo?”
La ragazza glielo tolse dalle mani e lo lesse tutto ad un fiato spalancando gli occhi alla firma in fondo alla pagina. Quella A era inconfondibile, non aveva dubbi di chi fosse.
“Mrs. Alba? È stata lei a firmarla?”
“Esatto! Lei in persona! Sono andato da lei ieri.”
“E quando saresti andato da lei se noi er-… Ah!! Ecco dov’eri finito al buffet! Credevo fossi andato a cercare i tuoi vestiti!”
Il Dottore arrossì violentemente dall’imbarazzo.
“C-certo che sono andato a cercare i miei vestiti! La penitenza era finita e sono tornato nel TARDIS per prenderne degli altri!”
Emily scoppiò a ridere pensando per un solo istante a lui che correva con le braccia al petto, nella foresta, senza nessun vestito addosso.
Il Dottore la squadrò severo per niente divertito. “Non c’è proprio da ridere, sai?”
“Scusa, scusa, è che… eri così ridicolo mentre correvi!”
“Non sono stato di certo io a scegliere una penitenza che mettesse a nudo il pudore. O sbaglio?”
“E dai, ti ho già chiesto scusa!”
“Umani… Senti, vuoi qualcosa da mangiare prima di andare? Tu fatti un giro qua attorno. Brioche?”
“Al cioccolato, grazie” rispose la ragazza già con l’acquolina in bocca.
“Perfetto. Brioche integrale al miele in arrivo.”
“Cioccolato! Non al miele.”
“Ho detto miele? Volevo dire cioccolato, scusa! Bene, vado e torno.”
Con un sopracciglio inarcato, Emily salutò l’eccentrico alieno e si diresse verso l’arena Civica.
Risposto al saluto, il Dottore prese a camminare nella direzione opposta alla ragazza scuro in volto e grattandosi la nuca.
“Accidenti… Ci è mancato poco, ma ancora questa sensazione non se ne va.”
Come poteva essere possibile, pensò. O meglio, era possibile, ma come? Due erano passabili, ma come poteva percepirne tre?
Quello era un mistero degno di Sherlock Holmes o Agatha Christie – Oh Agatha, se solo fossi qui -.
Il Signore del Tempo per un istante si fermò sotto un albero e scrutò da lontano il bar. Un vago ricordo gli passò nella mente, fino a quando quel déjà-vu non divenne un effettivo ricordo. Ora gli era tutto più chiaro: era quel giorno. Il giorno in cui avrebbe dovuto dirle addio.


I cancelli del parco erano spalancati come due braccia aperte, pronti ad accoglierci. Il chiosco-bar affianco all'entrata lavorava senza sosta con l'aiuto di Sofia, la figlia dei proprietari, che raccoglieva gli ordini dei clienti. Tutto sembrava essere uguale a quella piazza londinese, tutto mi ricordava la mia ex coinquilina, e fra poco avrei dovuto parlarne al Dottore. Mi ero ripromessa più volte di non piangere, ma mi fu sempre impossibile. Lui notò la mia insicurezza nell'attraversare l'entrata del parco; mi prese per mano e a quel punto dovetti allentare la sciarpa che già di per sé era pesante. Continuammo a camminare così fino all'entrata opposta, contemplando gli alberi totalmente spogli e i sentieri quasi del tutto deserti se non per chi faceva jogging o portava a spasso il cane.
Arrivammo al bar e lui si voltò verso di me.
“Elly, questo parco è così spoglio!” esordì mollando la mia mano per poi guardarsi attorno.
“Dottore, è.. È novembre.. Ed è normale.”
“Ma è così.. Triste” replicò lui.
“Ti prego, ti supplico, ti scongiuro: non fare nulla di azzardato. Qui non c'è nessun pericolo!”
Lui tirò fuori il suo cacciavite sonico e lo puntò in giro, guardandolo di tanto in tanto. “Sì, hai ragione” concluse. Ma poi il suo voltò cambiò espressione; sembrava molto preoccupato. “Quanto distiamo da casa tua e di Earl?” mi chiese con la fronte aggrottata.
“Mhm, circa due chilometri, credo.”
“Ma è impossibile! E anche nello stesso momento! Voglio dire.. Potremmo creare un paradosso di quelli coi fiocchi!”
“Mhm?!” Aiuto. Un'altra crisi da Signore del Tempo.
“No, no, no! È semplicemente..”
“Ma cosa?!” Mi sentii come la notte in cui lo conobbi per la prima volta: confusa come un gatto che segue con affanno una luce sulla parete.
Lui continuava a fare avanti e indietro facendomi girare la testa. Scattai verso di lui e lo afferrai per le spalle. “Senti, bello. O ti calmi e mi spieghi che diavolo sta succedendo, o ti dico subito quel che ho da dirti e me ne vado.”
Quel discorso sembrò calmarlo.
Stava cominciando a parlare quando una ragazzina bionda spuntò dal nulla, ci venne addosso con la sua bici e cadde ai piedi del Dottore. Aveva una mantellina rosso brillante col cappuccio tirato sul capo. Il paradosso era già in atto? Dov'era il lupo cattivo?, ero tentata di chiedergli per scherzare e prenderlo in giro.
“Oh, mi scusi! Che sbadata, scusatemi!” Tirò su la bici e, dopo un ultimo sguardo lanciato sul Dottore, se la svignò a testa bassa, diretta nella direzione opposta alla precedente.
Il Dottore si lisciò bene il cappotto e la cravatta blu metallico con decorazioni dorate. “Che strana ragazza.. Comunque!” riprese sorridendo, come se non fosse successo nulla. “Non siamo soli. Nel senso che due Tardis nello stesso momento è anche possibile, ma addirittura TRE...è praticamente... Non è... Insomma...”
“Perché due sono possibili ma tre no?” chiesi, senza sperare di capirci qualcosa. “In fondo sono tuoi simili, no?”
“Non credo, Elly. No. Io..li ho uccisi tutti.”
In quel momento anche un sordo avrebbe potuto sentire uno spillo cadere a terra.
“C-cosa?” gli chiesi con un filo di voce.
“Hai capito bene” tagliò corto lui guardando a terra.
“Ma perché? Cos'è successo?” Cercai di essere il più delicata possibile, nonostante lo scomodo momento. Ma ormai c'ero dentro.
“Ricordi i Dalek?”
“La causa della scomparsa del nostro secondo satellite?”
“Brava, loro. Stavano distruggendo il mio pianeta e sapevo che l'unico modo per non farli più soffrire era...era...”
“Capito.” Lo fermai senza pensarci due volte: non mi piaceva vederlo in quello stato. Anche in quella casa di Burbank non potei fare a meno di notare l'angoscia nei suoi occhi sempre sorridenti. “Vuoi qualcosa da bere?” dissi per distrarlo.
“No, grazie. Vorrei stare un po' da solo, se non ti dispiace” replicò lui.
“Capisco. Ci vediamo tra un po' lì, al bar?”
“..Certo.” Si voltò e cominciò a camminare lentamente con le mani nelle tasche dei pantaloni, senza sapere che al bancone del bar lì vicino vi era un tizio con losche intenzioni.


Emily inspirò profondamente l’aria circostante e chiuse gli occhi, lasciando che fossero i suoi sensi a guidarla. Percepì l’odore e la consistenza molliccia della terra bagnata sotto i suoi piedi, il dolce suono delle risate gioviali di bambini che la rilassarono fino a farla sorridere. Gli abbai dei cani un po’ meno, ma ciò non la distrasse dal suo momento di relax, fino a quando non sentì una fitta di dolore alla pancia.
Il suo stomaco cominciò a gorgogliare rumorosamente.
Non vedeva proprio l’ora di mangiare la sua brioche al cioccolato e sperava che il Dottore si sbrigasse. Sapeva bene che avrebbe potuto mangiare al buffet su Marxiya e provare le specialità locali, ma una come lei, che già s’impressionava con il semplice pesce crudo del sushi, non sarebbe mai riuscita a mangiare un piatto con chissà quale creatura ancora viva al suo interno. No, il suo stomaco non avrebbe decisamente retto.
Con le mani affondate nelle tasche della giacca, Emily cercò di ignorare quel fastidioso borbottio camminando lungo il perimetro dell’Arena Civica. Forse lo scricchiolio dei sassi l’avrebbe anche aiutata a non attirare l’attenzione su di sé.
Parco Sempione era uno dei parchi di Milano che le piaceva di più, non solo perché era il secondo parco costruito nella città, ma anche per ogni pezzo di storia che racchiudeva al suo interno. A lei piaceva molto la storia, e lo doveva solo ai suoi genitori: entrambi archeologi, una più adatta alle spedizioni estere e l’altro ai lavori in laboratorio, ma ciò non voleva dire che non potessero fare uno il lavoro dell’altro. In un certo senso si completavano a vicenda senza problemi, o almeno era così prima che sua madre morisse.
Dalla tasca dei pantaloni Emily tirò fuori il suo portafogli blu regalatogli da suo padre per il suo compleanno e sfilò la prima foto che c’era, se non l’unica, e sorrise.
Ritraeva lei, suo padre e sua madre ai suoi fianchi, tutti e tre che sorridevano per la splendida giornata passata a Londra. Con un dito passò prima sul volto del padre, soffermandosi poi più a lungo su quello di sua madre. Erano due gocce d’acqua, tutti lo dicevano, si assomigliavano così tanto che la maggior parte le scambiavano per sorelle più che per madre e figlia: stessi capelli castani, stessi occhi verdi e stessi lineamenti del viso.
A malincuore, Emily rimise a posto la foto e cacciò indietro le lacrime. Era sul punto di ricominciare a camminare quando qualcosa la bloccò. O meglio, qualcuno.
A circa cento metri da lei c’era l’ultima persona che avrebbe voluto incontrare: non lì.
“Oh, cavoli… no” Non qui. Non ora.
Era quella testa-a-caschetto di Jeremy, assieme alle sue bertucce dei suoi compagni.
Per lo meno non la stava guardando, visto che era troppo occupato a parlare di videogiochi e altre stupidaggini per accorgersi di lei, ma questo non l’avrebbe impedita di scappare.
Senza farsi troppo notare, Emily camminò veloce verso la direzione opposta di Jeremy e, girata una curva dell’arena, fece uno scatto lungo una ventina di metri. Giusto per esserne sicura, si girò per vedere che non la stesse seguendo, e accadde l’inevitabile.
“Ah!”
All’improvviso Emily si sentì cadere all’indietro dopo aver sbattuto contro qualcuno.
“Ehi!”
Una mano subito la prese per un braccio, una mano che lei aveva già sentito recentemente sulla sua pelle.
“Dot-…”
Era davvero sul punto di chiamarlo per nome, quando incrociò lo sguardo di due enormi occhi color nocciola, e la sua fronte sfiorò un ciuffo castano ingellato.
No, decisamente non era chi si aspettava.


NOTA DELLE AUTRICI
A presto, la seconda parte dello speciale. Speranzosa di avervi divertiti, alla prossima ;)

   
 
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