Anime & Manga > Kenshin
Segui la storia  |       
Autore: Melitot Proud Eye    19/06/2008    1 recensioni
«Allora, perché mi hai chiamato così? “Kenji” è “la via della spada”, hai dimenticato? Perché?»
Non è mai facile trovare il giusto mezzo. E bisogna fare attenzione a non perdere qualcosa d'importante nel tentativo.
[8-11-2011: inizio edit della storia - primo capitolo]
Genere: Azione, Drammatico, Introspettivo | Stato: completa
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
 <<    >>
Per recensire esegui il login o registrati.
Dimensione del testo A A A
Nota dell'autrice: ellallà, un'altro aggiornamento O_o ho deciso di velocizzare un po' le cose, approfittando dello scandaloso numero di ore libere di cui dispongo...
Enjoy.

---------------------------------------------------



Capitolo V
Le scintille della bufera



"Fuku wa uchi, Oni wa soto."
La fortuna dentro casa, la cattiva sorte fuori.

Proverbio giapponese




Era in trappola.
Nessuna via di scampo.
Un futuro senza prospettive chiuso entro le mura screpolate del dojo.
Kenji prese una nuova patata e cominciò a pelarla, seduto nell’angolo più anonimo del giardino.
Se l’avessero sbattuto in carcere, forse sarebbe stato meglio. Almeno non avrebbe sentito gli occhi di suo padre (o di sua madre) costantemente puntati sulla schiena, pronti a trovare qualcosa di sospetto nel suo atteggiamento.
Buttò la patata nella pentola e considerò il coltello. Arrivati a quel punto, si stupiva un po’ che glielo lasciassero usare. Pensate se gli fosse preso un raptus omicida!
Scosse la testa e si appoggiò al tronco, guardando con nostalgia il cielo oltre il muro.
Non era giusto.
Shinya e Sozou erano più piccoli di lui, eppure erano di nuovo in giro, perdonati e coccolati.
I suoi pensieri furono ingoiati da un abituale, iroso turbinio.

Kaoru lasciò che la punta della sua bokken toccasse il pavimento e si terse la fronte, il respiro pesante.
«Sì, ci siamo quasi. Ancora qualche lezione e potrete tutti passare al livello superiore. Andate pure ora, ci vediamo domani alla stessa ora.»
«Sì maestra.»
Gli oltre venti allievi s’inchinarono educatamente, rimasero per il tempo di posare le bokken e se ne andarono a gruppi, allegri e affamati. Mentre i quattro di turno pulivano la palestra, Kaoru buttò fuori un sospiro di sollievo.
Era abbastanza contenta: i ragazzi erano bravi, la lezione era andata bene. Anche senza aiuto… oggi Yahiko aveva impegni e a Kenji era tuttora vietato toccare strumenti da kendo.
Scrutò il giardino alla sua ricerca e lo trovò sotto il ciliegio spoglio, ancora a pelar patate. Guardava fuori.
Le si strinse il cuore.
Per quanto preoccupata al pensiero di vederlo praticare l’Hiten Mitsurugi, stava cominciando a convincersi che quello non fosse il metodo giusto per fargli cambiare idea. Come punizione, certo dopo due settimane il messaggio avrebbe dovuto passare. Adesso non potevano tornare a discuterne?
Che cosa aveva ben visto Kenshin per ridursi ― lui che non aveva mai punito se non a parole ― a segregare suo figlio in casa? Con lei era stato piuttosto vago, limitandosi a citare il Ryu Tsui Sen, o qualcosa di molto simile a esso.
Kaoru era ancora scioccata. Come aveva potuto Kenji imparare delle tecniche di cui aveva udito solo vaghi racconti? Era sempre stato un piccolo prodigio, vero, ma arrivare a questo…
Non poté reprimere un piccolo moto d’orgoglio.
Il suo Kenji era un genio.
Poi si rabbuiò, ricordando tutti i guai e le tragedie che accompagnavano quella categoria di individui. Kenshin aveva ragione, ma…
Se non fossero riusciti a convincere Kenji e fargli cambiare idea, cosa sarebbe successo? Un giorno, presto, sarebbe diventato uomo. E li avrebbe lasciati.
Per non tornare mai più, forse.
Fece un passo in direzione del figlio. Non poteva permetterlo.
Sarebbe accaduto, lo sentiva. Aveva sempre posseduto un ottimo istinto per queste cose e ora vedeva troppi pericoli sulla strada: la testardaggine del figlio, la sua bravura, uomini malvagi che avrebbero notato e tramato, il segreto di Kenshin―
«Kenji.»
Avrebbe dovuto porre fine a questa situazione.

Kenshin imboccò la strada che usciva dal mercato per far ritorno a casa, carico di spesa.
Non sentiva neanche il peso fisico. Quello che lo schiacciava era psicologico e, poteva giurarlo, c’erano state poche occasioni in tutta la vita in cui s’era sentito così male.
Non parlava decentemente con suo figlio da tredici giorni. Le uniche parole che si rivolgevano erano di pura formalità, perché, dopo qualche sofferto tentativo durante i primi giorni, Kenji aveva rinunciato a cercare di convincerlo.
Non lo lasciava mai andare oltre la seconda frase.
Sospirò, desiderando avere una mano libera per passarsela sugli occhi.
Era un inferno autoinflitto.
Aveva sempre detestato questi metodi, sia da bambino come allievo del terribile Hiko, sia da adulto illuminato. A che serviva bruciare tutti i ponti?
Ma non aveva altra scelta…
Non gli restavano più idee. Le sue parole avevano fallito. L’unica alternativa sarebbe stata permettere a Kenji di continuare e fiorire in un agguerrito kendoka, ma quello era fuori discussione.
Non gli avrebbe permesso di autodistruggersi. Era nato in tempo di pace, doveva vivere all’insegna della pace.
Svoltò l’angolo e la palestra entrò nel suo campo visivo, portando con sé una ventata di tensione.
Doveva distendersi un po’ i nervi.
Sì, non… non sarebbe entrato. Aveva il metodo giusto per scaricarsi e, forse, dopo sarebbe stato in grado di pensare più lucidamente. Era parecchio che non andava.
Però doveva anche posare la spesa.
Preso un bel respiro, entrò, attraversò il giardino fino alla veranda e imboccò la porta della cucina, tentando di mantenere un profilo basso. Nel tornare indietro colse la figura di Kenji appoggiata al ciliegio. C’era Kaoru con lui.
Cercando di non provare invidia per la moglie, che dei due, per una volta, era la più indulgente e riceveva in cambio dei privilegi, riguadagnò la strada e sparì.

Kenji osservò i movimenti del padre con occhio indecifrabile, mentre sua madre sedeva sui calcagni, perplessa.
«Che abbia dimenticato qualcosa?»
In effetti era strano vederlo uscire subito dopo aver fatto compere; di solito (per fortuna) si metteva in cucina a preparare il pranzo.
«Beh, non importa. Ascolta, Kenji» lui distolse lo sguardo dalla porta e lo riportò alla madre, incuriosito. Per tutti quei giorni l’aveva inaspettatamente trattato coi guanti, ma da lì a parlargli con tanta franchezza―
«Adesso voglio che tu esca e vada a farti una bella passeggiata.»
Eh?
«Oro?»
«Sì, basta con la clausura. Vai e distraiti un po’.»
Era una domanda trabocchetto?
Glielo chiese. Lei rise, scuotendo la testa e sistemandogli la coda.
«No, Kenji, non sto cercando di fregarti. Credo invece che tu sia stato punito abbastanza.»
Superata la sorpresa, il suo cervello cominciò a funzionare di nuovo e a vagliare le possibilità che gli si presentavano. Una breve uscita era poco, ma già qualcosa.
«Papà non c’entra niente, vero?» Ripensò alla sua faccia mentre se ne andava ed ebbe conferma. «Meglio lasciar perdere. E’ in giro, se mi vede…»
«Oh, e cosa potrebbe farti, se ti ho dato io il permesso?»
Già, cosa poteva fargli? C’era qualcosa peggiore di quella vita?
«E poi, non mi dirai che ti faresti prendere così facilmente!»
«Certo che no» ribatté, il tono ricco della vecchia spocchia. «Aspetta, questo vuol dire che sei dalla mia parte? Che approvi―»
Il viso di sua madre cambiò.
«Quello no, Kenji. Mi dispiace, ma non puoi capire. Io ho visto molte delle cose che la spada ― l’Hiten Mitsurugi ― ha fatto a tuo padre, e tante altre le hanno viste solo lui e uomini morti… perché non puoi fidarti di lui quando ti dice che non porterà a nulla di buono? Sarebbe tutto così semplice. Potremmo tornare una famiglia serena, vivere una vita normale.»
Il ragazzino tacque. Era stato sul punto di ribattere con una frase tagliente (che c’era di bello nella normalità?), poi si ricordò dell’uscita. Sua madre non avrebbe apprezzato un insulto tanto diretto alla vita che si era a fatica costruita.
«Mh» si limitò a mugugnare, alzandosi. «Posso andare allora?»
Lei lo imitò, spolverandosi gli hakama rossi. «Solo qui nei paraggi. Niente foreste e bravate, siamo intesi? Una bella passeggiata rilassante.»
Elettrizzante.
Beh, almeno gli sarebbe servita per cambiare aria e pensare.
«Vado.»
«Mezz’ora, non di più.»

Intanto, alle poste, un ragazzo alto e bruno entrò col suo passo ciondolante e salutò il tipo che impilava pacchi in un angolo.
Era Ota, venuto a lavorare.
In quegli ultimi tempi aveva avuto così tanto tempo libero e tante occhiate severe dalla sorella Megumi che lavorare sembrava l’opzione migliore per tenersi in salvo. Non era stato punito per la faccenda della Triade, perché acchiapparlo e punirlo materialmente sarebbero state due faccende impegnative; inoltre, sospettava che i “vecchi” fossero stati consolati dal saperlo sempre in compagnia dei bambini. Comunque, tutto questo non gli aveva risparmiato una certa tensione nei rapporti, quindi eccolo lì.
«Com’è stamattina, Kazuki?»
«Normale. Lì ci sono i tuoi, caricali sul carro qui davanti.»
«Ok.»
«Ah, Higashidani!» esclamò un impiegato. «Prima che mi dimentichi, c’è una lettera per te.»
Rimase col primo pacco a mezz’aria.
«Per me?»

Restare nel quartiere. Era come dirgli “fatti beccare da qualcuno”! Come avrebbe potuto rilassarsi se doveva tendere occhi e orecchie ad ogni istante, nel timore di incrociare suo padre?
A proposito, si chiedeva dove fosse andato.
Non che gliene fregasse qualcosa, beninteso. Mera indignazione. Gli mancava persino il buon gusto di non farsi vedere uscire, libero e senza preoccupazioni.
Torse la bocca, saltando giù dalla strada fino al lungo prato erboso che costeggiava il canale.
Sarebbe tornato al boschetto per un sopralluogo.
Quel che sua madre non sapeva non poteva farle male. E non l’avrebbe mai saputo, perché ignorava quanto veloce lui potesse correre. Avrebbe continuato a pensare che il boschetto fosse raggiungibile per lui solo in una buona mezz’ora.
Accelerò il proprio respiro, si sciolse rapidamente i muscoli e partì.
Il vento era bellissimo contro la faccia, confortante la sensazione di esserne ancora capace. La corsa del Ryu Sho Sen…
Forse stava sfidando la sorte, ma non importava.
Chi non risica non rosica.
E non aveva ancora idea di quanto avrebbe rosicato, finché non giunse alla meta e, per chissà quale ragione, si fermò appollaiandosi su un vecchio ginkgo.
Era una scelta fortuita e fortunata, perché nella radura c’era qualcuno.
Suo padre.
Il cuore gli balzò in gola, facendolo quasi precipitare.
Cosa ci faceva lì? L’aveva visto? Lo stava aspettando per sottometterlo e trascinarlo di nuovo a casa?
Non accadde nulla. Trattenne il fiato.
Solo ora, guardando meglio, notò qualcosa di strano.
Suo padre era teso. Sembrava attendere un segno, i pugni chiusi e proiettati verso il basso, all’altezza dei fianchi, il capo chino. E al fianco, non la solita bokken…
…ma la sakabato.

L’erba cespugliosa ondeggiava al vento, tremula.
Kenshin concentrò i propri pensieri sul respiro, regolarizzandolo, portandolo al minimo, obbligando tutto ciò che non lo riguardasse ad andarsene.
Concentrati.
Ci riuscì solo dopo alcuni tentativi.
Concentrati.
Poi il soffio leggero della brezza lo avvolse e lui sentì un familiare calore nel ventre.
Concentrati!
Quel calore crebbe, si espanse e, sotto il suo ferreo controllo, salì alla superficie producendo una forte vibrazione. L’erba e gli alberi tutt’intorno riverberarono di quell’energia.
Aprì la bocca, lasciando uscire un urlo profondo.
Poi ci fu l’esplosione.
La familiare sensazione di collidere col mondo, mentre il suo ki lo abbandonava per gettarsi in una battaglia già conclusa, ma non per questo meno incandescente.
Quando anche l’ultimo spasmo d’energia l’ebbe lasciato rilassò le spalle, per riprendere fiato.
Sì, un po’ aveva funzionato. Ma non del tutto.
Ultimamente non lo stancava più come le prime volte. Non aveva detto a Megumi che, da tre anni, aveva ripreso a praticare in modo semiserio il kenjutsu, quindi poteva solo supporre che il suo corpo si fosse riabituato fino a un certo limite allo sforzo. Niente pareri scientifici.
Si raddrizzò, muovendo le braccia con fare distratto.
Ma forse… giusto un poco, senza pretese… poteva sperare che la sua salute fosse migliorata. Tredici anni di riposo, di cui dieci integrali, dovevano aver significato qualcosa.
Era anche più vecchio, lo sapeva ― quarantun anni non erano ventotto, non lo erano proprio, ma non aveva potuto farne a meno. Stava già cominciando a sentirsi rigido e legato quando s’era reso conto che, se non avesse fatto qualcosa, presto sarebbe stato rigido come un anziano.
E poi c’era Kenji, sempre affiancato al segreto timore che si cacciasse in qualche situazione più grande di lui, dalla quale avrebbe dovuto esser tirato fuori.
Io sono un ipocrita, vero?
Scosse la testa. Basta, questo non lo stava aiutando a vederci chiaro.
Doveva sfinirsi.
Cancella e riscrivi. Solo così si ricominciava da capo, e lui ne aveva proprio bisogno. Perché doveva prendere presto una decisione.
Cosa fare con suo figlio? Come guidarlo verso la strada migliore?
Con un movimento duro, afferrò l’elsa della sakabato e l’estrasse (un soffio metallico), mettendosi in posizione d’attacco.
La scuola Kamiya Kasshin era più sicura… ma oggi aveva bisogno di qualcosa di familiare, di dolorosamente consolante.
Rivide Kenji quella mattina, al suo posto, e chiuse gli occhi.
Era stato veloce. Velocissimo.
Impreciso, certo, acerbo, naturalmente, ma sconvolgente. Gli alberi mostravano ancora le unghiate della sua spada.
Corrugò la fronte. Lui non sarebbe stato mai più così rapido, e un pensiero veniva naturale: suo figlio stava prendendo il suo posto come “speranza” dell’Hiten Mitsurugi.
Le implicazioni erano spaventose.
Si costrinse a calmarsi con mosse semplici e lente, note dalla pratica. Doveva trovare una soluzione.
Doveva assolutamente trovare una soluzione.
Una soluzione!
Non si accorse di accelerare a ogni secondo che passava ― finché non ebbe terminato, con lentezza che a lui parve straziante, tutte le mosse superiori.
Avesse saputo chi lo guardava, forse non si sarebbe neanche rialzato.

Kenji fuggì dalla radura.
Quand’ebbe raggiunto il greto del canale da cui era partito, le gambe gli mancarono e crollò in modo poco dignitoso. Fatta leva su braccia molli come nori si girò e atterrò sull’erba con la schiena, il respiro affannoso.
Le ossa gli tremavano ancora.
Vibravano ancora dalla forza di quel ki.
E suo padre―
Ha davvero…?
Praticava davvero―
Ma allora, perché io…
Rendendosi conto di quel che stava succedendo, scattò a sedere e strizzò gli occhi, i pugni affondati nella terra.
«Perché...»
L’aveva visto. Era diverso in molte cose (gli rivelava i suoi errori di autodidatta), ma l’aveva riconosciuto.
«Te l’ho detto e ripetuto mille volte, Kenji, il kenjutsu dell’epoca Meiji va praticato con le bokken e le shinai.»
«Perché?!»
«Se non lo pratico più io che ci sono cresciuto, sopravvissuto e maturato, non c’è la benché minima ragione perché debba farlo tu.»
Con un grido rabbioso, riempì la riva di pugni.
Perché perché perché?!
Non si sarebbe fidato! Non si sarebbe fidato mai più!
E questo lo rese ancora più triste.

Quando tornò, sua madre stava parlando in giardino con Ota e zia Megumi.
Ignorò la sua occhiata furente ― in ritardo, entrava pure dalla porta principale! ― e proseguì con passo di fantasma verso la propria camera. Non salutò nessuno.
Voleva restare solo.
Sbatté lo shoji e aprì il futon con un calcio. Poi ci si buttò sopra.
Dormire e cancellare tutto sarebbe stato un sogno, e tale infatti rimase. Dapprima entrò Inoi, restando sulla soglia con aria sdegnosa.
Dal fattaccio con Tatsuya si era fatta più o meno l’idea di avere un fratello teppista, quindi lo trattava di conseguenza. Non che prima fossero rose e fiori tra loro…
«La mamma vuole sapere che hai.»
La ignorò.
«Che hai fatto stavolta? Te ne approfitti subito, eh?»
Cominciò a contare le fibre del legno sul soffitto, sperando che l sorella se ne andasse presto.
«Magari hai pestato qualcuno?»
Tre, quattro, cinque.
«Non pensi alla mamma?»
Sette
«E a papà, che quasi non mi sorride più?
Die― la menzione di suo padre riportò un vivido flash del terremoto di energia, tagliandogli il respiro.
Balzò a sedere, ansimante. Inoi pestò un piede.
Intanto era arrivato anche Shinta, a guardare la scena con un vecchio pupazzo in mano.
«Allora?! Vuoi dirmelo sì o no cos’hai fatto!» stridette Inoi. «Te ne approfitti solo perché papà ti adora, non è giusto!»
Sgranò gli occhi.
Adorare?
In un attimo era in piedi, scarmigliato. Suo padre, adorarlo? Lui, al quale non aveva mai parlato seriamente del suo passato? Al quale non voleva dare neanche la possibilità di decidere il proprio futuro?
Squadrò ferocemente sua sorella, che indietreggiò.
Ma che voleva quella da lui? L’ingrata! Era troppo chiederle di starne fuori, dopo averla salvata e aver pensato alla sua salute? Perché nessuno poteva lasciarlo in pace a pensare?
All’improvviso, tutto il fiato lo lasciò in un ruggito.
«Fuori
In due falcate era allo shoji, preceduto da una pallida Inoi, che chiuse fuori con un fragore rimbombante.
«E stacci.»
«Kenji» sentì gridare a sua madre. Doveva aver visto tutto (no guarda). «Vieni subito qui!»
Oh, dannazione.
Non c’era pace per lui quel giorno.
Il suo istinto aveva suggerito bene, non sarebbe dovuto uscire. Lontano dagli occhi lontano dal cuore…
«Kenji
Si stava arrabbiando. Fu sul punto di chiedersi che importava, ma non terminò, perché tra tutti sua madre era l’unica su cui potesse fare qualche affidamento.
Senza tentare di nascondere la cosa spaventosa che doveva essere la sua faccia, aprì e obbedì.
C’erano ancora Ota e Megumi, visibilmente a disagio.
«Si può sapere che modi sono?» ringhiò sua madre, tentando di trattenersi. «Inoi è scappata via piangendo!»
«Bene.»
Lo vide arrivare secoli prima, ma non lo evitò. Pur forte da piegargli la testa, il ceffone non lo stordì come aveva sperato.
«Adesso vai a recuperare Shinta e poi scusati con lei.»
«Tre metri sotto terra.»
Stavolta gli fu risposto con un’esclamazione. «Kenji!»
Notò il portone semiaperto.
«Shinta lo vado a riprendere» precisò, avviandosi «ma Inoi può marcire in camera sua, per quel dipende da me.»
Si pentì subito di averlo detto. Ma l’orgoglio ferito gli impedì di rimangiarsi le parole.
Mentre si allontanava sentì sua madre cercare di riempire il silenzio rivolgendosi agli ospiti, la ragione della cui venuta restava oscura.
«Sì… ti dicevo, Ota-kun… per le sacche da viaggio, non c’è problema, davvero. Te le prestiamo senz’altro. Piuttosto, sono un po’ sporche, dovremmo lavarle ― quando parti?»
Partire? Kenji rallentò e tese le orecchie, cercando di cogliere il più possibile.
«Domattina, zia Kaoru. Prenderò il primo treno, e anche così saranno due giorni prima che arrivi a Shinshu.»
Shinshu?
Ma era la sua città di origine. Se ne andava?
«Comunque per le sacche non preoccuparti, vanno bene così. Torneranno anche peggio!»
Il gruppetto emise una risata incerta.
Kenji era ormai alla porta.
«Spero che tuo padre si rimetta presto, la varicella è pericolosa a una certa età.»
«E’ per questo che gli porto le medicine di mia sorella!»
Ah. Ecco perché.
Il vecchio era malato. Ota sarebbe tornato subito dopo la sua guarigione, forse anche prima.
Kenji scrollò le spalle e uscì.
«Avanti Shinta, torniamo in ca―»
Le parole gli morirono in gola. Spalancò gli occhi, pietrificato.

Ciò che vide avrebbe popolato i suoi incubi per molti, molti anni a venire, specialmente con quel che sarebbe successo.
Kenji assistette alla scena come se si svolgesse sott'acqua.
Shinta era a pochi passi da lui, non molto distante, accucciato per terra davanti a un cespuglio di erbe giallastre. Quella semplice, volgare erbaccia, spuntata da una crepa del muro, sembrava aver incantato la sua immaginazione. La guardava, il pupazzo di prima dimenticato in terra, un piccolo dito sulle foglie.
Il suo fratellino sorrideva, ignaro e indifeso. E, dietro di lui…
Kenji guardò, incapace di muoversi.
Pochi passi dietro Shinta, un uomo. Vestito di nero, guanti neri, sciarpa, occhi neri puntati come rapaci sul suo fratellino.
E ora su di lui.
Occhi cattivi.
La comprensione giunse con la forza di una slavina, gelandogli la pelle.
Quell’uomo…
Shinta― no!
Non doveva distogliere lo sguardo!
L’uomo nero, che si era immobilizzato, cominciò impercettibilmente a muoversi.
Con la bocca disidratata e le gambe tremanti, Kenji si rese conto di non avere con sé un’arma.
Muoviti.
Il suo corpo sembrava pietra.
Chiamalo. Chiama Shinta!
L’uomo sembrò notare il suo stato e strinse gli occhi, riportandoli brevemente sul bambino.
Come se considerasse di scattare e―
No!
Con uno sforzo sovrumano, Kenji ritrovò la parola.
«Shinta!»
E il bambino sobbalzò, per fortuna nella sua direzione. Quella era la scintilla. Tornò padrone del proprio corpo e lo prese per un braccio, indietreggiando senza smettere di fissare il terribile sconosciuto.
Non poteva vederlo bene in volto, ma non ne aveva bisogno per riconoscere il pericolo.
Quell’uomo era pericoloso.
E se lui avesse atteso ancora qualche secondo prima di uscire… se avesse origliato ancora per poco…
Il cuore gli gelò.
Suo fratello sarebbe sparito per sempre. Così, in un attimo.
«Entra in casa» gli disse, fissando l’uomo nero con odio.
Quello passò lentamente davanti alla palestra, dall’altro lato della strada, attardandosi a osservare Shinta che rientrava.
«Vattene» sibilò allora Kenji. «O ti ammazzo.»
«E come, ragazzino?»
Fu l’unica cosa che disse, un sibilo.
Come fu scomparso, l’orrendo incantesimo fu spezzato.
Il ragazzino rientrò sbattendo il portone e chiudendolo con la sbarra di legno, come facevano di notte. In giardino non c’era più nessuno. Afferrò Shinta, che ancora sgambettava nei paraggi, poi guardò i muri con ostilità e se lo portò in camera, stringendolo forte per tutto il tempo.

Soltanto quando sua madre venne a dire che il pranzo era pronto, suscitando il desiderio di muoversi nel pur paziente e affettuoso Shinta, Kenji lasciò il fratello.
E ormai aveva preso la sua decisione.
Messo così era un debole. Non aveva saputo reagire oltre la parola davanti al vero pericolo. Se non ci fosse stata gente, quell’uomo l’avrebbe attaccato, ne era certo… e una tecnica difficile, imparata da autodidatta, avrebbe potuto essergli fatale. Oltretutto non aveva mai usato neanche le mosse del Kamiya Kasshin in un combattimento serio, come lo zio Yahiko a suo tempo. Se gli fosse stata restituita la libertà, imparare da solo sarebbe stato inutile quanto restarsene chiuso in casa, ne era sicuro.
Aveva bisogno di esperienza. Di un insegnante consenziente.
O forse stava solo cercando scuse per scappare?
No, mai!
Era soltanto ora di prendere in mano la propria vita; ne aveva abbastanza di farsi trascinare dagli eventi.
Un volto visto tanto tempo prima si fece strada nei suoi ricordi. E ricordò anche chi poteva trovarglielo.
Quella sera ultimò tutti i preparativi, chiuso nella propria stanza.

Non faticò a farsi credere indisposto, visto che era la verità. Non saltare addosso a suo padre e riempirlo di pugni appena l’uomo era comparso aveva richiesto tutte le forze di cui disponeva, e non gliene erano rimaste altre per fingere una decente normalità.
Era anche digiuno: un’ottima scusa per alzarsi nel mezzo della notte, diretto alla cucina.
E sparire…
Per quanto? Per sempre? Lo ignorava.
Sapeva solo di non poter restare lì dentro un giorno di più.
E per assicurarsi di riuscire, aveva precisato tutti gli aspetti dell’operazione.
Il treno per Kyoto sarebbe partito quasi in concomitanza di quello per la regione di Shinshu. Avrebbero pensato tutti che andasse con Ota, almeno per un certo tempo. Prima di tutto, guadagnare tempo.
Poi la credibilità: dov’era diretto, nessuno era facile da abbindolare. Ci sarebbe voluto tutto il suo sangue freddo per ottenere la loro collaborazione.
Infine, l’ora della fuga: verso le tre di mattina, quando il sonno era più pesante.
Ma il momento era ancora lontano e prima acchiappò Shinta, per gli chiese se quella notte voleva dormire con lui. Il piccoletto era in periodo di incubi ― accettò con un grido di giubilo. Kenji abbozzò un sorriso.
Di tutti quanti, era strano dirlo, sarebbe stato lui a mancargli di più.
E per non disturbarlo i suoi avrebbero aspettato parecchio prima di venire a chiamarli, la mattina ventura.
Non considerò neanche Inoi, mentre la bambina gli passava accanto in corridoio, il nasetto aggricciato per il disgusto. La piccola stronza era come tutti gli altri, d’accordo con suo padre per partito preso.
E non tardò a riconoscere il suo tocco quando sua madre girò l’angolo, giungendo con passo battagliero e la fronte corrugata.
«Shinta deve abituarsi a dormire nella sua stanza» disse. «E’ già stato traumatizzato abbastanza.»
Già, ce l’aveva ancora con lui per esser stato fuori troppo al primo permesso. E per non aver chiesto scusa alla sorella, naturalmente.
Beh, lo ripeteva: quando fosse stato tre metri sotto terra, forse Inoi avrebbe sentito da lui parole di scusa.
Per fortuna Shinta si mise a fare i capricci e a piangere, costringendo la mamma a cedere. Kenji avrebbe voluto battergli un cinque.
«Ma bada bene» disse sua madre, fissandolo. «Se lo spaventi, o lo fai piangere o altro―»
«Sì, sì, brucerò in eterno.»
Stava per sbatterle la porta in faccia quando gli venne in mente che quella era forse l’ultima volta che la vedeva. Esitò, si morse il labbro, poi si volse.
«Buonanotte, mamma.»
Lei, già a metà corridoio, si fermò e sbatté le palpebre. Non se l’era aspettato, questo era evidente. Notò che il suo bel viso si rilassava e perdeva quasi tutti i segni della collera.
Per lei il saluto doveva essere un progresso.
«Buonanotte, Kenji.»
Poi proseguì, la lanterna ballonzolante in mano. Il ragazzo la guardò andare, mise giù Shinta e insieme entrarono in camera. Mentre preparavano il futon, gli fece promettere di non uscire mai più di casa da solo, anche se la mamma o il papà erano vicini. Doveva essere un giuramento assoluto, spiegò, perché era una cosa importante.
Quello era l’unico modo in cui avrebbe potuto proteggerlo una volta lontano.
Sapeva (lo insinuava una voce preoccupata) che sarebbe stato meglio restare e assicurarsene di persona, ma Kenji era semplicemente troppo giovane e arrabbiato per farlo. E dopotutto, Shinta non era suo figlio.
«Promettilo.»
Serio, il bambino promise.

   
 
Segui la storia  |        |  Torna su
Cosa pensi della storia?
Per recensire esegui il login oppure registrati.
Capitoli:
 <<    >>
Torna indietro / Vai alla categoria: Anime & Manga > Kenshin / Vai alla pagina dell'autore: Melitot Proud Eye