Enjoy.
Le scintille della bufera
"Fuku
wa uchi, Oni wa
soto."
La
fortuna dentro casa, la
cattiva sorte fuori.
Proverbio
giapponese
Era in trappola.
Nessuna via di scampo.
Un futuro senza prospettive chiuso
entro le mura screpolate
del dojo.
Kenji prese una nuova patata e
cominciò a pelarla, seduto
nell’angolo più anonimo del giardino.
Se l’avessero sbattuto in
carcere, forse sarebbe stato
meglio. Almeno non avrebbe sentito gli occhi di suo padre (o di sua
madre)
costantemente puntati sulla schiena, pronti a trovare qualcosa di
sospetto nel
suo atteggiamento.
Buttò la patata nella
pentola e considerò il coltello.
Arrivati a quel punto, si stupiva un po’ che glielo
lasciassero usare. Pensate
se gli fosse preso un raptus omicida!
Scosse la testa e si
appoggiò al tronco, guardando con
nostalgia il cielo oltre il muro.
Non era giusto.
Shinya e Sozou erano più
piccoli di lui, eppure erano di
nuovo in giro, perdonati e coccolati.
I suoi pensieri furono ingoiati da un
abituale, iroso
turbinio.
Kaoru lasciò che la punta
della sua bokken toccasse il
pavimento e si terse la fronte, il respiro pesante.
«Sì, ci siamo
quasi. Ancora qualche lezione e potrete tutti
passare al livello superiore. Andate pure ora, ci vediamo domani alla
stessa
ora.»
«Sì
maestra.»
Gli oltre venti allievi
s’inchinarono educatamente, rimasero
per il tempo di posare le bokken e se ne andarono a gruppi, allegri e
affamati.
Mentre i quattro di turno pulivano la palestra, Kaoru buttò
fuori un sospiro di
sollievo.
Era abbastanza contenta: i ragazzi
erano bravi, la lezione
era andata bene. Anche senza aiuto… oggi Yahiko aveva
impegni e a Kenji era
tuttora vietato toccare strumenti da kendo.
Scrutò il giardino alla
sua ricerca e lo trovò sotto il
ciliegio spoglio, ancora a pelar patate. Guardava fuori.
Le si strinse il cuore.
Per quanto preoccupata al pensiero di
vederlo praticare
l’Hiten Mitsurugi, stava cominciando a convincersi che quello
non fosse il
metodo giusto per fargli cambiare idea. Come punizione, certo dopo due
settimane il messaggio avrebbe dovuto passare. Adesso non potevano
tornare a
discuterne?
Che cosa aveva ben visto Kenshin per
ridursi ― lui che non
aveva mai punito se non a parole ― a segregare suo figlio in casa? Con
lei era
stato piuttosto vago, limitandosi a citare il Ryu Tsui Sen, o qualcosa
di molto
simile a esso.
Kaoru era ancora scioccata. Come
aveva potuto Kenji imparare
delle tecniche di cui aveva udito solo vaghi racconti? Era sempre stato
un
piccolo prodigio, vero, ma arrivare a questo…
Non poté reprimere un
piccolo moto d’orgoglio.
Il suo Kenji era un genio.
Poi si rabbuiò, ricordando
tutti i guai e le tragedie che
accompagnavano quella categoria di individui. Kenshin aveva ragione,
ma…
Se non fossero riusciti a convincere
Kenji e fargli cambiare
idea, cosa sarebbe successo? Un giorno, presto, sarebbe diventato uomo.
E li avrebbe
lasciati.
Per non tornare mai più,
forse.
Fece un passo in direzione del
figlio. Non poteva
permetterlo.
Sarebbe accaduto, lo sentiva. Aveva
sempre posseduto un
ottimo istinto per queste cose e ora vedeva troppi pericoli sulla
strada: la
testardaggine del figlio, la sua bravura, uomini malvagi che avrebbero
notato e
tramato, il segreto di Kenshin―
«Kenji.»
Avrebbe dovuto porre fine a questa
situazione.
Kenshin imboccò la strada
che usciva dal mercato per far
ritorno a casa, carico di spesa.
Non sentiva neanche il peso fisico.
Quello che lo
schiacciava era psicologico e, poteva giurarlo, c’erano state
poche occasioni
in tutta la vita in cui s’era sentito così male.
Non parlava decentemente con suo
figlio da tredici giorni.
Le uniche parole che si rivolgevano erano di pura formalità,
perché, dopo
qualche sofferto tentativo durante i primi giorni, Kenji aveva
rinunciato a
cercare di convincerlo.
Non lo lasciava mai andare oltre la
seconda frase.
Sospirò, desiderando avere
una mano libera per passarsela
sugli occhi.
Era un inferno autoinflitto.
Aveva sempre detestato questi metodi,
sia da bambino come allievo
del terribile Hiko, sia da adulto illuminato. A che serviva bruciare
tutti i
ponti?
Ma non aveva altra scelta…
Non gli restavano più
idee. Le sue parole avevano fallito.
L’unica alternativa sarebbe stata permettere a Kenji di
continuare e fiorire in
un agguerrito kendoka, ma quello era fuori discussione.
Non gli avrebbe permesso di
autodistruggersi. Era nato in
tempo di pace, doveva vivere all’insegna della pace.
Svoltò l’angolo
e la palestra entrò nel suo campo visivo,
portando con sé una ventata di tensione.
Doveva distendersi un po’ i
nervi.
Sì, non… non
sarebbe entrato. Aveva il metodo giusto per
scaricarsi e, forse, dopo sarebbe stato in grado di pensare
più lucidamente.
Era parecchio che non andava.
Però doveva anche posare
la spesa.
Preso un bel respiro,
entrò, attraversò il giardino fino
alla veranda e imboccò la porta della cucina, tentando di
mantenere un profilo
basso. Nel tornare indietro colse la figura di Kenji appoggiata al
ciliegio.
C’era Kaoru con lui.
Cercando di non provare invidia per
la moglie, che dei due,
per una volta, era la più indulgente e riceveva in cambio
dei privilegi,
riguadagnò la strada e sparì.
Kenji osservò i movimenti
del padre con occhio
indecifrabile, mentre sua madre sedeva sui calcagni, perplessa.
«Che abbia dimenticato
qualcosa?»
In effetti era strano vederlo uscire
subito dopo aver fatto
compere; di solito (per fortuna) si metteva in cucina a preparare il
pranzo.
«Beh, non importa. Ascolta,
Kenji» lui distolse lo sguardo
dalla porta e lo riportò alla madre, incuriosito. Per tutti
quei giorni l’aveva
inaspettatamente trattato coi guanti, ma da lì a parlargli
con tanta
franchezza―
«Adesso voglio che tu esca
e vada a farti una bella
passeggiata.»
Eh?
«Oro?»
«Sì, basta con
la clausura. Vai e distraiti un po’.»
Era una domanda trabocchetto?
Glielo chiese. Lei rise, scuotendo la
testa e sistemandogli
la coda.
«No, Kenji, non sto
cercando di fregarti. Credo invece che
tu sia stato punito abbastanza.»
Superata la sorpresa, il suo cervello
cominciò a funzionare
di nuovo e a vagliare le possibilità che gli si
presentavano. Una breve uscita
era poco, ma già qualcosa.
«Papà non
c’entra niente, vero?» Ripensò alla sua
faccia
mentre se ne andava ed ebbe conferma. «Meglio lasciar
perdere. E’ in giro, se
mi vede…»
«Oh, e cosa potrebbe farti,
se ti ho dato io il permesso?»
Già, cosa poteva fargli?
C’era qualcosa peggiore di quella
vita?
«E poi, non mi dirai che ti
faresti prendere così
facilmente!»
«Certo che no»
ribatté, il tono ricco della vecchia
spocchia. «Aspetta, questo vuol dire che sei dalla mia parte?
Che approvi―»
Il viso di sua madre
cambiò.
«Quello no, Kenji. Mi
dispiace, ma non puoi capire. Io ho
visto molte delle cose che la spada ― l’Hiten Mitsurugi ― ha
fatto a tuo padre,
e tante altre le hanno viste solo lui e uomini morti…
perché non puoi fidarti
di lui quando ti dice che non porterà a nulla di buono?
Sarebbe tutto così
semplice. Potremmo tornare una famiglia serena, vivere una vita
normale.»
Il ragazzino tacque. Era stato sul
punto di ribattere con
una frase tagliente (che c’era di bello nella
normalità?), poi si ricordò
dell’uscita. Sua madre non avrebbe apprezzato un insulto
tanto diretto alla
vita che si era a fatica costruita.
«Mh» si
limitò a mugugnare, alzandosi. «Posso andare
allora?»
Lei lo imitò,
spolverandosi gli hakama rossi. «Solo qui nei
paraggi. Niente foreste e bravate, siamo intesi? Una bella passeggiata
rilassante.»
Elettrizzante.
Beh, almeno gli sarebbe servita per
cambiare aria e pensare.
«Vado.»
«Mezz’ora, non di
più.»
Intanto, alle poste, un ragazzo alto
e bruno entrò col suo
passo ciondolante e salutò il tipo che impilava pacchi in un
angolo.
Era Ota, venuto a lavorare.
In quegli ultimi tempi aveva avuto
così tanto tempo libero e
tante occhiate severe dalla sorella Megumi che lavorare sembrava
l’opzione
migliore per tenersi in salvo. Non era stato punito per la faccenda
della
Triade, perché acchiapparlo e punirlo materialmente
sarebbero state due
faccende impegnative; inoltre, sospettava che i
“vecchi” fossero stati
consolati dal saperlo sempre in compagnia dei bambini. Comunque, tutto
questo
non gli aveva risparmiato una certa tensione nei rapporti, quindi
eccolo lì.
«Com’è
stamattina, Kazuki?»
«Normale. Lì ci
sono i tuoi, caricali sul carro qui
davanti.»
«Ok.»
«Ah,
Higashidani!» esclamò un impiegato.
«Prima che mi
dimentichi, c’è una lettera per te.»
Rimase col primo pacco a
mezz’aria.
«Per me?»
Restare nel quartiere. Era come
dirgli “fatti beccare da
qualcuno”! Come avrebbe potuto rilassarsi se doveva tendere
occhi e orecchie ad
ogni istante, nel timore di incrociare suo padre?
A proposito, si chiedeva dove fosse
andato.
Non che gliene fregasse qualcosa,
beninteso. Mera
indignazione. Gli mancava persino il buon gusto di non farsi vedere
uscire,
libero e senza preoccupazioni.
Torse la bocca, saltando
giù dalla strada fino al lungo
prato erboso che costeggiava il canale.
Sarebbe tornato al boschetto per un
sopralluogo.
Quel che sua madre non sapeva non
poteva farle male. E non
l’avrebbe mai saputo, perché ignorava quanto
veloce lui potesse correre.
Avrebbe continuato a pensare che il boschetto fosse raggiungibile per
lui solo
in una buona mezz’ora.
Accelerò il proprio
respiro, si sciolse rapidamente i
muscoli e partì.
Il vento era bellissimo contro la
faccia, confortante la
sensazione di esserne ancora capace. La corsa del Ryu Sho
Sen…
Forse stava sfidando la sorte, ma non
importava.
Chi non risica non rosica.
E non aveva ancora idea di quanto
avrebbe rosicato, finché
non giunse alla meta e, per chissà quale ragione, si
fermò appollaiandosi su un
vecchio ginkgo.
Era una scelta fortuita e fortunata,
perché nella radura
c’era qualcuno.
Suo padre.
Il cuore gli balzò in
gola, facendolo quasi precipitare.
Cosa ci faceva lì?
L’aveva visto? Lo stava aspettando per
sottometterlo e trascinarlo di nuovo a casa?
Non accadde nulla. Trattenne il fiato.
Solo ora, guardando meglio,
notò qualcosa di strano.
Suo padre era teso. Sembrava
attendere un segno, i pugni
chiusi e proiettati verso il basso, all’altezza dei fianchi,
il capo chino. E
al fianco, non la solita bokken…
…ma la sakabato.
L’erba cespugliosa
ondeggiava al vento, tremula.
Kenshin concentrò i propri
pensieri sul respiro,
regolarizzandolo, portandolo al minimo, obbligando tutto ciò
che non lo
riguardasse ad andarsene.
Concentrati.
Ci riuscì solo dopo alcuni
tentativi.
Concentrati.
Poi il soffio leggero della brezza lo
avvolse e lui sentì un
familiare calore nel ventre.
Concentrati!
Quel calore crebbe, si espanse e,
sotto il suo ferreo
controllo, salì alla superficie producendo una forte
vibrazione. L’erba e gli
alberi tutt’intorno riverberarono di quell’energia.
Aprì la bocca, lasciando
uscire un urlo profondo.
Poi ci fu l’esplosione.
La familiare sensazione di collidere
col mondo, mentre il
suo ki lo abbandonava per gettarsi in una battaglia già
conclusa, ma non per
questo meno incandescente.
Quando anche l’ultimo
spasmo d’energia l’ebbe lasciato
rilassò le spalle, per riprendere fiato.
Sì, un po’ aveva
funzionato. Ma non del tutto.
Ultimamente non lo stancava
più come le prime volte. Non
aveva detto a Megumi che, da tre anni, aveva ripreso a praticare in
modo
semiserio il kenjutsu, quindi poteva solo supporre che il suo corpo si
fosse
riabituato fino a un certo limite allo sforzo. Niente pareri
scientifici.
Si raddrizzò, muovendo le
braccia con fare distratto.
Ma forse… giusto un poco,
senza pretese… poteva sperare che
la sua salute fosse migliorata. Tredici anni di riposo, di cui dieci
integrali,
dovevano aver significato qualcosa.
Era anche più vecchio, lo
sapeva ― quarantun anni non erano
ventotto, non lo erano proprio, ma non aveva potuto farne a meno. Stava
già
cominciando a sentirsi rigido e legato quando s’era reso
conto che, se non
avesse fatto qualcosa, presto sarebbe stato rigido come un anziano.
E poi c’era Kenji, sempre
affiancato al segreto timore che
si cacciasse in qualche situazione più grande di lui, dalla
quale avrebbe
dovuto esser tirato fuori.
Io sono un ipocrita,
vero?
Scosse la testa. Basta, questo non lo
stava aiutando a
vederci chiaro.
Doveva sfinirsi.
Cancella e riscrivi. Solo
così si ricominciava da capo, e
lui ne aveva proprio bisogno. Perché doveva prendere presto
una decisione.
Cosa fare con suo figlio? Come
guidarlo verso la strada
migliore?
Con un movimento duro,
afferrò l’elsa della sakabato e
l’estrasse (un soffio metallico), mettendosi in posizione
d’attacco.
La scuola Kamiya Kasshin era
più sicura… ma oggi aveva
bisogno di qualcosa di familiare, di dolorosamente consolante.
Rivide Kenji quella mattina, al suo
posto, e chiuse gli
occhi.
Era stato veloce. Velocissimo.
Impreciso, certo, acerbo,
naturalmente, ma sconvolgente. Gli
alberi mostravano ancora le unghiate della sua spada.
Corrugò la fronte. Lui non
sarebbe stato mai più così
rapido, e un pensiero veniva naturale: suo figlio stava prendendo il
suo posto
come “speranza” dell’Hiten Mitsurugi.
Le implicazioni erano spaventose.
Si costrinse a calmarsi con mosse
semplici e lente, note
dalla pratica. Doveva trovare una soluzione.
Doveva assolutamente trovare una
soluzione.
Una soluzione!
Non si accorse di accelerare a ogni
secondo che passava ―
finché non ebbe terminato, con lentezza che a lui parve
straziante, tutte le
mosse superiori.
Avesse saputo chi lo guardava, forse
non si sarebbe neanche
rialzato.
Kenji fuggì dalla radura.
Quand’ebbe raggiunto il
greto del canale da cui era partito,
le gambe gli mancarono e crollò in modo poco dignitoso.
Fatta leva su braccia
molli come nori si girò e atterrò
sull’erba con la schiena, il respiro
affannoso.
Le ossa gli tremavano ancora.
Vibravano ancora dalla forza di quel
ki.
E suo padre―
Ha davvero…?
Praticava davvero―
Ma allora, perché
io…
Rendendosi conto di quel che stava
succedendo, scattò a
sedere e strizzò gli occhi, i pugni affondati nella terra.
«Perché...»
L’aveva visto. Era diverso
in molte cose (gli rivelava i
suoi errori di autodidatta), ma l’aveva riconosciuto.
«Te l’ho
detto e ripetuto mille volte, Kenji, il kenjutsu
dell’epoca Meiji va praticato con le bokken e le
shinai.»
«Perché?!»
«Se non lo pratico
più io che ci sono cresciuto,
sopravvissuto e maturato, non c’è la
benché minima ragione perché debba farlo
tu.»
Con un grido rabbioso,
riempì la riva di pugni.
Perché perché
perché?!
Non si sarebbe fidato! Non si sarebbe
fidato mai più!
E questo lo rese ancora
più triste.
Quando tornò, sua madre
stava parlando in giardino con Ota e
zia Megumi.
Ignorò la sua occhiata
furente ― in ritardo, entrava pure
dalla porta principale! ― e proseguì con passo di fantasma
verso la propria
camera. Non salutò nessuno.
Voleva restare solo.
Sbatté lo shoji e
aprì il futon con un calcio. Poi ci si
buttò sopra.
Dormire e cancellare tutto sarebbe
stato un sogno, e tale
infatti rimase. Dapprima entrò Inoi, restando sulla soglia
con aria sdegnosa.
Dal fattaccio con Tatsuya si era
fatta più o meno l’idea di
avere un fratello teppista, quindi lo trattava di conseguenza. Non che
prima
fossero rose e fiori tra loro…
«La mamma vuole sapere che
hai.»
La ignorò.
«Che hai fatto stavolta? Te
ne approfitti subito, eh?»
Cominciò a contare le
fibre del legno sul soffitto, sperando
che l sorella se ne andasse presto.
«Magari hai pestato
qualcuno?»
Tre, quattro, cinque.
«Non pensi alla
mamma?»
Sette…
«E a papà, che
quasi non mi sorride più?
Die― la menzione di suo padre
riportò un vivido flash del
terremoto di energia, tagliandogli il respiro.
Balzò a sedere, ansimante.
Inoi pestò un piede.
Intanto era arrivato anche Shinta, a
guardare la scena con
un vecchio pupazzo in mano.
«Allora?! Vuoi dirmelo
sì o no cos’hai fatto!» stridette
Inoi. «Te ne approfitti solo perché
papà ti adora, non è giusto!»
Sgranò gli occhi.
Adorare?
In un attimo era in piedi,
scarmigliato. Suo padre,
adorarlo? Lui, al quale non aveva mai parlato seriamente del suo
passato? Al
quale non voleva dare neanche la possibilità di decidere il
proprio futuro?
Squadrò ferocemente sua
sorella, che indietreggiò.
Ma che voleva quella da lui?
L’ingrata! Era troppo chiederle
di starne fuori, dopo averla salvata e aver pensato alla sua salute?
Perché
nessuno poteva lasciarlo in pace a pensare?
All’improvviso, tutto il
fiato lo lasciò in un ruggito.
«Fuori!»
In due falcate era allo shoji,
preceduto da una pallida
Inoi, che chiuse fuori con un fragore rimbombante.
«E stacci.»
«Kenji»
sentì
gridare a sua madre. Doveva aver visto tutto (no guarda).
«Vieni subito qui!»
Oh, dannazione.
Non c’era pace per lui quel
giorno.
Il suo istinto aveva suggerito bene,
non sarebbe dovuto
uscire. Lontano dagli occhi lontano dal cuore…
«Kenji!»
Si stava arrabbiando. Fu sul punto di
chiedersi che
importava, ma non terminò, perché tra tutti sua
madre era l’unica su cui
potesse fare qualche affidamento.
Senza tentare di nascondere la cosa
spaventosa che doveva
essere la sua faccia, aprì e obbedì.
C’erano ancora Ota e
Megumi, visibilmente a disagio.
«Si può sapere
che modi sono?» ringhiò sua madre, tentando
di trattenersi. «Inoi è scappata via
piangendo!»
«Bene.»
Lo vide arrivare secoli prima, ma non
lo evitò. Pur forte da
piegargli la testa, il ceffone non lo stordì come aveva
sperato.
«Adesso vai a recuperare
Shinta e poi scusati con lei.»
«Tre metri sotto
terra.»
Stavolta gli fu risposto con
un’esclamazione. «Kenji!»
Notò il portone semiaperto.
«Shinta lo vado a
riprendere» precisò, avviandosi «ma Inoi
può marcire in camera sua, per quel dipende da me.»
Si pentì subito di averlo
detto. Ma l’orgoglio ferito gli
impedì di rimangiarsi le parole.
Mentre si allontanava
sentì sua madre cercare di riempire il
silenzio rivolgendosi agli ospiti, la ragione della cui venuta restava
oscura.
«Sì…
ti dicevo, Ota-kun… per le sacche da viaggio, non
c’è
problema, davvero. Te le prestiamo senz’altro. Piuttosto,
sono un po’ sporche,
dovremmo lavarle ― quando parti?»
Partire? Kenji rallentò e
tese le orecchie, cercando di
cogliere il più possibile.
«Domattina, zia Kaoru.
Prenderò il primo treno, e anche così
saranno due giorni prima che arrivi a Shinshu.»
Shinshu?
Ma era la sua città di
origine. Se ne andava?
«Comunque per le sacche non
preoccuparti, vanno bene così.
Torneranno anche peggio!»
Il gruppetto emise una risata incerta.
Kenji era ormai alla porta.
«Spero che tuo padre si
rimetta presto, la varicella è
pericolosa a una certa età.»
«E’ per questo
che gli porto le medicine di mia sorella!»
Ah. Ecco perché.
Il vecchio era malato. Ota sarebbe
tornato subito dopo la
sua guarigione, forse anche prima.
Kenji scrollò le spalle e
uscì.
«Avanti Shinta, torniamo in
ca―»
Le parole gli morirono in gola.
Spalancò gli occhi,
pietrificato.
Ciò che vide avrebbe
popolato i suoi incubi per molti, molti
anni a venire, specialmente con quel che sarebbe successo.
Kenji assistette alla scena come se si svolgesse sott'acqua.
Shinta era a pochi passi da lui, non
molto distante,
accucciato per terra davanti a un cespuglio di erbe giallastre. Quella
semplice, volgare erbaccia, spuntata da una crepa del muro, sembrava
aver
incantato la sua immaginazione. La guardava, il pupazzo di prima
dimenticato in
terra, un piccolo dito sulle foglie.
Il suo fratellino sorrideva, ignaro e
indifeso. E, dietro di
lui…
Kenji guardò, incapace di
muoversi.
Pochi passi dietro Shinta, un uomo.
Vestito di nero, guanti
neri, sciarpa, occhi neri puntati come rapaci sul suo fratellino.
E ora su di lui.
Occhi cattivi.
La comprensione giunse con la forza
di una slavina,
gelandogli la pelle.
Quell’uomo…
Shinta― no!
Non doveva distogliere lo sguardo!
L’uomo nero, che si era
immobilizzato, cominciò impercettibilmente
a muoversi.
Con la bocca disidratata e le gambe
tremanti, Kenji si rese
conto di non avere con sé un’arma.
Muoviti.
Il suo corpo sembrava pietra.
Chiamalo. Chiama Shinta!
L’uomo sembrò
notare il suo stato e strinse gli occhi,
riportandoli brevemente sul bambino.
Come se considerasse di scattare e―
No!
Con uno sforzo sovrumano, Kenji
ritrovò la parola.
«Shinta!»
E il bambino sobbalzò, per
fortuna nella sua direzione.
Quella era la scintilla. Tornò padrone del proprio corpo e
lo prese per un
braccio, indietreggiando senza smettere di fissare il terribile
sconosciuto.
Non poteva vederlo bene in volto, ma
non ne aveva bisogno
per riconoscere il pericolo.
Quell’uomo era pericoloso.
E se lui avesse atteso ancora qualche
secondo prima di
uscire… se avesse origliato ancora per poco…
Il cuore gli gelò.
Suo fratello sarebbe sparito per
sempre. Così, in un attimo.
«Entra in casa»
gli disse, fissando l’uomo nero con odio.
Quello passò lentamente
davanti alla palestra, dall’altro
lato della strada, attardandosi a osservare Shinta che rientrava.
«Vattene»
sibilò allora Kenji. «O ti ammazzo.»
«E come,
ragazzino?»
Fu l’unica cosa che disse,
un sibilo.
Come fu scomparso,
l’orrendo incantesimo fu spezzato.
Il ragazzino rientrò
sbattendo il portone e chiudendolo con
la sbarra di legno, come facevano di notte. In giardino non
c’era più nessuno.
Afferrò Shinta, che ancora sgambettava nei paraggi, poi
guardò i muri con
ostilità e se lo portò in camera, stringendolo
forte per tutto il tempo.
Soltanto quando sua madre venne a
dire che il pranzo era
pronto, suscitando il desiderio di muoversi nel pur paziente e
affettuoso
Shinta, Kenji lasciò il fratello.
E ormai aveva preso la sua decisione.
Messo così
era un debole. Non aveva saputo reagire oltre la
parola davanti al vero
pericolo. Se non ci fosse stata gente, quell’uomo
l’avrebbe attaccato, ne era
certo… e una tecnica difficile, imparata da autodidatta,
avrebbe potuto essergli
fatale. Oltretutto non aveva mai
usato neanche le mosse del Kamiya Kasshin in un
combattimento serio,
come lo zio Yahiko a suo tempo. Se gli fosse stata
restituita la
libertà, imparare da solo sarebbe stato inutile quanto
restarsene chiuso
in casa, ne era sicuro.
Aveva bisogno di esperienza. Di un insegnante consenziente.
O forse stava solo cercando scuse per scappare?
No, mai!
Era soltanto ora di prendere in mano la propria vita; ne aveva
abbastanza di farsi trascinare dagli eventi.
Un volto visto tanto tempo prima si
fece strada nei suoi
ricordi. E ricordò anche chi poteva
trovarglielo.
Quella sera ultimò tutti i
preparativi, chiuso nella propria stanza.
Non faticò a farsi credere
indisposto, visto che era la
verità. Non saltare addosso a suo padre e riempirlo di pugni
appena l’uomo era
comparso aveva richiesto tutte le forze di cui disponeva, e non gliene
erano
rimaste altre per fingere una decente normalità.
Era anche digiuno:
un’ottima scusa per alzarsi nel mezzo
della notte, diretto alla cucina.
E sparire…
Per quanto? Per sempre? Lo ignorava.
Sapeva solo di non poter restare
lì dentro un giorno di più.
E per assicurarsi di riuscire, aveva
precisato tutti gli
aspetti dell’operazione.
Il treno per Kyoto sarebbe partito
quasi in concomitanza di
quello per la regione di Shinshu. Avrebbero pensato tutti che andasse
con Ota,
almeno per un certo tempo. Prima di tutto, guadagnare tempo.
Poi la credibilità:
dov’era diretto, nessuno era facile da
abbindolare. Ci sarebbe voluto tutto il suo sangue freddo per ottenere
la loro
collaborazione.
Infine, l’ora della fuga:
verso le tre di mattina, quando il
sonno era più pesante.
Ma il momento era ancora lontano e
prima acchiappò Shinta,
per gli chiese se quella notte voleva dormire con lui. Il piccoletto
era in
periodo di incubi ― accettò con un grido di giubilo. Kenji
abbozzò un sorriso.
Di tutti quanti, era strano dirlo,
sarebbe stato lui a
mancargli di più.
E per non disturbarlo i suoi
avrebbero aspettato parecchio
prima di venire a chiamarli, la mattina ventura.
Non considerò neanche
Inoi, mentre la bambina gli passava
accanto in corridoio, il nasetto aggricciato per il disgusto. La
piccola
stronza era come tutti gli altri, d’accordo con suo padre per
partito preso.
E non tardò a riconoscere
il suo tocco quando sua madre girò
l’angolo, giungendo con passo battagliero e la fronte
corrugata.
«Shinta deve abituarsi a
dormire nella sua stanza» disse.
«E’ già stato traumatizzato
abbastanza.»
Già, ce l’aveva
ancora con lui per esser stato fuori troppo
al primo permesso. E per non aver chiesto scusa
alla sorella,
naturalmente.
Beh, lo ripeteva: quando fosse stato
tre metri sotto terra,
forse Inoi avrebbe sentito da lui parole di scusa.
Per fortuna Shinta si mise a fare i
capricci e a piangere,
costringendo la mamma a cedere. Kenji avrebbe voluto battergli un
cinque.
«Ma bada bene»
disse sua madre, fissandolo. «Se lo spaventi,
o lo fai piangere o altro―»
«Sì,
sì, brucerò in eterno.»
Stava per sbatterle la porta in
faccia quando gli venne in
mente che quella era forse l’ultima volta che la vedeva.
Esitò, si morse il
labbro, poi si volse.
«Buonanotte,
mamma.»
Lei, già a metà
corridoio, si fermò e sbatté le palpebre.
Non se l’era aspettato, questo era evidente. Notò
che il suo bel viso si
rilassava e perdeva quasi tutti i segni della collera.
Per lei il saluto doveva essere un
progresso.
«Buonanotte,
Kenji.»
Poi proseguì, la lanterna
ballonzolante in mano. Il ragazzo
la guardò andare, mise giù Shinta e insieme
entrarono in camera. Mentre
preparavano il futon, gli fece promettere di non uscire mai
più di casa da
solo, anche se la mamma o il papà erano vicini. Doveva
essere un giuramento
assoluto, spiegò, perché era una cosa importante.
Quello era l’unico modo in
cui avrebbe potuto proteggerlo
una volta lontano.
Sapeva (lo insinuava una voce
preoccupata) che sarebbe stato
meglio restare e assicurarsene di persona, ma Kenji era semplicemente
troppo
giovane e arrabbiato per farlo. E dopotutto, Shinta non era suo figlio.
«Promettilo.»
Serio, il bambino promise.