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Autore: Raven85    21/02/2014    1 recensioni
Ti vogliamo bene, Susie.
Genere: Drammatico, Malinconico, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Nessuna | Personaggi: Un po' tutti
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Avevo tredici anni quando mia sorella venne uccisa.
Era il 1973. Erano i primi di dicembre e nevicava.
Susie aveva solo un anno più di me, ma non avevamo molto in comune. Forse gli occhi azzurri, ereditati da mamma. Anche i nostri caratteri erano diversi: lei era più docile, io più ribelle. Ma credo di poter ringraziare anche il mio carattere, se oggi sono qui.
Non è mai facile perdere una persona cara, che questa sia un genitore, un fratello o un nonno o un amico. Figuriamoci poi perderla in questo modo, senza mai sapere veramente come, quando, perché e soprattutto chi.
Eppure c’è qualcosa di ironico in tutto questo. Susie non era mai stata una che andava a caccia di guai. Tornava a casa da scuola sola perché distavano pochissimi metri, io invece le avventure le adoravo. Quindi mi chiedo perché è capitato a lei, e non a me.
Comunque, andò così. Stava facendo buio e io ero a casa, al sicuro, ma Susie non era tornata. Mamma voleva sempre che fossimo a casa prima di sera, com’era ovvio. E noi cercavamo di obbedire, ma spesso trasgredivamo.
Naturalmente mamma e papà si preoccuparono e allertarono subito le ricerche quando mia sorella non tornò, ma per me evidentemente secondo loro doveva bastare la spiegazione che avevano dato a nostro fratello Buckley: Susie era a dormire dalla sua amica Clarissa.
Ma una cosa del genere non poteva certo convincermi. Comunque non chiesi nulla. Aspettavo qualsiasi cosa: di veder tornare mia sorella oppure di sapere dov’era. Ma che fosse la verità.
Dovettero trascorrere tre giorni prima che la Polizia telefonasse a papà per dirgli che avevano trovato qualcosa. Io stavo in cima alle scale e aspettavo che finisse, poi scesi e pretesi di sapere cosa gli avevano detto. E lui mi raccontò del gomito.
Nei giorni seguenti fu setacciato il campo di granturco e trovati altri oggetti, ma nulla di veramente personale se non il tema che aveva consegnato pochi giorni prima del quale io le avevo suggerito una parte del titolo. Libri di scuola, appunti sparsi. Nulla che non potesse avere semplicemente perso per strada.
Alcuni giorni dopo infine, ecco la prova principe. Len Fenerman, il detective che si occupava del caso, venne a casa nostra e portò a mamma e papà il cappello coi campanellini che mamma le aveva fatto, gemello del mio. Fu allora che vidi mia madre crollare.
E allora feci la cosa più logica: nascosi il mio cappello nel posto più inarrivabile che potei trovare. Per mamma sarebbe stato troppo averlo sempre davanti agli occhi.
Per la verità già allora un sospettato c’era stato. Si chiamava Ray Singh ed era indiano. Aveva la stessa età di Susie. La Polizia arrivò a casa sua e lo interrogò a lungo, ma aveva una cotta per mia sorella e poi era solo un ragazzino. Per di più aveva un alibi di ferro. Ma anche senza quello, noi eravamo convinti che non c’entrasse nulla.
Non dirò che condannavo i miei genitori perché sembravano non curarsi di me. Già allora sapevo che loro avevano fatto del loro meglio, stavano continuando a farlo, ma semplicemente quel dolore era troppo anche per due persone così forti come loro. Perciò mi lasciarono a me stessa. E io imparai a cavarmela.
Di lì a una settimana sarebbero iniziate le vacanze di Natale, e mamma disse che se volevo avrei potuto tornare a scuola direttamente a gennaio. Ma io andai ugualmente, e speravo di essere pronta a quello che poteva aspettarmi.
In effetti non fu semplice. In classe e nei corridoi, ovunque ci fossero studenti tutti mi fissavano, tutti bisbigliavano l’uno con l’altro, domandandosi - posso presumere - cosa si provasse ad avere una sorella morta, forse uccisa. Ma contro questo sapevo difendermi. La cosa peggiore fu quando venni convocata nell’ufficio del preside.
Era la compassione quello che temevo di più, ma ero decisa a non lasciarmi andare. Così, quando mi propinarono le solite frasi di circostanza - ci dispiace così tanto, Susie era una così brava ragazza - riuscii a mantenermi fredda e distaccata. Non scoppiai in lacrime tra le braccia del preside, come forse tutti si erano aspettati che facessi. Non sarei caduta così in basso.
E funzionò. Riuscii a mettere in imbarazzo perfino il buon preside. E, non nego, con una certa soddisfazione.
Quella sera feci doppie serie di addominali, flessioni e sollevamenti. Mi faceva sentire meglio. Mi impediva di pensare. E dentro di me giuravo con sempre più convinzione che avrei tenuto duro. Andava tutto bene. Stavo bene.
Non piangevo mai davanti agli altri. Mi dava già abbastanza fastidio il dover vedere mio padre che mi guardava e invece di me vedeva Susie. Purtroppo ci assomigliavamo troppo. Per questo evitavo gli specchi. E mi chiedevo quanto sarebbe durata.
Natale si avvicinava, e nessuno aveva ancora detto niente a Buckley. D’accordo, aveva quattro anni e poteva credere ancora un po’ che sua sorella maggiore avesse deciso di fermarsi per qualche giorno dalla sua amica, o che fosse chissà dove e con chissà chi. Ma nemmeno io mi decidevo a farlo: volevo aspettare che fossero i miei genitori a muoversi.
E venne la sera di Natale. Si può immaginare con quale animo si festeggiava in casa nostra, e forse non avremmo fatto niente se non fosse stato per Buckley. Ma una sorpresa per me ci fu: Samuel. A casa mia. Con un regalo.
Per me.
Non so cosa avesse saputo dell’intera vicenda, forse quello che sapevano tutti, ma non credo nemmeno che fosse quello il motivo della sua visita. Lui veniva a scuola con me e aveva la mia stessa età, era proprio carino e non mi sarei mai aspettata né di piacergli, né tantomeno che si presentasse a casa mia la sera di Natale con un regalo per me. Eppure così era. E da quella sera stavamo insieme.
So anche che quella sera il mio fratellino apprese finalmente la verità su Susie. Naturalmente senza scendere nei particolari, ma seppe che nostra sorella non sarebbe tornata più. Il che, per i suoi quattro anni, era tutto quello che gli bastava sapere.
Non c’era naturalmente stato nessun funerale per Susie, perché nessun corpo era stato trovato. Sapevamo tutti però che era morta, anche se non venne da noi l’idea di una messa in suo onore: fu il preside a pensarci.
Venne fissata quasi due mesi dopo la sua scomparsa, e il giorno prima arrivò, per parteciparvi, anche mia nonna Lynn, la madre di mia madre. Era vedova e non aveva altri figli a parte la mamma, ed era una nonna davvero insolita.
Aveva passato da poco i sessant’anni ma era una donna snella, che amava truccarsi molto, beveva quasi tutto - preferibilmente superalcolici - e portava un visone anche in occasioni decisamente casual. Quando veniva a trovarci veniva dall’aeroporto con sempre una limousine diversa che noleggiava per l’occasione. Indossava i tacchi alti sempre, e puntualmente insisteva col truccare mia madre - di solito prima di essersi ubriacata con gli alcolici di mio padre. Per di più insisteva con me e Susie e soprattutto con la mamma, perché a suo avviso eravamo tutte e due troppo grasse. Spesso lei e mamma discutevano per questo motivo.
A me, soprattutto quella sera affascinò proprio la sua borsetta dei trucchi. Mi era venuta un’idea, per giunta ritenevo di essere ormai abbastanza grande per potermi truccare, anche poco. Così le chiesi di insegnarmelo.
Ovviamente prima si ubriacò. Si prese una sbronza anche papà. Ma io ebbi quello che volevo, anche se guardandomi allo specchio vedevo che sembravo più una maschera. Ma tolto l’eccesso di belletto, non era affatto male. Non ero più la copia di Susie. Avevo il mio viso, più adulto, ma mio.
La mattina dopo cercai di non farmi notare troppo da mamma: volevo conservarmi più che potevo la mia faccia nuova. Andai poi nella camera di Susie, per trovare un vestito, e lì mi raggiunse la nonna, per chiedermi di aiutarla a chiudere il suo.
Fu lei a trovare nell’armadio di Susie un bell’abito, corto, che io non le avevo mai visto addosso. A tutt’oggi non ho idea di dove l’avesse preso.
Non parlammo molto mentre lei mi aiutava a vestirmi e poi mi sistemava il trucco. Accennò però a un “tizio”, che papà riteneva fosse l’assassino di mia sorella. Non mi disse molto altro, nemmeno il nome.
Davanti alla chiesa, Samuel mi aspettava. Alla messa vennero quasi tutti, tranne i Singh. Non credo che fosse per via della loro religione, e nemmeno per il fatto che Ray era stato sospettato dell’omicidio: semplicemente, credo, si sarebbero sentiti fuori posto.
La cerimonia fu come ci si aspetta sempre che siano questo tipo di cose: persone che conoscevano Susie, molto o poco, che dicevano delle cose su di lei. Cose belle, ovviamente, come capita sempre in questi casi. Ma poi mia nonna si voltò, vide qualcuno alla porta della chiesa, e mi sussurrò che era lui.
Quando mi voltai vidi il nostro vicino di casa, George Harvey. Per un attimo la consapevolezza si fece strada in me: poi svenni.
Fortunatamente nessuno mi chiese spiegazioni. Io comunque non avrei saputo darne.
Quell’estate il Raduno degli studenti dotati mi diede l’opportunità per andarmene un po’ da casa. C’era anche Samuel con me, e tutti i nostri compagni di scuola, ma c’erano anche ragazzi di altre città e io ero lieta di poter avere un po’ di anonimato. Sulla mia targhetta di riconoscimento avevo scritto solo il nome, sostituendo il mio cognome con il disegno di un pesce.
Andò tutto abbastanza liscio per tre settimane, solo l’ultima il progetto annuale fu cambiato all’ultimo: invece di una trappola per topi, come realizzare il delitto perfetto.
Non ne seppi nulla fino a quando Artie, un compagno di classe di Susie, non venne a riferirmelo una mattina. Non avevo visto il volantino e non si poteva immaginare un tema peggiore per me, dopo quello che era successo a mia sorella. Ma ovviamente non lo diedi a vedere. Solamente uscii dalla mensa, senza dire una parola.
Poco dopo Samuel mi aveva raggiunto, e ci eravamo rifugiati sotto una vecchia canoa per ripararci dalla pioggia. Io continuavo a ripetergli che stavo bene, ma lui mi conosceva già abbastanza per sapere come fare in certe circostanze. Non parlammo molto.
Ma fu lì, sotto quella canoa, che facemmo l’amore la prima volta.
In agosto, infine, la Polizia ci lasciò definitivamente a noi stessi. Effettivamente mio padre era stato ossessivo nelle sue telefonate, ma era un papà che voleva sapere cos’era successo a sua figlia. Ma poiché su George Harvey - lui era il colpevole secondo mio padre - nulla era stato trovato, perlomeno nulla di sospetto, era meglio che la cosa avesse un freno.
Per papà fu come se il mondo gli cadesse addosso di nuovo. Io non sapevo come aiutarlo: nessuno lo sapeva. Potevamo solo continuare a sostenerlo: ma ormai lo facevamo solo Buckley e io.
All’alba del giorno dopo io, mia madre e mio fratello fummo svegliati dalle sirene della Polizia e dell’ambulanza. Mamma mi mandò a chiamare papà, ma nello studio lui non c’era. Quando tornai a dirglielo lei non mi lasciò uscire a cercarlo: per di più Buckley era spaventato, e io lo presi tra le braccia cercando di calmarlo.
Mia madre non sembrava intenzionata a fare nulla: si limitò a rimandarmi a letto. Solo poco dopo suonò il telefono, e lei borbottò poche parole e poi afferrò l’impermeabile e uscì in fretta. Io rimasi sola, il mio fratellino aggrappato a me, senza sapere che fare.
Ma mi ripresi in fretta. Telefonai alla mamma di Nate e la pregai di venire a prendere Buckley, cosa che lei fece in un’ora. Poi chiamai Hal, il fratello di Samuel, e mi feci accompagnare all’ospedale.
Mamma non c’era quando entrai nella stanza di papà. Ma io pregai Hal di avvertirla che ero lì, e poi sedetti sul letto. Mi addormentai, la mano in quella di mio padre.
Papà aveva un ginocchio rotto, ma gli fu ricostruito e anche se la riabilitazione sarebbe stata lunga, poteva dirsi che stava benone. Il difficile per me non fu quello, ma tutto il dopo, ossia il rientro a scuola. Il fatto che mio padre era uscito con la mazza da baseball in piena notte ed era stato picchiato da Brian, il ragazzo di Clarissa, si era ovviamente risaputo: e così ero diventata anche la figlia del matto. Ma potevo ancora reggere.
Il tempo passava. Mi ero tenuta in contatto con la nonna e lei mi aveva passato tutti i suoi consigli di bellezza, che funzionavano piuttosto bene. E a novembre, con papà ormai quasi del tutto ristabilito, mi accingevo per la prima volta a depilarmi le gambe.
Mi sorprese proprio papà quella prima volta, mentre stava giocando con Buckley. E, cogliendo l’occasione mandò in stanza il mio fratellino e mi prese una lama nuova per il suo rasoio. E parlammo.
Mi disse per la prima volta di George Harvey, parlandomi dettagliatamente dei suoi sospetti. Mi parlò come se io fossi un’adulta. E fu lì che mi venne l’idea.
Nei giorni seguenti, mentre facevo il solito giro con i ragazzi e Samuel davanti mi faceva l’andatura tenni d’occhio la casa del signor Harvey. Passò però una settimana, prima che decidessi di passare all’azione.
Non fu difficile entrare in quella casa, perché feci in modo da rimanere indietro rispetto ai miei compagni e in giro non c’era nessuno. Avevo paura, e sapevo di stare commettendo un reato, ma lo stavo facendo per mio padre. Perché lui aveva bisogno di qualcuno che gli credesse.
Ma in quei minuti trascorsi in quella casa si fecero strada in me i ricordi. Susie e io eravamo state sorelle per tredici anni, eravamo cresciute insieme, e lei era sempre stata avanti a me in tante cose: ma adesso, nonostante la rivalità che era sempre esistita, mi mancava e in tutto. Mi mancava il giocare con lei alla tomba del soldato sotto la lapide fatta col carboncino. Mi mancava anche invidiarla per i vestiti che riceveva per prima. Mi mancava il classico, infantile “Perché lei sì e io no?“. Mi mancava l’essere sua sorella.
Frugai in tutta la casa, senza sapere cosa stessi cercando, finché salii al piano di sopra e capitai nella stanza di Harvey. Trovai un blocco da disegno, e lì, ultimo foglio, c’era lo schizzo di una buca scavata nel terreno. Sotto c’era scarabocchiato il nome del campo di granturco.
Non so ancora bene il perché, ma pensai di avere in mano l’indizio giusto, così strappai il foglio, proprio mentre il signor Harvey rientrava a casa. Evidentemente mi sentì, perché lo sentii salire le scale e riuscii a fuggire dalla finestra appena in tempo, prima che mi prendesse.
Quando rientrai a casa ero sporca e lacera, piena di graffi e zoppicavo per via del salto dalla finestra. Avrei potuto farmi male, ma in quel momento avevo pensato solo a fuggire. In mano avevo la pallottola di carta del disegno.
Mamma era sconvolta, e potevo immaginare il perché. C’era anche Samuel, e papà che sembrava più vecchio e stanco che mai. Non mi chiese nulla, ma parlai io. Dissi quello che avevo fatto e gli diedi il disegno. Dissi anche che pensavo mi avesse vista.
Soltanto pochi giorni dopo sparì, misteriosamente, e non ne sapemmo più nulla. La casa ebbe dei nuovi proprietari. E l’omicidio di mia sorella rimase impunito.
La sera del 6 dicembre 1974, ossia un anno esatto dopo la sparizione di Susie, ero in casa con la mamma e Buckley. Lei leggeva sulla poltrona, io ero alla finestra e Buckley giocava al piano di sopra. Fui io a notare movimento nel campo di granturco, ma quando informai la mamma lei si dimostrò indifferente. Disse però di avvertire papà, quando fosse tornato.
Prima che lui arrivasse però io tentai di parlare con mia madre. Ma lei non sembrò aperta al dialogo. Disse che era una cosa inutile quella cerimonia per Susie, perché di certo lei non era lì fuori ad aspettarci. E io, nel tentativo di capirla un po’ meglio, le feci la domanda diretta. Le chiesi se stava pensando di lasciarci.
Forse allora non ne ero totalmente consapevole, ma adesso sono certa che già allora mi stava mentendo dicendomi di no. Comunque, così fu.
Quando papà tornò a casa andai ad avvisarlo, e questa volta non volli che Buckley fosse tagliato fuori. Così andammo al campo, lasciando a casa la mamma.
Fu molto bello, toccante: lo ricordo ancora chiaramente. Nulla a che vedere con la messa in suffragio. Non che quella non fosse sincera, ma questa cosa spontanea, tutte queste persone che avevano amato Susie, che si stringevano intorno ad una famiglia spezzata, devastata dal dolore… mi piace pensare che anche mia sorella abbia visto tutto, dove era, e che ne sia stata felice. Felice che dopotutto la gente non l’avesse dimenticata.
Era l’estate del 1975 quando la mamma partì. Disse che avrebbe fatto un weekend di vacanza, sola, naturalmente, nella casetta che mio nonno possedeva nel New Hampshire. Ma il weekend, ed era forse prevedibile, divenne un mese, poi due, finché fu chiaro che non sarebbe tornata.
I nostri vicini erano fantastici con noi. Spesso trovavamo dei dolci sulla porta di casa, a volte un ciambellone, spesso la torta di mele della madre di Ray Singh, che era una meraviglia. E nonna Lynn decise di venire a stare da noi.
Verso la fine dell’anno decisi di andare alla Polizia, a verificare cosa stessero combinando e se stessero ancora seguendo qualche pista - cosa di cui dubitavo molto. Ci andai con Hal, ma mentre aspettavo di parlare con Len Fenerman, notai qualcosa di familiare sulla sua scrivania.
La sciarpa rosso cina di mia madre.
Credo che la consapevolezza per me arrivò tutta in quel momento, mentre furiosa chiedevo a Len perché aveva un indumento di mia madre. Adesso capivo le sue stranezze, e anche il suo desiderio di allontanarsi da noi. Naturalmente non chiesi mai alla mamma se aveva avuto una relazione con Len, ma non ne ho mai dubitato.
Nella primavera del ‘76 Buckley diede corpo ad un progetto che aveva sempre accarezzato con Susie: costruire un fortino. Lei non c’era, naturalmente, e papà non se la sentiva di aiutarlo, ma lo facemmo Samuel, Hal e io. Hal gli trovò una lamiera per il tetto, e mio fratello, che aveva ormai sette anni, ebbe il suo rifugio per leggere i fumetti e stare per conto suo.
Intanto nostra madre aveva iniziato a viaggiare fra uno Stato e l’altro, mandandoci spesso cartoline e telefonando ogni tanto. Per papà non era facile parlare con lei, così le loro conversazioni erano brevi e piene di imbarazzo, e avevano praticamente come unico argomento Buckley e me. L’unica cosa che ancora li accomunava: i figli che avevano avuto insieme.
E finalmente Samuel e io ci diplomammo, insieme come avevamo affrontato tutti quegli anni. Spesso giravamo in due sulla sua moto, tutti e due vestiti di pelle, con lo stesso corto taglio di capelli. Stavamo insieme da così tanti anni che ormai eravamo in simbiosi: ciò che faceva l’uno, faceva anche l’altro. Eppure eravamo anche due persone distinte. Come, non so.
Nel pomeriggio del giorno del diploma tornavamo a casa, in moto, appunto. Ma faceva scuro, per di più cominciò a piovere, e anche forte, tanto che fummo costretti a fermarci. Parcheggiammo la moto sotto gli alberi, e poi cercammo un riparo.
Sapevo che mio padre si sarebbe preoccupato, ma non era prudente proseguire con quel tempo. E trovammo rifugio in una vecchia casa vittoriana, che cadeva a pezzi ma era perfetta per quella notte, essendo solida e robusta.
Fu qui che Samuel mi chiese di sposarlo.
Prima di questo, prima cioè che facessimo l’amore in quella che sarebbe diventata la nostra casa, lui disse che “sentiva” che quella casa aveva bisogno di lui. E adesso sono certa che il suo non fosse un semplice desiderio, ma molto di più.
I fulmini erano cessati dopo la sua proposta, e allora decidemmo di tornare a casa a piedi. Pioveva ancora, ma era giugno. Così noi ci togliemmo le tute di pelle, rimanendo in maglietta e biancheria, e corremmo fino a casa mia. Con lui davanti a me a farmi l’andatura, come aveva fatto per tutti quegli anni.
Come avevo pensato papà era in ansia, ma il vederci sani e salvi - anche se fradici e sporchi di fango, e praticamente senza vestiti addosso - gli fece dimenticare ogni altra cosa, strappandogli anche una risata. E poco dopo, avvolti nelle coperte, vicino al fuoco e circondati dall’amore della mia famiglia, annunciammo che ci saremmo sposati.
Papà era felice.
In quel periodo Buckley trovò una nuova occupazione che gli riempiva le giornate e lo rendeva felice. Rimise su l’orto che la mamma aveva abbandonato.
La nonna gli dava molti consigli, ma lui preferiva fare da solo e provare ogni esperienza per conto suo. Anche Hal lo incoraggiava, ed era per lui un fratello maggiore come Samuel. Questo mi rendeva felice.
Ma un brutto giorno la nonna chiamò me e Samuel per dirci che papà aveva avuto un infarto. Non seppi mai cosa fosse successo di preciso: solo che stava discutendo con Buckley, e forse era stato questo a far cedere il suo cuore. Ma mio fratello mantenne sempre il completo silenzio, che poteva essere anche solo senso di colpa.
Fu sempre la nonna a telefonare a mamma, che partì subito. Andammo a prenderla all’aeroporto Buckley, Samuel e io.
Non ero certa di poter prevedere le reazioni di mio fratello, che aveva tredici anni - l’età che avevo io quando Susie era stata uccisa. Ma potevo immaginarle: aveva “perso” sua madre quando aveva più bisogno di lei, nell’età in cui si è ancora dipendenti dalla mamma. Nessuno di noi aveva saputo dargli una spiegazione sufficiente, e lei per prima non lo aveva fatto. Così adesso Buckley aveva molto rancore verso di lei, com’era ovvio. E non credo che nemmeno la mamma si aspettasse di essere accolta a braccia aperte.
Comunque nemmeno per me fu semplice. L’imbarazzo era grande, e nemmeno Samuel riuscì a dissiparlo del tutto. Così il tragitto verso l’ospedale si svolse praticamente in silenzio.
Papà venne tenuto solo per qualche giorno, ma si rimise in fretta e lo riportammo a casa. Mamma venne con noi, anche se non fece alcuna promessa né specificò quanto sarebbe rimasta. Ma forse questa volta era un bene, almeno non avrebbe mentito a nessuno.
Hal regalò a Buckley una batteria per il suo compleanno. Era il regalo perfetto per lui, soprattutto in quel momento. Certo, meno piacevole era per noi starlo a sentire.
Cenammo tutti insieme, e si unirono a noi anche Ray, sua madre e Ruth, venuti a portare la solita torta di mele. E parlando scoprimmo che la casa vittoriana di cui Samuel si era innamorato apparteneva proprio al padre di Ruth. Che lui stava giusto cercando un giovane che lavorasse con lui, e che accettava di vendercela e anche di aiutarci a rimetterla a nuovo. Se Samuel avesse accettato di lavorare nella sua azienda di ristrutturazioni.
Così la nostra vita era assicurata. Samuel e io ci sposammo, e la mamma rimase a casa con papà e Buckley. Sfortunatamente la nonna venne a mancare poco dopo, e chissà se lei e Susie si sono incontrate. Mi piace pensare di sì.
Ma non era finita, perché non passò molto tempo prima che io rimanessi incinta. La nostra Susie nacque in primavera, e Samuel e io pensavamo di prendere un cane che potesse crescere insieme a lei, come eravamo cresciuti noi con Holiday. La nostra casa era perfetta e il nostro giardino cresceva. Era la vita che sognavamo.
Se mi chiedo che rapporto avrei avuto con mia sorella, se lei fosse qui? Me lo chiedo spesso. Molto più di quanto mi chieda dove sia il suo corpo, e dove sia nascosto il suo assassino. Sono certa che sarebbe stata una zia formidabile, e che avrebbe insegnato molto a mia figlia.
Ma più di tutto mi manca averla come sorella. Gli anni passati sono tanti, purtroppo tanti altri bambini e ragazzi scompaiono e vengono ritrovati dopo anni, oppure non vengono ritrovati affatto. Purtroppo spesso i responsabili la fanno franca. Ma il mondo è duro, e io adesso posso credere soltanto che mia sorella sia in un posto migliore di questo, dove nessuno potrà più farle del male. E spero che ogni tanto pensi a noi come noi pensiamo a lei.
Ora sono felice. La scomparsa di mia sorella è un vuoto enorme, e certo nessuno potrà mai colmarlo, ma l’amore della mia famiglia mi aiuta e mi sostiene ogni giorno. E anche se può sembrare assurdo, spesso nel sorriso della mia bambina rivedo “le stelle che esplodono”, che caratterizzavano quello di Susie. Spero che le somigli molto. E spero che lei se ne prenda cura, da dov’è.
Ti voglio bene, Susie.

Sera…
nuovo capitolo, questa volta dedicato a Lindsey. Spero non appaia troppo scontato, e naturalmente… hope u like it!
Raven85
  
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