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Autore: Redviper    21/06/2008    0 recensioni
Il ritorno di una dea dimenticata da secoli è il preludio a grandi sconvolgimenti per il regno di Valdania. Ikar riceve una sacra missione dalla dea: riunificare sotto un'unica bandiera i popoli delle Valli Dimenticate, rimasti isolati per secoli dopo un terribile Cataclisma e prepararsi ad una guerra che cambierà la faccia del mondo.
Genere: Drammatico, Fantasy, Sovrannaturale | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Tre cavalieri galoppavano nella notte estiva fra i boschi che circondano Steelhaven. La luna nuova era una macchia più scura nel cielo nero trapunto di stelle e un delicato vento faceva stormire le fronde degli alberi. I cavalieri procedevano spediti, due più arretrati e il terzo da solo davanti, che li distanziava di un po’ e di tanto in tanto si voltava a dire ai suoi compagni di sbrigarsi.

Su un corsiero baio grassoccio cavalcava un uomo piuttosto in là con gli anni, dai capelli grigi e il volto rugoso, infagottato in ampie vesti bianche su cui erano ricamate numerose bilance dorate. Il suo viso era atteggiato ad un’espressione pervasa di preoccupazione e disappunto, come se la cavalcata notturna gli fosse assolutamente sgradita. Poco più avanti, privo di questi tetri pensieri, veniva un giovane cavaliere dai capelli scuri che portava al fianco una spada decorata, elegante nei suoi abiti verde foresta. Infine, qualche decina di metri più avanti, in sella ad un grande stallone nero come il peccato, stava un uomo alto e imponente, completamente vestito di nero. La sua pelle era bianca come il marmo e I suoi capelli candidi e lunghi fino alla vita splendevano di un vago chiarore alla luce delle stelle.

L’uomo fermò la sua cavalcatura e apostrofò I suoi compagni in tono impaziente. “Allora, signori miei, vi volete sbrigare?” “Il cavallo di monsignor Reginald non riesce a reggere il ritmo del vostro Tenebra, mio signore, - rispose il giovane cavaliere – ed io non me la sento di lasciarlo indietro.”

Sul volto del cavaliere in nero, un volto dai lineamenti virili in cui fiammeggiavano grandi occhi rossi, si dipinse un’espressione di intenso disappunto. “Bene, cugino Aubrey, allora andrò avanti da solo e vi aspetterò allo stagno. Sai bene che non intendo aspettare un momento più di quanto sia strettamente necessario.”
Il tono con cui queste parole erano state pronunciate non ammetteva repliche ma ser Aubrey protestò lo stesso. “Cugino Ikar, capisco la tua ansia, ma non mi sembra il caso di cavalcare da solo la notte, senza alcuna scorta.”

Ikar sbuffò. “Non mi serve una scorta. Siamo ancora sulle mie terre, non c’è nulla da temere. E poi, in ogni caso, so come difendermi.” dichiarò battendo una mano sull’elsa della pesante spada che portava al fianco.

Aubrey alzò gli occhi al cielo, sconsolato. Spesso con Ikar era impossibile ragionare. Adesso era deciso ad andare da solo per fare più in fretta e nulla avrebbe potuto fargli cambiare idea.
“D’accordo cugino. – cedette – Ti raggiungeremo allo Stagno appena possibile. Fai attenzione e, se dovessi avere problemi usa questo.” disse, porgendo al cugino un corno da caccia decorato.

Ikar rise e ringraziò il cugino, poi spronò Tenebra e sparì al galoppo nella notte.

Era nervoso, ma anche felice, come non lo era mai stato negli ultimi cinque anni. Fra poco l’avrebbe rivista e finalmente avrebbero potuto sposarsi.

La prima cosa che aveva fatto quando suo padre era morto e il titolo di conte di Steelhaven era passato a lui, era stata scriverle una lunga lettera appassionata. Pensava che lei non gli avrebbe nemmeno risposto, dopo cinque anni, ma si era sbagliato. Aveva letto e riletto la lettera della sua amata, si era risollevato, perché lei lo amava ancora e non aveva mai smesso di amarlo, e si era infuriato, perché lei aveva detto di avergli scritto fiumi di lettere in quei cinque anni e lui non ne aveva ricevuta nessuna. Doveva essere stata opera di suo padre e di suo fratello.

Quei maledetti.

Le aveva mandato un’altra lettera, chiedendole di sposarlo e lei aveva acconsentito. Quando aveva ricevuto la risposta credeva di morire per la troppa felicità.

In qualche modo suo fratello Sebastian era venuto a sapere della faccenda e gli aveva fatto una visita molto scortese nei suoi appartamenti.
Ikar aveva speso la mattinata in sala d’arme a duellare con ser Maximilian per allenarsi ed era appena uscito dal bagno quando Sebastian aveva fatto irruzione in camera sua.

“Come puoi pensare di fare una cosa del genere, Ikar?” aveva strillato Sebastian.
Ikar, seduto alla scrivania in vesti da camera, lo aveva fissato con aria sbalordita da tanta maleducazione, poi aveva detto in tono gelido “Si bussa prima di entrare di norma, fratellino. Cos’è che ti turba tanto da farti scordare le basilari regole dell’educazione?”

Sebastian era diventato rosso come un pomodoro e aveva imprecato sottovoce, poi aveva ricominciato a strillargli contro. “Non cambiare argomento, sai!! Lo sai benissimo a cosa mi riferisco: al tuo progetto di sposare quella sgualdrina nordica!”

Ikar si era alzato di scatto dalla scrivania e si era avvicinato minacciosamente al fratello, molto più basso e minuto di lui. “Non osare mai più chiamarla così, hai capito? – aveva sibilato, stringendo convulsamente i pugni e piazzandone uno sotto il naso di Sebastian – Yana non è una sgualdrina. È il capitano della Guardia di Kerak, un soldato del Re. Abbi rispetto per chi è migliore di te.”

Sebastian era indietreggiato con cautela, (tutti a Steelhaven sapevano che Ikar poteva essere terribile se si infuriava, ma solo pochi, fra cui Sebastian, sapevano che una volta aveva ucciso due uomini a mani nude) ma aveva continuato le sue accuse. “Meglio di me? Hai idea di quello che stai dicendo? È un’orfana, figlia di nessuno, cresciuta in un tempio. E oltretutto è un’elfa. Cosa ne dirà il re?”

Ikar lo fissò con uno sguardo gelido. “Al re non frega un accidente di chi sposano I suoi nobili, con tanto che continuino a combattere le sue guerre e riscuotere I suoi tributi. Io la sposerò, fratellino. Fine del discorso.”

Sebastian impallidì per la rabbia. “Il discorso non è finito per nulla, Ikar. Nostro padre doveva essere veramente indebolito dalla malattia per aver lasciato il titolo ad uno come te, che è capace solo di disonorare la nostra antica casata.”

Anche Ikar impallidì, per quanto questo possa apparire impossibile. “Forse – dichiarò con voce grondante di ira repressa – si era pentito di avermi chiuso in questa maledetta torre per cinque anni o forse si era stufato di un tronfio imbecille come te.” Il fratello fu sul punto di replicare ma Ikar glielo impedì. “Vattene, Sebastian. – gli ordinò – Vattene prima che faccia qualcosa di cui mi debba pentire in seguito.”

Sebastian obbedì, ma, ormai sulla porta, si voltò verso il fratello. “Farò tutto il possibile per impedirti di sposarla. Parola di Steelhaven.” Ikar gli lanciò contro un pesante volume di storia, ma il fratello era già sgusciato fuori dalla stanza.

L’atteggiamento ostile e odioso di suo fratello, unito al desiderio di stare un po’ solo con la sua amata, lontano dal castello e dai parenti malevoli, l’aveva spinto a proporre un matrimonio di sorpresa, nei boschi, e Yana aveva accettato.
Quando fossero tornati a Steelhaven sarebbero già stati marito e moglie. Sebastian avrebbe protestato, avrebbe strillato, l’avrebbe fissato con sguardi roventi, ma non avrebbe potuto fare altro.

“Ti aspetterò la prossima luna nuova, a mezzanotte, allo Stagno della Principessa. Conto I minuti che mi separano dal momento in cui potrò finalmente rivederti... A presto mia amata, mia signora, mia sposa.” le aveva scritto e insieme alla lettera aveva affidato al fidato messaggero anche un anello. Lui ne aveva uno identico all’anulare della sinistra, a significare che loro due erano già uniti nello spirito e che il matrimonio avrebbe solo ufficializzato qualcosa che già esisteva.
Monsignor Reginald era un sacerdote di Achernar , il dio della giustizia, nel cui tempio Yana era cresciuta, ed era suo buon amico. Sarebbe stato lui a officiare la cerimonia; Aubrey e un’amica di Yana sarebbero stati I testimoni e accanto al lago, fra gli alberi, c’era un vecchio capanno da caccia dove avrebbero potuto aspettare l’alba, solo loro due, per poi tornare a casa. Sarebbe stato tutto perfetto.
Non vedeva l’ora di rivederla. Era ciò che aveva atteso e sperato per cinque anni.

Tenebra galoppava come il vento e lo Stagno non era lontano. Ikar sentiva che il cuore gli balzava in petto per la felicità e l’aspettativa.

Alcune figure sbucarono dal bosco qualche decina di metri davanti a lui, bloccando la strada. Stava per fermare il cavallo per non investirle quando vide alla fioca luce delle stelle il bagliore d’acciaio di una lama.
“Ma che diavolo...?” mormorò, spingendo il cavallo ancora più veloce e sguainando la spada. “Toglietevi dalla strada!!” gridò ma nessuno si mosse.
«Ok, cavoli loro.» pensò, accingendosi a caricarli.
Piombò in mezzo a loro come un fulmine, menando fendenti a destra e a manca e riuscì a mettere fuori gioco uno o due di loro e un altro lo fece fuori Tenebra a calci, ma I rimanenti erano del tutto determinati ad accerchiarlo.
Sentì un sibilo e poi una freccia, partita da chissà dove, gli sfiorò il volto.
Quella successiva invece gli affondò nella spalla sinistra, strappandogli un grido di dolore.
Intanto gli altri aggressori cercavano di disarcionarlo, cosa che riuscirono ad ottenere maciullando le zampe di Tenebra con un’alabarda. Il grande stallone nitrì disperatamente e stramazzò al suolo.
Ikar si ritrovò a terra; era sanguinante e intontito ma stringeva ancora in pugno la spada. I nemici si stringevano intorno a lui brandendo le armi.

Non doveva finire così, non adesso che mancava così poco. Era ingiusto.
La furia lo inondò in un istante e lui la accolse come un’amica benvenuta; con il volto trasfigurato dal furore e gli occhi rossi scintillanti, Ikar sembrava un demone degli inferi venuto a distruggere e massacrare.
Non sentiva più il dolore alla spalla, non sentiva il peso della spada, voleva solo farli a pezzi.

Alcuni degli aggressori si ritrassero di fronte a lui mentre mulinava la spada e vennero comunque trucidati, altri, più esperti e più scaltri, sfruttarono l’occasione per colpirlo ai fianchi o alle spalle, ma lui, come dotato di un sesto senso, li evitò.
Infine stava combattendo da solo contro gli ultimi due aggressori, soldati esperti, forse mercenari, che cercavano di tenersi alla larga dai suoi terribili fendenti e trovare un varco nelle sue difese.
I due attaccarono contemporaneamente; Ikar parò la lama del primo con la propria e contava di schivare la seconda, ma l’impatto di un’altra freccia contro la sua schiena lo fece barcollare in avanti.
Riuscì a sentire distintamente ogni centimetro della lama che gli si conficcava nelle carni.
Il dolore per un istante fu così terribile che credette di morire sul colpo, ma un secondo dopo fu offuscato dalla furia.

In seguito non sarebbe mai riuscito a ricordare come aveva fatto, ma quando la furia lo lasciò, Ikar si ritrovò in ginocchio in mezzo alla strada fra I cadaveri.
La spada del nemico era ancora conficcata nel suo corpo e il dolore era terribile. La estrasse con uno strattone e per poco non perse conoscenza.

Il sangue scorreva copiosamente dalla profonda ferita e l’aria entrava a fatica nei polmoni.
Ikar sapeva che sarebbe morto di lì a poco, senza poterla rivedere.
Mancava così poco... Oltre quegli alberi, appena dopo, c’era lo Stagno della Principessa.
Era arrivato così vicino solo per vedersi negato il suo più grande desiderio.
“No, non può finire così.” mormorò, respirando affannosamente.

Con uno sforzo quasi sovrumano, riuscì a rimettersi in piedi e avanzò come in sogno, barcollando e gemendo mentre comprimeva la ferita con una mano per cercare di fermare l’emorragia.
Gli sembrava di aver camminato in quelle condizioni per secoli quando davanti ai suoi occhi offuscati gli alberi si aprirono per dar luogo alle acque calme dello stagno.

Esausto, Ikar stramazzò a terra sull’erba verde e profumata, troppo debole per muovere un solo muscolo, con il respiro ridotto ad un doloroso rantolo.
I suoi occhi sbarrati, fissi sul cielo terso e pieno di stelle, si riempirono di lacrime.
Non voleva morire.
Voleva rivederla, voleva sposarsi, essere felice al suo fianco, anche se solo per poco, anche solo per un attimo.
Invece sarebbe morto da solo senza poterla riabbracciare, senza poter baciare le sue labbra di corallo, senza poter sfiorare I suoi lunghi capelli d’oro e la sua pelle pallida e perfetta, senza poterla guardare nei profondi occhi blu e dirle un’ultima volta ancora che la amava più della sua stessa vita, che non avrebbe mai smesso.
Mai.

Ormai nella sua mente rivedeva I ricordi della sua vita: la prima volta che aveva preso in mano una spada nella sala d’arme del castello; quando era scappato di casa in sella al bianco Lampo, il suo cavallo preferito; Kerak e il suo grandioso forte; la prima sbronza e poi, soprattutto, Yana. La prima volta che l’aveva vista, la sua dolce voce, la sua risata... il loro primo bacio, la prima volta che avevano fatto l’amore, sul pagliericcio della prigione e come quella cella buia gli era sembrata più bella del più fantastico palazzo del più potente dei re, quella notte, e lui le aveva promesso che l’avrebbe amata per sempre.
Ricordò giorni di libertà a Kerak, I compagni della Guardia, la felicità di svegliarsi la mattina accanto alla donna amata.

Ma poi suo padre e suo fratello lo vennero a prendere per riportarlo a casa a forza.
La solitudine nella torre, per cinque anni, con l’unico conforto della vasta biblioteca di suo padre.

Lentamente, gli affiorò nella mente con singolare chiarezza una strana preghiera che aveva letto in un vecchio tomo sulla storia del regno.
Più cercava di scacciarla, più questa gli appariva sfolgorante davanti agli occhi della mente, finché si ritrovò a salmodiarla fra le lacrime con un filo di voce.

Madre delle Tenebre, Signora delle Stelle,
I tuoi occhi che risplendono di mille astri
Si volgano verso il tuo figlio che soffre.
Madre delle Tenebre, madre del mio sangue
Il tuo cuore generoso che accoglie tutti
rAbbia pietà del tuo figlio caduto.
Madre delle Tenebre, Dea delle battaglie
Il tuo braccio invincibile
Sostenga il tuo figlio sconfitto.
Non lasciare che I tuoi figli soffrano soli,
che I nemici li colpiscano e li disperdano .
Non lasciare che siano divisi.
Da’ loro forza per servirti,
da’ loro voce per lodarti,
da’ loro vita per amarti.

Più ripeteva la preghiera più la sentiva prendere forza, come se molte altre voci si fossero unite alla sua flebile, voci antiche, di uomini e donne, e l’aria stessa sembrava vibrare, sempre più intollerabilmente forte e veloce, finché Lei non apparve.

Era senza dubbio la donna più bella che Ikar avesse mai visto, ma sembrava fredda e distante come il cielo che stava fissando poco prima. La sua pelle era nera e liscia come ossidiana lucidata, il suo volto perfetto e il suo portamento regale. Era coperta solo dai suoi lunghi capelli corvini fra i quali brillavano le stelle e I suoi occhi sfolgoranti lo fissavano con compassione e curiosità.
Non poteva che essere una dea.
Era antica come il cielo, Ikar lo sentiva nel profondo della sua anima.
Così antica che forse gli uomini l'avevano dimenticata.

“Chi sei?” riuscì faticosamente a rantolare.
La dea rise e scosse la testa. “Come non lo sai, tu che mi hai chiamata, figlio dei miei figli? Io sono Ankaa, la Madre delle Tenebre, dea dei primi re di Valdania da cui tu discendi. Ero io quella che pregavi con tanto fervore poco fa.”

Ikar sgranò gli occhi sbalordito. La Dea Perduta, che non aveva più risposto alle preghiere del suo popolo dopo il cataclisma avvenuto 800 anni prima.
“Non lo sapevo... Avevo letto quella preghiera... per caso.”
“Certe cose non accadono per caso, figlio mio. Non è per caso che mi hai pregato nel tuo ultimo momento e non è per caso che io sono venuta da te.” disse Ankaa.
"Perché proprio da me, Dea? Dopo secoli di silenzio..." Ikar non riusciva a capire.
La dea si inginocchiò a terra accanto a lui e gli sfiorò la fronte con una mano stranamente fredda.
"Perchè tu sei un discendente diretto del mio prediletto Rigel... Gli assomigli tanto. - mormorò con dolcezza - E poi sei l'unico che possa farcela."
“Quanto hai amato... Quanto hai sofferto... Mi dispiace, figlio mio.” commentò con aria triste, sfiorandoglii capelli.

Nonostante la presenza della dea Ikar stava comunque morendo e lottava per trarre ogni respiro e tenere gli occhi aperti ancora un po’ ma non ce la faceva più.
“Aiutami... ti prego.” mormorò con le lacrime agli occhi.
Ankaa lo fissò con aria triste. “Non posso fare ciò che vorresti, Ikar.- disse – Non posso ridarti la vita, anche se vorrei. Il tuo destino è un altro, figlio dei miei figli.”
“Non voglio vivere... se non posso... voglio solo... rivedere Yana... un’ultima volta.” riuscì ad ansimare Ikar.
“Non ti arrendi mai, eh Ikar? – ridacchiò Ankaa – È proprio per questo che ti ho scelto fra tutti. Tu che hai tanto sofferto, tanto amato e tanto perseverato sei l’unico che può fare ciò che tutti ritengono impossibile. Tempo verrà che tu sarai la salvezza di questo paese e lo riporterai all’antica gloria. Tu vedrai scorrere I secoli e un nuovo popolo giungere alla sua nuova casa. Solo allora rivedrai la tua amata.”

“Come posso?... sto morendo.” obiettò Ikar .
Ankaa rise di nuovo e appoggiò la sua mano ultraterrena e fredda sul petto di Ikar, proprio sopra il cuore e disse “Tu morirai e non morirai. Sarai il Signore della Notte e un giorno distruggerai I nemici di Valdania, figlio dei miei figli, mio prediletto.”

Ancora frastornato da queste misteriose parole, Ikar sentì la mano della dea non più sopra il suo petto ma dentro di esso, che stringeva il suo cuore in una morsa di ghiaccio fino a fermarlo.
Con le ultime energie, gridando nell’agonia, Ikar cercò di divincolarsi ma fu tutto inutile. L’aria non entrava più nel suo petto martoriato e il freddo lo pervadeva.

Prima che l’oscurità lo inghiottisse il suo ultimo pensiero fu per Yana, la sua sposa, la sua vedova.

  
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