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Autore: miss potter    23/02/2014    3 recensioni
La cosa più grande che potrai mai imparare è amare e lasciarti amare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
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Per come se ne potesse pensare e per quanto se ne riuscisse a raccontare, Victor avrebbe per sempre avuto quella tanto inspiegabile quanto invidiabile capacità di piacere agli altri tanto quanto – se non in misura maggiore – piacesse in realtà a se stesso.
A dispetto delle apparenze, infatti, non dimostrò mai di essere un gran compagno di conversazione: parlava raramente di sé e, quando proprio non ne poteva fare a meno, la sua laconicità lo rendeva in effetti la peggiore delle compagnie che si potesse mai desiderare. I suoi interlocutori, per qualche manciata di secondi, si riducevano a comiche statue di sale col fiato sospeso nell’attesa che una frase venisse portata a termine o un concetto alla luce.
Non fraintendetemi, non mi voglio contraddire, ma credo di non aver mai incontrato, nel suo silenzioso egocentrismo, un uomo più colto e raffinato come Victor Trevor.
Come ho già anticipato, non era esattamente uno di quei barbosi gentiluomini che vivono e muoiono per la caduca fama di una sera sorseggiando liquori pregiati in vestaglia di taffetà seduti in poltrona quando non si pavoneggiano ai ricevimenti.
Nonostante la gran classe in fatto di moda e di comportamento, Victor non era un borghese. Semplicemente si notava, e senza che si sforzasse per farlo. Bastava che aprisse bocca e il mondo intero – quell’abbondante e al tempo stesso misera parte che conta, almeno – cadeva ai suoi piedi. Le sue competenze spaziavano dal campo letterario alle recenti scoperte scientifiche, dalla geopolitica alla botanica più sopraffina, dal teatro italiano alla musica tedesca, ed era indubbiamente affascinante starlo ad ascoltare mentre commentava l’ultima opera filosofica o dimostrava un’apparentemente complicata teoria matematica.
Per questo motivo, nei suoi confronti, mi sentivo costantemente immerso in un deprimente senso di inferiorità sia nel campo culturale sia, e soprattutto, in quello fisico, il che mi portò troppo spesso ad abbassare gli occhi quando invece avrei dovuto tenerli ben aperti.
Ovviamente non intendo spendere una pagina intera a disquisire di quanto molto o poco apprezzabile fosse Victor – chi sono dopotutto io per potermi permettere di giudicare? – dunque mi limiterò a fornire alcuni suoi dati biografici pervenutimi da racconti di terzi che per me ebbero sempre l’agrodolce sapore delle leggende metropolitane.
Di madre russa e padre inglese, nacque e crebbe nella remota ed umida Pietroburgo, temprato dal gelo degli infiniti inverni, dal frigido calore delle brevi estati e dal denso fumo delle periferie in una città scostante e crudele come una matrigna, prossima ma terribilmente distante.
All’età di sedici anni, dopo la morte del padre in un attentato del movimento terrorista Terra e Libertà, si trasferì a Mosca con la madre e la sorella dove iniziò, senza poterli concludere, gli studi di letteratura pagati con quasi tutta l’eredità del padre.
Alla morte dello zar Alessandro e l’incoronazione di Nicola, nel 1894, si dice che con i pochi soldi rimasti loro la famiglia riuscì ad espatriare e a raggiungere Berlino dove trovò lavoro come bibliotecario, imparò il tedesco e la madre morì di tisi.
Lavorò come uno schiavo, giorno e notte, catalogando e copiando, archiviando e recensendo libri per pagare gli studi alla sorella e concedersi una vita dignitosa ma, soprattutto, per non permettere all’indigenza di fargli appassire la più grande tra le sue innumerevoli doti: l’intelligenza.
S’appassionò della filosofia tedesca, della poesia italiana e della prosa francese, tre discipline che al pari di tre muse ispiratrici lo spinsero a costruirsi un’immensa cultura, mattone dopo mattone, e che più avanti lo portò ad interessarsi anche di materie scientifiche, quali fisica e biologia.
La sorella, mi pare di ricordare, riuscì a sposarsi. Alcuni dicono con un diplomatico, altri con un maestro elementare, altri ancora giurano di averla vista battere per le strade di Firenze. Ma Victor… No, lui non avrebbe mai potuto finire in miseria, a lavorare in qualche polveroso buco magari, sommerso da carte e debiti, morendo nel silenzio come un topo avvelenato dai rimorsi. Era troppo sveglio per invecchiare nell’anonimato di una città che gli ricordava troppo Pietroburgo: lo spaventava la burocrazia e il gelo, soprattutto quello ben più duro da sciogliere albergante nel cuore della gente, ed ecco forse il motivo che lo spinse, un paio d’anni prima della rivoluzione bohémienne, di spendere finalmente il denaro messo da parte e ripartire alla volta del cuore pulsante dell’Europa moderna e cosiddetta “civilizzata”: Parigi.
A questo punto della storia, o il ballerino argentino doveva essere svenuto o Toulouse aver vomitato perché la narrazione si era brutalmente conclusa lasciandomi col bicchiere e il fiato sospesi, cosa che non sembrò dispiacere affatto al diretto interessato.
Seduto a gambe accavallate nella penombra, per tutto il tempo non aveva fatto altro che alternare un sospiro a un mezzo sorriso, scuotendo il capo di tanto in tanto con lo sguardo di ghiaccio cristallizzato su un punto indefinito della stanza.
Non seppi mai la seconda ma fondamentale parte di quel libro abbandonato alla polvere e all’oblio, uno di quelli che di uguali se ne vede tanti, troppi, dalla copertina lucida ed elegante ma dalle pagine consunte, alcune strappate, altre totalmente bianche e altre ancora scritte così fittamente e con un inchiostro così nero e pesante da essere illeggibili.
Quella sera, se ne stette lì, immobile come una pietra, gli occhi traslucidi e distanti fissi sulla finestra, una sigaretta spenta tra le dita di una mano e un bicchiere nell’altra mentre ci ascoltava parlare di niente aspettando che il crepuscolo calasse e che lasciasse spazio al drappo nero della notte.
Venni distratto da quell’ovattata contemplazione dall’improvviso ricordo del mio appuntamento.
«Santo Cielo!» esclamai balzando in piedi. «Che ore sono?»
«Sette e cinquantaquattro» rispose Victor, lesto e conciso.
«Come fai ad esserne così sicuro?» singhiozzò Toulouse squadrandolo. «Non hai neanche guardato l’orologio.»
«Non ce l’ho, infatti.»
«E dunque come fai a sapere che sono le sette e cinquantaquattro?» incalzò Erik.
«Cinquantaquattro e trentatre secondi, ora.»
«Victor!» urlò l’argentino.
«Non t’agitare, Pablo, che poi il neo dottore si sente a disagio.»
Ora, come diavolo facesse a sapere che ero medico proprio non lo seppi dire, ma di una cosa ero certo: non serviva che il narcolettico svenisse di nuovo per sentirmi fuori posto.
«Vo-voi come lo sapete?» balbettai aggrottando la fronte.
Mi guardò, apatico e freddo come un pesce.
«Che sono le otto meno cinque o che siete medico?»
«Entrambe le cose, suppongo.»
«Per quanto riguarda la prima,» sospirò annoiato indicando con un rapido gesto del mento la finestra «le pale del mulino. Per la seconda, la tasca del vostro cappotto.»
«Le pale… La tasca…»
Questa volta il sospirò fu più pesante.
«D’inverno le pale del mulino s’illuminano sempre verso le sei e mezza e questa sera, tornato dalla mia consueta passeggiata, le lampadine si sono accese nel momento esatto in cui ho varcato la porta di casa. Ora di salire le scale, farmi un bagno, vestirmi e fumare una sigaretta è passata poco meno di un’ora, dunque sono pressappoco le sette e venti. La vecchia ha sbraitato in seguito all’ennesima volta che quel maledetto orologio a cucù invece di suonare cade rovinosamente dalla tromba delle scale e Toulouse cerca di prenderlo al volo, fallendo miseramente. Dunque boato, vecchia che strilla, Toulouse che impreca: sono le sette e mezza spaccate.»
«Non succede ogni sera» cercò di rassicurarmi il piccolo pittore battendomi una manina sul braccio.
«Solo quelle che prevedono l’arrivo di un nuovo inquilino, quando cioè si cerca di rendere leggermente più decoroso e funzionale questo posto. Per concludere, la storia della mia vita raccontata dai signori qui presenti impiega sempre una ventina di minuti per essere inventata, eccezion fatta per alcune variabili come le dovute formalità. La nostra presentazione, dottore, quattro minuti circa. Sì, li ho contati e, vi prego, non travisate le mie buone intenzioni ma ho sempre avuto in odio i convenevoli. Sette e cinquantaquattro.»
Quell’irrefrenabile flusso di parole si spense come un sigaro lasciato ad annegare in un bicchiere e, tempo di riprendere fiato, Victor Trevor aveva cominciato a fissarmi da dietro il vetro del suo, sorseggiando come se niente fosse il suo drink.
«Chiudi la bocca, John» disse Erik. «Non vorrai per caso apparire come una puttana bell’e pronta a-»
«Per quanto riguarda la seconda faccenda, quella riguardante la sua qualifica,» riprese subitamente Victor «la padrona di casa mi ha comunicato che il nuovo inquilino, medico londinese, era arrivato. Non è stato difficile.»
«E il mio cappotto che ruolo avrebbe in tutto ciò?»
«In stazione oggi pomeriggio, quando avete preso i guanti dalla tasca, vi è caduta questa» disse e si alzò, traendo qualcosa fuori dal taschino del gilet e allungandomela: era una delle foglie d’alloro della mia corona che tenevo come ricordo dal giorno della laurea.
«Ecco dove vi avevo già visto» risposi in un sorriso, questa volta ricambiato, stringendo la foglia tra le dita. «Grazie nuovamente.»
«Non è ancora secca», continuò «dunque dovete esservi laureato da poco.»
Detto questo, incrociò le mani dietro la schiena e stette a guardarmi dall’altro in basso, quasi s’aspettasse qualcosa di più, qualcosa di meglio di un semplice ringraziamento.
«Come fate?» chiesi dunque.
«Prego?»
«Come… riuscite a leggere le persone come fossero libri aperti?»
Mi guardò, io guardai lui, e giurai che, in quel frammento di tempo in cui i nostri sguardi s’incontrarono, in fondo a quegli occhi così profondi e malinconici, potei scorgere l’ombra di un pensiero scomodo.
«Le persone sono libri aperti, John – posso chiamarvi John, vero? – alcune ancora da scrivere, altre buone solo da leggiucchiare in una notte, quando si vuole trovare un’alternativa al sonno, altre ancora da dimenticare nello scaffale più alto della più remota biblioteca. Ma alcune… Alcune meritano davvero di essere sfogliate, pagina dopo pagina. E la cosa più frustrante di tutte sapete qual è? È la consapevolezza che per quanto le si abbia studiate, riga dopo riga, nota dopo nota, si arriva alla fine chiedendosi se quella sia davvero la fine, sospesi nella speranza che ci si trovi solamente alla conclusione dell’ennesimo capitolo al quale seguiranno tanti altri pronti a spiegare ciò che non abbiamo compreso. Spesso invece finisce e basta, senza tante spiegazioni né note, e ti ritrovi tra le mani niente più che un ammasso di carta stampata che ti ha detto tutto come niente lasciandoti con più domande che risposte, e gli occhi che bruciano.»
Quel pensiero, galleggiante nelle enormi pupille, doveva starci davvero scomodo là dentro, perché ne uscì un po’ da un angolo di un occhio, ma allora non ci feci più di tanto caso.
Ora che ci ripenso, non credo di aver mai visto un uomo più fragile di quello che mi stava dinnanzi quella sera, apparentemente tutto d’un pezzo ma con così tante crepe che mi viene ancora da maledire colui il quale un giorno lo ruppe definitivamente. Se ne fossi capace, almeno, di odiare costui più di quanto non odi me stesso per essermi lasciato rompere anch’io.

L’odore intenso della colonia francese di Mike si avvertì fino al piano di sopra quando il cucù – mi chiedo ancora come – riuscì a gracchiare le otto spaccate dal suo mucchietto di legno e molle prima di spegnersi definitivamente in un cigolio di ingranaggi arrugginiti.
Io portavo addosso ancora i vestiti della mattina, impregnati dall’olezzo del treno mescolatosi ora di sera con l’aroma intenso del tabacco, dell’assenzio e della naftalina.
«Giusto Cielo» esclamò il mio amico lisciandosi il risvolto in velours della giacca «non ti avevo detto di farti bello?»
«Ma io sono già bello!» risposi – lo ammetto, già leggermente alticcio – facendo una piroetta sul posto.
Mi venne il singhiozzo e non fui in grado di rispondere al fiume di domande che mi riversò addosso, tutte più o meno inerenti agli inquilini, alla loro integrità mentale e, soprattutto, alla mia.
«Sto bene, Mike. Davvero» tagliai corto, ma il sorriso sornione che dovevo aver stampato in faccia in quel momento non sembrò convincerlo del tutto. Tuttavia, riuscii a persuaderlo a salire e venire a conoscere i miei nuovi compagni.
Restò particolarmente colpito da Victor il quale, ovviamente, ricambiò appena il saluto e lo sguardo.
«E i signori che programmi hanno per stasera?» chiese Mike, di natura essenzialmente affabile.
«Personalmente» si fece avanti Toulouse «pensavo di restare in casa a rimuginare su quanto miserabile sia la mia vita, magari in compagnia di un paio di amabili lorettes(1) e qualche bottiglia di vino. Tuttavia, non vedendo all’orizzonte né le une ne le altre, immagino che sarebbe carino se andassimo tutti a farci un bel sonnellino.»
«Un sonnellino? Ma la notte è giovane!» protestò il ballerino, ed accennò qualche passo di tango.
«Io non più» ribatté il nano con un grugnito.
«C’è un concerto al Moulin Rouge.»
Ci voltammo tutti verso l’angolo più buio della stanza, silenziosi e tesi come statue: Victor tirò un ultima boccata dalla sigaretta prima di spegnerla sul fondo del suo bicchiere e poggiarlo sul tavolino. Lo circondò una nuvola di fumo densa e acre, avvolgendolo in un’aura infernale dalla quale emergeva solo uno sguardo mesto e semitrasparente di un’anima in pena che si rifletteva costantemente sui vetri opachi di quell’unica finestra sulla strada.
Non compresi inizialmente la gravità che opprimeva l’atmosfera come l’afa di un umido e tedioso pomeriggio d’estate, e non potei fare altro se non alternare lo sguardo tra tutti i presenti.
«Non si dicono le bugie, Vic» mormorò a un certo punto Toulouse.
Il trucco gli si era leggermente sbavato intorno agli occhi ed ora sembrava che indossasse un’inquietante maschera teatrale, pallido e immobile come un cadavere.
«Pardon?» chiese il russo, brusco.
«Non doveva essere domani?» sussurrò il pianista con la voce tremula.
«Io avevo capito mercoledì» aggiunse Pablo.
Victor s’adombrò.
«È stasera, vi dico» tagliò corto e s’accese un’altra sigaretta, aspirando profondamente. Poi spostò gli occhi su di me, addolcendosi. «Vi piace Mendelssohn, dottore?»
Mi sentii gelare il sangue nelle vene: mio padre era un grande stimatore della musica classica, soprattutto italiana, ma io non avevo mai sviluppato l’orecchio per certe cose. Le reputavo troppo impegnative, troppo intime, troppo… Semplicemente troppo, per me.
Mi trovai così costretto a mentire.
«Molto.»
E lui mi sorrise, mesto.
«Neanche a me» sospirò. «Tuttavia, ritengo valga la pena fare un’eccezione stasera. Solo per stasera.»
Sobbalzammo tutti quanti quando Erik premette con forza sul DO del suo pianoforte, gemendo. Era più che altro un piagnucolio, il suo, che durò tanto quanto la nota accompagnandola fino alla sua fine come un lamento funebre.
«Non va bene, Vic, non va bene» mugolò l’omuncolo, lo sguardo smarrito sulla tastiera. «Sei andato alla stazione, non è così?»
«Faresti meglio a frenare la lingua, musicante.»
«Sei andato alla stazione e hai riportato a Parigi la sua musica.»
Il ragazzo rise basso, ma non c’era alcuna allegria in lui. In effetti, sembrava che la felicità stessa l’avesse per un attimo sfiorato prima di mollargli uno schiaffo e passare oltre, lasciandolo carponi al suolo col cuore spezzato.
«Sei ubriaco.»
«E tu sei un folle. Folle d’amore per uno spartito che detesti, e stai continuando a farti del male.»
Victor tirò forte dalla sigaretta chiudendo gli occhi, ed esalò la sua risposta insieme all’ennesima nuvola cinerina che si disperse nell’aria insieme a tutte quelle domande che avrei voluto porgli e che non ebbi mai il coraggio di fargli.
«Non si può mai pagare troppo cara una qualsiasi sensazione(2). E questa sera mi ispira Mendelssohn.»
Il pianista abbassò la copertura della tastiera e la sua espressione smunta si sciolse in un pallido sorriso addolorato.
«Ti ispira sempre, Mendelssohn» concluse.
«Curioso!» trillò Mike. «Quel tipo di musica non si addice propriamente al luogo, non so se mi spiego…»
Victor fulminò il mio amico con lo sguardo e mi tremarono i polsi per lui; ma, alla fin fine, Mike dovette capire l’antifona perché il suo atteggiamento verso quel particolare programma serale cambiò radicalmente.
«A pensarci bene» continuò schiarendosi la voce «potrebbe rivelarsi interessante. Non trovi, John?»
Mi stropicciai le dita, intrecciate dietro la schiena, e mi umettai le labbra – vizio che si presenta ogni qualvolta che mi trovo in una situazione come quella di allora – oppresso dall’imbarazzo e dalla perplessità. Ma, dopotutto, perché non avrebbe dovuto fare per me, questo Mendelssohn?
«Perché no?»
Perché no.

Il tempo di capire dove fosse la mia stanza, di sistemare le mie cose e di rendermi quanto meno presentabile – anche se avevo quasi da subito cominciato ad intuire che non sarebbe stato proprio un locale d’alta classe quello in cui avremmo passato la serata – ci ritrovammo tutti quanti in piazza Pigalle, una allegra e giovane comitiva che non passò di certo inosservata.
A Victor bastò qualche parola scambiata coi sorveglianti affinché, in un batter d’occhio, ci ritrovassimo tutti nell’anticamera di un mondo che fuori da Parigi non credo si possa trovare. O forse mi trovavo semplicemente catapultato in un sogno, lo stesso che accompagnò Dante nel suo cammino verso la perdizione nel mezzo del cammino della sua vita. Solo che la mia, al contrario, non era che all’inizio, proprio sul ciglio di quel mio personale Inferno oltre il quale, a differenza del poeta, non avrei trovato né un Virgilio che mi ci guidasse, né un Purgatorio, né tantomeno un Paradiso dove riposare. Solo anime condannate alle quali si sarebbe aggiunta la mia, fine della storia.
Lasciai ogni speranza quando entrai sorpassando il manifesto ancora caldo di stampa e la colla lucida che vi colava dai bordi. Vi era rappresentata la stella che avrebbe illuminato per una notte la nostra sera: una ballerina, giovanissima e dai folti capelli rossi, sorridente e circondata da lugubri sagome scure con le fauci spalancate e gli artigli protesi verso i vaporosi pizzi della sua gonna, nera anch’essa e sollevata a scoprire i bianchi polpacci sottili.
«Satine» mi suggerì Toulouse prendendomi a gomitate un fianco. «La più richiesta.»
Arrossii di colpo come un bambino colto con le dita nel barattolo di marmellata.
«Credo di non avere abbastanza denaro neanche per regalarle un mazzo di rose» mormorai imbarazzato.
La compagnia esplose in una sonora risata che finì per contagiare anche me: sapevo di essere completamente fuori posto ma l’assenzio mischiato alle fragranze che addolcivano l’atmosfera calda del locale sembravano infondermi uno strano coraggio.
Solo Victor, terribilmente serioso, si limitò a reagire con un pacato sorriso distratto. Gli dovevo ispirare un’immensa pena.
«Temo che a queste… signorine l’ultima cosa che interessi siano i fiori, amico mio» disse quest’ultimo scostando il pesante drappo vermiglio che ancora ci separava dall’interno di quello che, tolta la musica assordante, l’oceano di persone in frac e il turbinio di colori e profumi, si rivelò essere nient’altro che un teatro caduto in miseria.
Al centro dell’imperiosa sala da ballo troneggiava un palco con tanto di sipario di velluto rosso dove, saltellando e volteggiando, si esibiva qualche decina di ragazzine, decisamente poco vestite, per le centinaia di tronfi gentiluomini che applaudivano a ritmo di una musica sfrenata, chi seduto ai tavolini tutt’intorno, chi in piedi sotto le gonne delle ballerine.
Dovetti lasciarmi prendere sottobraccio per essere condotto incolume a un tavolo in fondo alla sala, leggermente più appartato rispetto agli altri e circondato per due lati da pareti rivestite di specchi.
L’atmosfera era ubriacante: essendo quasi impossibile capirsi a parole per il volume della musica, le urla delle ragazze e degli spettatori insieme ai battiti delle mani e dei tacchi sul legno del pavimento consunto, si comunicava a gesti e a labiale.
Toulouse, il più entusiasta di tutti, mi indicò il palco scandendomi il nome di tutte le ballerine e facendomi intendere di conoscerle approfonditamente tutte. Erik, ovviamente, lo contraddisse mimando il gesto di un pennello e di una donna in posa facendo così confessare al compare che la maggior parte delle dame erano state nient’altro che modelle per il talentuoso ma poco avvenente pittore.
Pablo si buttò subitamente nella mischia e, nonostante la mia preoccupazione per quel suo disturbo del sonno, mi rassicurò. E difatti non se ne ebbe più notizia per come minimo due ore almeno fin quando non venni a sapere che si era addormentato dietro le quinte, ma almeno in buona compagnia.
Victor, invece, si era semplicemente eclissato lasciandomi in compagnia di Mike, completamente a suo agio, e alla mercé dei due artisti, a loro volta in balia dell’alcol e dell’esuberanza di un paio di danzatrici che si erano staccate dal gruppo per prendersi cura di loro. Non passò molto tempo prima che se ne aggiungessero altre, chiamate probabilmente per tenere compagnia all’imbarazzato e imbarazzante pezzo di legno che era il sottoscritto, attaccato alla bottiglia per evitare di pensare troppo a quanta ragione avesse avuto mio padre.
La serata passò lenta, tremendamente lenta, e sono davvero poche le cose che di quegli allucinanti momenti ricordo. Una di queste, oltre al bacio appiccicaticcio che mi stampò sulle labbra una delle donnacce ingaggiate da Toulouse, fu quell’ovattato istante di silenzio che fece da preludio ad una delle melodie più sublimi che in tutta la mia vita avrei mai avuto il privilegio di ascoltare.
Fu solo allora, quando riaprii gli occhi risvegliandomi dall’intorpidimento, che mi resi conto che le ballerine, come fate di un incubo, erano svanite nell’ombra ma che, soprattutto, era tornato Victor. Si era seduto davanti a me, teneva il mento appoggiato su una mano chiusa e pugno, gli occhi chiusi e le orecchie tese, totalmente succubi delle note di una musica così diversa da quella suonata per tutto il tempo da farmi pensare che fosse nient’altro che il frutto della mia immaginazione. Ruvida ed insieme appassionata, dolce ed allo stesso tempo aspra come un agrume maturo, ne venni rapito anch’io, all’istante.
Un paio di mani, bianche ed eleganti come ali di cigno, volavano leggere ma precise sulle corde di un malinconico violino dal quale scaturivano note che non avevo mai udito prima. In realtà, se ci avessi pensato bene, quella sinfonia non mi sarebbe suonata affatto nuova. Tante volte l’avevo sentita, da altri strumenti, da altre mani, ma non da quello strumento, non da quelle mani… Ma pensare al momento non rientrava esattamente tra le mie priorità. Mi sentivo schiavo di quella melodia in ogni mia cellula, in ogni mio respiro pesante e al tempo stesso leggero bloccato in gola.
Incapace di avere altre attenzioni se non per gli aggraziati movimenti di quelle braccia e di quelle dita affusolate che sembravano anticipare le note e danzarci assieme prima di liberarle affidandole all’aria, ad altri cuori oltre a quello del violinista, mi commossi. Sì, mi ritrovai a lacrimare come una sciocca ragazzina alla sua prima delusione d’amore, frustrato dal fatto che quella musica che desideravo imprigionare da qualche parte dentro di me mi stesse sfuggendo. Nota dopo nota correva via, via da me, fino a che a un certo punto si dissolse, lasciando spazio a nient’altro che silenzio e buio.
Non ebbi neanche la forza di unirmi al fragoroso applauso che seguì l’esibizione, e non ero solo in quel mio corroborante stato di paralisi.
Victor riaprì gli occhi e seppi che aveva pianto con me, nel profondo, perché erano lucidi e gonfi, adoranti nel loro essere in quel momento distanti da tutto e tutti, leali servi di un altro paio di occhi che stavano ricambiando empatici tutto quel sentimento e dinnanzi al quale mi sentivo annichilito.
Quanto può amare un uomo? Quanto dolore è disposto a sopportare? A quanta meraviglia è capace di sopravvivere senza impazzire?
Sopraffatto da mille domande e ancor più sensazioni, osservai la longilinea figura del musicista scendere dal palco, farsi strada tra folla giubilante e raggiungere il nostro tavolo. Visto da vicino appariva ancora più giovane di quanto la maestria della sua performance avesse suggerito: incuteva quasi un timore referenziale così composto e dritto in quel suo completo nero, in perfetta sintonia coi capelli corvini e la sua aria tenebrosa e saccente.
La luce sempre più soffusa dell’ambiente mi permise di apprezzare solo in parte i tratti di un viso tagliente ma aggraziato, tipico della gente giovane ma che ha già così tanto da raccontare quanto, probabilmente, da nascondere.
Le labbra – non trovo aggettivi adatti per descriverle oltre che alla forza per ricordarle – si schiusero appena per sussurrare qualcosa e distendersi poi in uno dei sorrisi più particolari che la vita mi concesse mai la fortuna di contemplare. Gli si formavano sempre delle curiose fossette agli angoli della bocca quando sorrideva così, quando sapeva di essere guardato e la superbia sbocciava in lasciva timidezza, colorandogli le guance.
Ugualmente, il collo gli si screziava leggermente più in alto del pomo d’Adamo, e forse per questo motivo abbassava sempre il capo nel tentativo di nascondere quella reazione involontaria del proprio corpo agli sguardi che – non so quanto involontariamente – attirava a sé come il fiore più profumato del giardino con le api.
E gli occhi, infine. Non mi è possibile rendere a parole cosa non fossero quegli occhi perché, credetemi, vi ci trovai dentro di tutto quando, per un istante di accecante cobalto, mi degnarono di una loro rude carezza. La luce ambrata del maestoso lampadario soprastante sembrò confluire tutta in essi ottenebrando l’azzurro che cangiò in un verde per il quale – ne eravamo certi entrambi – Toulouse avrebbe dato una mano.
Effettivamente, sarebbe stato bello potergli rubare anche quella parte di sé, riprodurla su una tela da conservare e da far ammirare al mondo, perché bastò un battito di quelle lunghe ciglia affinché la tonalità mutasse in una ancora più affascinante, instancabile sfumatura.
Il ragazzo posò il violino sul tavolo e prese posto accanto a Victor, il quale schioccò le dita e fece portare un’altra bottiglia di vino. Champagne, questa volta.
«Si festeggia qualcosa?» mi affrettai a chiedere, leggermente a disagio di fronte a quei fiumi d’alcol che qualcuno avrebbe pur dovuto pagare.
«Qualcuno, direi. N’est-ce pas(3), cheri?» biascicò Victor, in un avanzato stato di ubriachezza, accarezzando con la punta del pollice un angolo delle labbra del giovane.
Occultando un bellissimo sorriso sghembo, quest’ultimo rispose scuotendo il capo e dovette aiutare Victor nel maneggiare la bottiglia perché ne stava versando metà sulla tovaglia.
Sollevammo i calici e brindammo alla salute di un certo Shinòk, termine russo che più tardi Toulouse mi concesse la grazia di tradurmi facendomi interrogare sul perché una persona dovrebbe chiamarsi “cucciolo”.
L’interessato non protestò; si limitò solo ad alzare gli occhi al cielo e a sospirare, assaggiando il vino imperturbabile anche quando Victor gli posò un braccio sulle spalle attirandolo a sé.
«Per essere precisi, si intende “cucciolo di cane”. O di lupo» singhiozzò, il viso livido a pochi centimetri dal sorriso abbozzato dell’altro. «Suona così tanto come il tuo nome» continuò, e si fece ancora più vicino. «Mais tu parais un loup, plutôt. Un loup très, très méchant.(4)»
Sprofondai nell’angoscia più profonda quando i due uomini avvicinarono le rispettive labbra e le unirono cominciando ad assaporarsi, lentamente e a fondo, in un gesto che ai miei occhi risultò ancora più osceno di un effettivo atto sessuale.
Il Lettore, ancor prima di perdonami, dovrà sforzarsi di tenere a mente da dove quell’ipocrita ragazzino che ero proveniva, di immaginare i guai in cui sarebbe incorso e, se resta spazio, anche di provare un po’ di sana compassione. Perché io compatisco me stesso, adesso che un ragazzino ignorante e fragile non lo sono più, per quella strana e incandescente forza magnetica che mi aveva impedito di alzarmi e andare via, o anche solo di guardare altrove.
Se inizialmente pensavo che fosse Victor a condurre la danza, quel gioco di lingue che si rincorrevano e di sguardi colati l’uno nell’altro, più avanti venni smentito dai voluttuosi movimenti del misterioso violinista: si ritraeva, apparentemente timido, per poi riprendersi con voracità tutto lo spazio concesso all’avversario, mettendo così a tacere qualsiasi possibile desiderio di prevaricazione.
Mi bagnai la bocca, maledettamente secca, versandomi un altro bicchiere, ma non feci che peggiorare le cose. Ricordo con inconsueta lucidità la leggiadra pesantezza provocatami dalla mia prima ubriacatura: la testa ed ogni singolo nervo indolenziti, il senso di nausea e un costante sibilo nelle orecchie, le sagome dei miei compagni di sventure come ombre in agguato nella coda dell’occhio. Mike si era addormentato col mento affondato nel petto, Erik parlottava da solo sbavando con la testa sulle gambe di Toulouse il quale intanto si era fatto portare un narghilè e ci si era attaccato come un neonato al capezzolo della madre…
Ero rimasto solo, solo coi miei pensieri e una musica sempre più lontana di sottofondo ad accompagnarmi nell’incoscienza mentre, da dietro due palpebre sempre più pesanti, seguivo i movimenti della coppia dinnanzi a me. Quelli di Victor e di una sua mano sotto il tavolo, lenti e sincopati, mentre sussurrava qualcosa all’orecchio del ragazzo; e questi, con gli occhi chiusi e il labbro inferiore tra i denti, che ascoltava e rispondeva col corpo a quelle attenzioni.
Scivolai rapidamente nel sonno, negli occhi l’immagine offuscata di quella testa mora che scompariva sotto la tovaglia, del rozzo sorriso di Victor – così diverso – e delle sue dita, affondate in quei capelli corvini, che l’accompagnavano nel baratro.

Mi risvegliai pregando Dio, per la prima volta in vita mia con sviscerata sincerità, supplicandolo tra un gemito e l’altro che fosse stato niente più che uno spaventoso incubo, frutto di una serata al pub più movimentata del solito.
Così, sicuro che non appena avessi riaperto gli occhi mi sarei ritrovato nel mio letto borghese, nella mia stanza borghese, nella mia stramaledetta casa e città borghesi, non feci più di tanto caso alla figura che, inginocchiata accanto a me ed avvolta solamente da un lenzuolo di cotone, mi fissava curiosa.
In quel tiepido momento di transizione tra il sonno e la veglia, con un occhio mezzo aperto e un delizioso profumo di dolci nelle narici, fui tentato di girarmi dall’altra parte al fine di scacciare dalla mia vista, a quanto pare ancora annebbiata, quella piacevole allucinazione.
«Bonjour
Ad un tratto, una familiare sensazione si riappropriò del mio libero arbitrio impedendomi di fare alcunché se non stare fermo ed aprire bene gli occhi: a nulla servì strofinarli, sbattere le palpebre più e più volte, e neanche prendermi a pizzicotti perché quell’angelo venuto dal cielo solo per darmi il buongiorno non sembrava avere alcuna intenzione di abbandonare quella nostra personale nuvola terrestre.
Fu così che, in quel preciso istante, non trovai altra soluzione se non quella di mettermi a gridare.
Da un’altra stanza, probabilmente la cucina, provenne il metallico rumore di pentolame rovesciato e di piatti rotti che, aggiunto alle grida mie e di altre persone, sfociò in un tale baccano che sarebbe stato perfino capace di svegliare Pablo da una delle sue crisi.
Terrorizzato, mi tirai le coperte fin sotto il naso e piegai le ginocchia al petto chiudendomi a riccio per proteggermi da eventuali aggressioni.
A differenza della persona accucciata accanto a me, che non aveva battuto ciglio per tutto il tempo, Toulouse in grembiule e guanti da forno si precipitò in camera da letto armato di mestolo, la faccia sporca di cioccolata e i capelli infarinati. Un vassoio di biscotti era rovesciato ai suoi piedi.
«Qu’est-ce qui se passe?!(5)» ansimò sconvolto alternando lo sguardo tra il sottoscritto e il ragazzo vicino a me.
«J’ai rien fait(6)» rispose pacatamente questi senza scollarmi gli occhi celesti di dosso.
«Sherlock!»
Con le bretelle lungo i fianchi e la camicia sbottonata, Victor ci raggiunse boccheggiando e, non appena ebbe appurato che fosse tutto nella norma, sbuffò spazientito.
«Toulouse, prepara la colazione. John, niente panico. Sherlock, vestiti» esclamò, il viso cereo e gli occhi gonfi, per poi aiutare il pittore a riprendersi e a ripulire.
«Si può sapere che diavolo succede?!» riuscii a trovare il coraggio di chiedere cercando, per quanto mi fosse possibile, di ignorare la candida civetta che mi osservava ad occhi sbarrati a pochi centimetri dalla mia faccia.
«E si può sapere per quale motivo avete urlato?» ribatté Victor frustandomi con lo sguardo.
Presi un bel respiro e, controllato che avessi qualcosa addosso, mi misi seduto scoprendomi il viso.
«Chiedo scusa. Posso sapere almeno dove mi trovo e perché questo… gentiluomo è nudo nel mio letto?»
«Potrei chiedervi quasi la stessa cosa» disse in un mezzo sorriso il sopracitato soggetto, inclinando leggermente il capo.
Lo guardai e la prima cosa che mi venne in mente dopo “i tuoi occhi mi tolgono il fiato” fu che stavo cominciando ad averne abbastanza dei casi umani.
«Come dite?»
«Perché questo… gentiluomo» mi fece il verso, assottigliando lo sguardo «è vestito, nel mio letto.»
E il terzo pensiero che a quel punto mi venne in mente fu “Leonardo avrebbe dato non una, ma entrambe le mani per questo sorriso”. Non glielo dissi mai.
Mi guardai semplicemente intorno e, effettivamente, quella non era affatto la mia camera da letto.
«Ieri sera… insomma, eravate un po’ uno straccio» spiegò Victor non trovando altre parole per delineare la situazione. «Così, non sapendo dove tenevate la chiave della vostra stanza, vi abbiamo dovuto portare di peso a casa e ho pensato di mettervi a dormire sul nostro divano…»
«Almeno finché non avete rigettato un paio di colazioni e pranzi tutti assieme sui cuscini e a quel punto vi abbiamo dovuto spostare qui» aggiunse Sherlock tutto d’un fiato.
Mi salì un martellante mal di testa insieme a una buona quantità di sangue che sentii irrorarmi le guance per l’imbarazzo di essermi reso ridicolo già dal primo giorno nella nuova casa.
Mi passai una mano tra i capelli e cercai di riguadagnare un po’ di contegno.
«Dio, sono… terribilmente dispiaciuto. Dove avete dormito voi, dunque?»
Il ragazzo moro corrugò la fronte.
«Dormito?»
«Tolouse ci ha ospitati!» si affrettò a rispondere Victor, incurante della faccia perplessa dell’artista. Era davvero un pessimo attore.
«Sì! Toulouse l’ha fatto!» rispose quest’ultimo guadagnandosi un’occhiata divertita da parte di Sherlock.
«Oh, mio Dio» sospirai prendendomi la testa tra le mani. «Oh. Mio. Dio. Non so davvero cosa dire. Non ho mai bevuto così tanto e… È tutto molto sfocato, io… Come posso farmi perdonare per il disturbo?»
«Nessun disturbo, davvero» concluse il russo in un sorriso tirato. «Anzi, se volete farci compagnia per la colazione sarebbe davvero un buon modo per ripartire col piede giusto.»
Sherlock trattenne a stento una risata e si voltò verso Victor, col quale scambiò un’eloquente occhiata.
«Da quando sei così premuroso?» disse quindi.
«Sherlock, s’il te plaît, non di prima mattina.»
«Ho fatto le brioches!» esclamò il pittore di punto in bianco.
«Al cioccolato, magari» borbottò Sherlock alzandosi dal letto e avvolgendosi alla bell’e meglio nel lenzuolo.
«Oui.»
«Allora non le voglio.»
«Hai detto la stessa cosa la settimana scorsa con quelle alla crema» disse Toulouse, offeso.
«E infatti hai quasi ucciso l’argentino.»
«Pablo è narcolittico!»
«Narcolettico» dissi tra me e me.
«Ora basta!» intervenne Victor, l’esasperazione in persona. «John, le volete o no le brioches?»
«Sì, grazie.»
E, detto questo, io seduto sul letto, Toulouse a gambe incrociate per terra, Victor sull’unica sedia presente in tutto l’appartamento e Sherlock infagottato a fare l’eco alla caffettiera sul divano sfoderato consumammo la nostra colazione in silenzio, almeno fino a un certo punto.
«Gli altri?» domandai gustando la brioche più buona di sempre.
«Il vostro amico è andato via un paio di ore fa – è rimasto a vegliarvi per quasi tutta la notte –  mentre Erik e Pablo sono rimasti al Moulin Rouge. Affari.»
«Affari?»
«La commedia» intervenne Toulouse. «Avremmo dovuto metterla in scena la settimana prossima, ma dopo il forfait di Audrey…»
«Che cosa vuoi dire con “dopo il forfait di Audrey”?» esclamò ad un tratto Sherlock dal divano.
«Che non se ne fa più nulla, ecco cosa» rispose seccato il pittore.
«Voi artisti…» ringhiò il ragazzo alzandosi e tornando nella stanza pestando i piedi. «Un branco di incompetenti buoni a nulla, ecco cosa siete!»
Toulouse smise di masticare e lo sguardo che rivolse a Sherlock mi fece correre un brivido gelato lungo la schiena.
«Cheri…» lo avvertì Victor.
«Ci serviva quella commedia, dannazione!» irruppe alzando un braccio da sotto il lenzuolo. «Siamo indietro con l’affitto di tre settimane, ci sfamiamo di… brioches e alcol e tutto quello che riescono a fare è mandare all’aria mesi di lavoro! Cos’è, Toulouse, il prossimo fallimento sarà scoprire che neanche a scarabocchiare banali sgualdrine sei più capace?»
In un attimo il pittore fu in piedi e, se non fosse stato per il limite delle gambe, avrebbe sicuramente raggiunto Sherlock. Si stava già protendendo verso di lui, i denti scoperti per la rabbia.
«Potrei cominciare a dipingere te, allora. Pagherebbero meglio» grugnì, ma Victor lo agguantò per un braccio prima che potesse accadere il peggio.
«Toulouse» disse, fermo. «Il bambino non ha dormito abbastanza, stanotte. E i bambini che non dormono abbastanza, si sa, sono irascibili.»
A nulla servì l’occhiata decisamente eloquente dell’uomo al più giovane, il quale rispose con una smorfia di sufficienza, provocatoria e arrogante, voltandogli le spalle.
«Qualcuno deve pur mandarla avanti, la baracca.»
 «Hardie conasse(7)» sputò Toulouse divincolandosi dalla presa di Victor, il quale lo rispedì in cucina con un pugno sul braccio.
«Non tutte le colazioni qui sono così» mi sorrise malinconico, e si accese una sigaretta scuotendo il capo. «Sherlock è più intrattabile del solito ultimamente ma, come avrete potuto constatare dall’accento, siete compatrioti. Sono certo che saprete tenerlo a bada.»
Mi parve invecchiato di una decina d’anni dalla sera precedente.
Non seppi che dire. Non conoscevo nemmeno la ragione di quel diverbio, di tutta quella tensione e del bruciante rancore sprigionato da quegli occhi di giada, tanto incantevoli quanto temibili. Volevo solo tornarmene a casa e dimenticarmi di tutta quella faccenda, di tutte quelle facce arrabbiate e della miseria che ci avvolgeva tutti come un sudario; ma casa era lontana, o quantomeno alla porta accanto, e di quella mi sarei dovuto accontentare.
«Ne sono certo» mi uscì solamente. «Ho approfittato fin troppo a lungo della vostra disponibilità. Vi sono riconoscente per l’accoglienza… E ringraziate Toulouse per le brioches. Erano davvero deliziose.»
Detto questo, senza proferire altro, mi alzai, raccolsi i miei effetti personali sparsi un po’ ovunque, e mi diressi fuori da quel disordine umano con tutta l’intenzione di non metterci più piede.
Non feci a tempo a lasciare il salotto che dovetti già trasgredire quella promessa.
«Ve ne andate di già?» mormorò una voce da un angolo in penombra vicino alla porta, roca ma al contempo carezzevole come l’oceano dopo la tempesta. Ed essa, per me, avrebbe per sempre avuto anche il colore dell’oceano, la sua consistenza: cristallina, spumeggiante, violenta, infinitamente intima in cui, incantato,  mi sarei trovato più volte a naufragare.
Restai per qualche istante a guardarlo avanzare lento verso di me, una crisalide avvolta nella sua membrana di cotone che si trasforma in una creatura di sogno, gli occhi brillanti e la pelle liscia delle spalle appena scoperte. Quella visione mi teneva sotto ipnosi, come Ulisse con le sirene, legato col corpo alla maniglia e a quella voce con tutto il resto dell’anima, il cuore impazzito nel petto.
«Io…» balbettai, un ignorante popolano di fronte ad una scultura di insopportabile bellezza, e mi morsi l’interno delle guance per l’ambiguità di quei miei pensieri, per quanto stava cominciando a piacermi tutto ciò.
«Spero di non avervi fatto troppa paura» disse lui, la personificazione della calma mentre ricambiava lo sguardo fissandomi intensamente.
«No, io… Cioè, voi… Voglio dire…»
«Mi rincuorate» affermò venendomi incontro, sia verbalmente che fisicamente. «In realtà va sempre così, qui, dunque non sentitevi troppo speciale. A dire il vero, oggi è andata piuttosto bene. Toulouse non mi ha lanciato addosso nessun piatto.»
Mi portai le mani dietro la schiena, genuinamente interessato a prolungare quella conversazione così bizzarra.
«Perché, di solito succede? Che vi si lancino stoviglie addosso?» risi stando al gioco.
Lui mi sorrise di rimando, complice.
«Oh, sì. Ma c’è di peggio» mormorò, gli occhi di un particolare verde smeraldo tuffati nei miei.
Se non mi fossi ritrovato già troppo inebetito dalla magia che sprigionavano, probabilmente mi sarei sentito a disagio di fronte a tanta irriverenza. Non avevo mai sostenuto uno sguardo così a lungo, ed arrivai a chiedermi se tutto ciò fosse legale.
Il ragazzo, dopo un’ignota quantità di secondi – o minuti? – di silenzio, increspò le labbra nella smorfia imbarazzata di chi non sa più cosa dire ma desidera con tutto se stesso di non lasciar morire la conversazione in sciocchi convenevoli.
Mi ritrovai così a fargli da specchio, a mordicchiarmi il labbro e a guardarmi le punte dei piedi, le orecchie incandescenti e il respiro corto.
«Io…» azzardai, gli occhi bassi e la testa stupendamente leggera. «Io non vi ho ancora fatto i complimenti per l’esibizione di ieri sera.»
Lo sentii ridere a bassa voce e la mia natura di schiavo mi portò, in un gesto involontario come il battere di un cuore, a riallacciare lo sguardo a quello del mio padrone. E quello che trovai quando rialzai il capo mi tolse per un istante il respiro: gli occhi tenuti bassi, nascosti da un ventaglio di lunghe ciglia nere, le labbra non più contratte ma gonfie di soddisfazione, e le guance, imporporate di virginale imbarazzo, mi spinsero di nuovo molto vicino alla commozione.
«Siete imperdonabile, monsieur» esalò sorridendomi con gli occhi, e non potei fare altro se non ricambiare.
Al momento, tutte le parole sembravano essere defluite da me, sostituite da un’appagante sensazione di calore al centro del petto. Così, fu lui che questa volta fece la prima mossa.
«Vi piace Parigi?» domandò stringendosi nel lenzuolo.
Sì, era la cosa più bella, sensuale ed eccitante che avessi mai visto. L’adoravo, Parigi.
«A dire il vero,» trovai la forza di dire «essendo arrivato solo ieri pomeriggio non ho ancora avuto occasione di vederla adeguatamente.»
«Oh, allora dovete assolutamente rimediare» bisbigliò facendosi ancora più vicino, come se mi stesse confessando un segreto. «Victor mi ha detto che siete medico.»
«Sì. Cioè…»
«Uno bravo. Molto bravo.»
Ora, io non so cosa quel russo gli avesse riferito sul mio conto, esattamente. Non avevo mai lavorato per nessuno, non potevo vantare alcun tipo di esperienza, figuriamoci un prestigio professionale. Ero un semplice dottorino con ancora qualche brufolo in faccia ma già tanta, tanta passione per ciò che avevo studiato e altrettanta voglia di mettere subito tutto in pratica.
«A quanto pare» dissi gonfiando il petto.
«Non così bravo quanto nel raccontare le bugie, temo.»
Lo sguardo che mi rivolse mi scoccò un brivido che mi attraversò tutta la schiena: avrei goduto di quella sensazione unica più di una volta dopo quel giorno. Mi sgonfiai di tutta la superbia ispiratami da quel breve momento di gloria in un batter d’occhio e mi sentii avvampare in volto.
«Co-come?»
«Andiamo, anche un bambino lo noterebbe!» esclamò.
«Noterebbe cosa?»
«Oh, Cielo. Eccone un altro…» sospirò lui alzando gli occhi al soffitto, melodrammatico. «Sapete, è grazie a gente come voi che ogni giorno cervelli superiori con problemi di autostima sono persuasi a non farsi semplicemente schizzare su una parete. Siete maledettamente confortanti.»
Se mi sentivo già decisamente spaesato, ora cominciavo persino a dubitare del mio quoziente intellettivo.
«Io e il mio cervello inferiore porgiamo le nostre più sentite scuse, ma continuiamo a non capire.»
A quel punto, preso un profondo respiro, Sherlock affilò lo sguardo e diede inizio al suo sproloquio in un tono piatto, senza quasi mai riprendere fiato.
«Nonostante il rapporto tra me e il signor Trevor si protragga da molto più tempo di quanto quest’ultimo vorrebbe, si ostina a sottovalutare le mie capacità deduttive, traendone tuttavia il massimo vantaggio per se stesso ogni qualvolta sente il bisogno fisiologico di darsi delle arie. È evidente che non potete essere un medico affermato: a parte la giovane età, la vostra reputazione non si è spinta oltre i confini di Londra, azzarderei nemmeno oltre i confini della London University dove avete conseguito la laurea qualche mese fa. Il vostro ex compagno di studi Milford porta ancora lo stemma sulla sua borsa.»
«Mike.»
«Lui. L’accento, ovviamente, dice molto delle vostre origini anche se ammetto di aver incontrato qualche difficoltà all’inizio a classificarvi geograficamente. Tradite una lieve inflessione settentrionale, ogni tanto. Uno dei vostri genitori è scozzese, probabilmente, ma c’è di più. Per esserne stato così influenzato dovete aver di certo passato qualche estate in quei luoghi, magari da parenti. Dunque, siete di famiglia facoltosa, abbastanza da potersi permettere lunghe vacanze fuori Londra e un figlio all’università. L’unico dettaglio a mia disposizione per confermare la vostra città di provenienza me l’hanno fornito i vostri pantaloni. Taglio particolare, inconfondibile – di Cooney e f.lli ad Hampstead, azzarderei – ma rammendati in più punti. Ultimamente le disponibilità si sono ridotte per la vostra famiglia, ma come mai? Vostro padre apparterà sicuramente a quella intoccabile casta di banchieri che infestano la City mentre vostra madre si occupa di una casa troppo grande e della salvaguardia di una reputazione sempre troppo precaria. Ma voi vi siete laureato col massimo dei voti, siete intraprendente, avete sacrificato molto per mettere da parte abbastanza denaro per venire fin qui… Quale macchia potrebbe mai guastare la facciata immacolata della vostra famiglia? Un parente scomodo, un altro figlio meno virtuoso, forse alcolista. Ieri sera sembravate preoccupato quando è arrivato da bere. Conoscete benissimo il valore del vino ma lo sopportate a malapena, tanto da ubriacarvi con pochi bicchieri. Ma vivendo a Londra non credo alla storiella dello studente modello aspirante bohemien astemio. Avete provato l’assenzio prima di uscire, non è così? Avete scaricato la frustrazione del trovarvi da solo nella grande città in qualcosa che vi è sempre stato vicino ma che non avete mai osato provare perché avete avuto davanti agli occhi le conseguenze del troppo bere per tutta la vita. Vostro fratello, non può essere diversamente.»
Basandosi su poche ore di conoscenza reciproca, in una manciata di secondi era riuscito a dedurre non solo la città dove abitavo e le mie origini ma anche la dipendenza alcolica di Harriet, mia sorella, la quale ci aveva sommerso di debiti fino a quando mio padre non aveva preso la decisione di spedirla in un collegio nel sud dell’Inghilterra per farle respirare un po’ d’aria buona. Già Victor aveva dato prova di eccellenti doti d’osservazione il giorno prima, ma i suoi semplici sillogismi non erano nulla in confronto a quella rivelazione.
Fu come trovarsi di fronte ad un amico d’infanzia o a un fratello che ti conosce dalla culla e ti legge dentro in qualsiasi situazione, con la facilità di bere un bicchier d’acqua. Qualunque persona si sarebbe sentita offesa, invasa nei propri spazi personali dopo quell’uscita, ma ero troppo scosso per poter concepire altri sentimenti se non incredulità e una buona dose di meraviglia.
«Straordinario» dissi solo, in un filo di voce.
Il ragazzo tentennò per un attimo, squadrandomi con la fronte aggrottata.
«Pardon?»
«No, dico… Quello che avete appena fatto. È stato semplicemente… fantastico. Ora sì che mi fate paura.»
Arrossì violentemente alle mie parole, e per la spontaneità con cui le pronunciai. Avevo già avuto modo di osservare quanto fosse sensibile alla lode riguardo alla sua arte al pari di qualsiasi ragazza con la propria bellezza(8), e in quel momento seppi che non mi sarei mai stancato di contemplare quella sua particolare nudità.
Quando parve riacquistare un po’ di compostezza, si schiarì la gola e dovette sistemarsi un lembo del lenzuolo che gli era scivolato lungo un bicipite attirando la mia attenzione.
«Che programmi avete per oggi?» mi chiese dunque.
«Cercarmi un lavoro, tanto per cominciare.»
«Noioso. Vediamoci a Place de Clichy tra un’ora esatta.»
E, in una mezza piroetta, si voltò per poi trottare in una stanza nella quale non mi permisi di entrare più per lo sconcerto derivatomi da quell’invito che per comune educazione.
«Cosa c’è tra un’ora esatta?» domandai alzando la voce, inquieto.
«Molto più che un tedioso lavoro, dottore. Un’opportunità!» rispose lui.
Sessanta minuti dopo, mi feci trovare sotto la statua di Place de Clichy, le mani gelate dentro le tasche del cappotto e lo sguardo incollato, come un insetto a una lanterna, alla figura longilinea del mio nuovo compagno d’avventure.
Indossava un cappotto molto simile a quello di Victor quando lo vidi per la prima volta in stazione, color carbone, elegante e con un grande bavero che Sherlock teneva spesso sollevato nascondendoci il volto, reso così molto più duro e tenebroso di quanto già fosse di suo.
«Suggerisco di approfittare delle circostanze per presentarci come si conviene a due gentiluomini» principiò. «Immagino che questa mattina il risveglio non sia stato tra i migliori della vostra vita.»
«Se avessi voluto svegliarmi nella monotonia di sempre, Sherlock, non avrei attraversato un mare e tutte le gradazioni d’ira della faccia di mio padre per essere qui.»
La luce calda e frizzante di quel mio primo mattino nella capitale del francese si riflesse negli occhi di sole del ragazzo dinnanzi a me facendoli luccicare come due pietre preziose.
«Trovo semplicemente magnifico il fatto che si possano saltare le formalità e andare subito al punto, John. In effetti su di voi so già molte cose» disse dunque, brioso.
«Ho notato.»
«Non siate in imbarazzo per quella piccola bugia. Io ne dico sempre.»
«Vostra madre non sarebbe orgogliosa di voi se vi sentisse parlare così.»
Esitò per un istante, le labbra socchiuse, prima di continuare.
«Non sarebbe orgogliosa in ogni caso. E comunque è da una settimana e mezza che la padrona di casa ci parla di voi, delle vostre qualità e del vostro buon nome. Il vostro migliore amico se l’è lavorata piuttosto bene.»
«Mike? Oh, dovevo immaginarlo. Abbiamo studiato insieme, condiviso molti momenti felici, ma non è il mio migliore amico.»
«Ad ogni modo, le siete piaciuto da subito. È una donna rude, e anche un po’ matta, ma i suoi occhi stanchi sanno vedere la bellezza dove c’è, e in voi deve averne vista tanta.»
«Ma davvero?» sussurrai, indeciso su chi ringraziare per quel complimento.
Mi fece l’occhiolino, girò su se stesso e si incamminò verso una destinazione a me ancora sconosciuta, le mani affondate nelle tasche del cappotto e il passo svelto, elegante, felino. Sembrava uno di quegli eroi da romanzo d’avventura, carismatici e misteriosi, che sanno destare nel lettore un appagante desiderio di libertà. Fu così che, senza ulteriori indugi, mi resi conto che mi ero messo a seguirlo, il cuore gonfio d’aspettativa, e che stavo sorridendo come un scemo.









 
 
 
 

Note e traduzioni

1) In dialetto parigino del XIX secolo, le lorettes erano delle ragazze carine e mondane, di pessima reputazione.
2) Aforisma di Oscar Wilde.
3)
Non è così (traduzione)
4) Ma tu sembri più un lupo. Un lupo molto, molto cattivo (traduzione)
5) Cosa succede?! (traduzione)
6)
Non ho fatto niente (traduzione)
7) Puttana insolente (traduzione)
8) citazione da "Uno Studio in Rosso". Sir Arthur Conan Doyle non avrebbe potuto metterla giù meglio.

Il titolo del capitolo è preso dall'omonima raccolta di poesia di Paul Verlaine.



Author's Corner

*corre con un orologio da taschino in mano come il Bianconiglio*
SONO IN RITARDO, I KNOW. Ma ora che mi sono rifatta viva chissà dopo quanto tempo aggiornerò .___.
Questo capitolo mi ha impegnato molto tempo, sia per pensarlo (cosa che tipo facevo di notte con la musica nelle orecchie quando in realtà dovevo dormire, ma shh) che per buttarlo effettivamente giù. Quindi, spero che la faticaccia e l'attesa di chi mi segue *vi abbraccia tutti* siano valse a qualcosa.
Non ho potuto aspettare oltre per introdurre il personaggio di Sherlock e so che può apparire un pò... insolito, ma vi chiedo di fidarvi di me e dei miei soliti colpi di testa. Spero che andando avanti con la long vi risulterà sempre più interessante.
John è già cotto come una torta di mele e pinoli, ma viene da una cazzarola di famiglia perbenista della middle class londinese. Feel him.
Per quanto riguarda Victor, ohbbeh. Ci sto provando, davvero. Ma per me rimarrà sempre sospeso tra la dolcezza più pucciosa e la cattiveria più perversa. Perdonatelo. Perdonatemi. 
Ringrazio tutti coloro che hanno lasciato un proprio commento al primo capitolo, non mi aspettavo di leggere le recensioni di autori che per me  stanno tipo sull'Olimpo del fandom <3 Grazie davvero, siete la mia forza.

miss potter x
  
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