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Autore: miss potter    02/02/2014    5 recensioni
La cosa più grande che potrai mai imparare è amare e lasciarti amare.
Genere: Introspettivo, Romantico, Storico | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Slash | Personaggi: John Watson , Quasi tutti, Sherlock Holmes
Note: OOC | Avvertimenti: nessuno
Capitoli:
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A Maya e Kastalia. I owe you a thousand apologies.

 




 










Parigi, anno 1899: l’estate dell’amore. Il mondo era stato travolto dalla rivoluzione bohémienne ed io ero giunto da Londra per prendervi parte.
Se ne lesse fino alla nausea di questi piccoli e ingenui Candides in viaggio, spesso giovani con antiche e stimabili radici ma dal fusto ancora così verde e debole che, per quanto se ne potesse dire e pensare, trovavano appena sostegno nei tanto indistinti quanto inebrianti ideali di Libertà, Bellezza, Verità e Amore.
I figli della Rivoluzione, ci chiamavano: annegati nell’inchiostro d’infima qualità dei giornali di propaganda razionalista e nella polvere dei tomi di sociologia altoborghese, scappavamo dalle responsabilità che la nostra reputazione reclamava a gran voce per noi stessi fin dalla culla per vivere la spensieratezza della gioventù in quella che poeti e filosofi dipingevano come l’eterna e luminosa metropoli, il nido fecondo dei piaceri innocenti e delle virtù liberali.
Oh, cos’era Parigi affacciata sul ventesimo secolo… Con i suoi lampioni a gas che, come stelle cadute dalle tasche della notte, brillavano vigili come guardiani silenti agli angoli delle ampie ed umide strade; e i caffè, con i loro tavolini sbilenchi dalle tovaglie macchiate di vino rosso e tabacco sotto portici pacchianamente dipinti ma sempre gremiti d’arte, letteratura, scienza e strada dal tramonto alla successiva alba; le prepotenti cattedrali e i ponti sinuosi, la saggia pietra che si tuffava tra le squame increspate del seducente aspide che è la Senna la sera, così pericolosa e bella la notte quanto di giorno, quando i raggi del sole giocavano a rincorrersi con le barchette dei monelli affidate alle avide spire della corrente; e che dire delle purpuree cascate di gerani alle finestre delle interminabili schiere di case color avorio dai tetti grigioblù? Quelle eleganti, dalle aguzze ringhiere nere che, ad ogni passo, a ogni svolta, mi riaccompagnavano col pensiero ben oltre i comignoli, più in là delle fumose periferie, delle verdeggianti colline e degli infiniti campi di fiori, scavalcando i rumorosi porti e quel tranquillo fazzoletto di mare, a casa mia.
Eravamo i fuggitivi di un’epoca grigia come le solenni aule scolastiche dove i nostri intelletti erano stati manipolati dall’obesa smania di cattedratici con cervelli grandi tanto quanto le loro pappagorge ingabbiando, insieme al sapere critico, le coscienze. Un’epoca dal ventre più freddo di quello delle nostre povere madri lacrimose e più sorda delle ispide orecchie dei nostri padri, costantemente imbronciati.
«Finirai per buttare la tua vita tra le braccia di una ballerina di Cancan!» mi rimproverava il mio da quando lo resi partecipe del fatto che, nei momenti di svago, avrei anche potuto pensare di accompagnare la professione medica a quella dello scrittore, oltre Manica.
Alla parola “scrittore” e “oltre Manica” era sempre un incredibile spasso a casa Watson: a mio padre si arricciavano i baffi di comune accordo con le labbra sottili – mia sfortunata eredità – rivelando così la sua giallognola e digrignante legione di denti consumati da anni di fumo e disapprovazione; gli occhi, simili a due tizzoni ardenti, fiammeggiavano e le guance, paffute e rosse, gli si gonfiavano come due melograni maturi.
Mi abbaiava dietro come un cane costretto alla catena, impossibilitato di fare alcunché se non ringhiare, torturarsi e torturare ad ogni buona occasione: a colazione, quando disquisivo con mia madre riguardo i sorprendenti resoconti dei viaggi degli intellettuali inglesi rientrati entusiasti da Parigi, o addirittura alle cinque, quando lodavo la pregevole manifattura del nostro servizio da tè di Sèvres.
Tuttavia, le violente imprecazioni e le lamentele, ormai all’ordine del giorno, si erano ben presto diluite in nient’altro che un tiepido latrato da vecchio segugio inacidito dall’artrite e dall’indifferenza altrui, andandosi col tempo sempre più infiacchendosi al ritmo delle sue ossa fino a scemare in nulla più che un borbottante uggiolio biascicato a denti stretti.
Le nostre conversazioni si ridussero in poco tempo ad obbligati monosillabi e rassegnati sospiri lasciandosi dietro nulla più che tanta amarezza e delusione da entrambe le parti, accusatori e accusati, né vincitori né vinti.
Fu un paio di giorni prima della mia partenza, quando mio padre smise di concedermi il saluto e mia madre del tutto lo sguardo – oh, lo sguardo di mio padre… No, quello mi avrebbe infestato gli incubi a vita – che seppi di averli perduti entrambi e per sempre, e con essi anche il fanciullo mite e devoto che aveva albergato in me, da qualche parte, per ventisei lunghi anni in silenzio.
D’altronde, varcato il confine, non sarei più stato un figlio della borghesia, malata nella morale e appesantita dalle sue fortune, ma anch’io un figlio della Rivoluzione, senza padre né madre né un passato cui render conto. Solo me stesso, le mie ombre e alcune pagine bianche da cui ripartire per cominciare quel nuovo capitolo della mia vita in quella stessa città che mi stava offrendo il suo abbraccio e che, un giorno, mi avrebbe soffocato.

Parigi è esattamente come te la raccontano nei libri, o almeno così parve a me non appena piedi e occhi sfiorarono il suolo della stazione di Montparnasse in un gelido e fosco pomeriggio d’autunno inoltrato.
Nonostante le cicatrici dell’incidente di cui avevo letto sui giornali quattro anni prima, essa sbocciò al mio sguardo come la più affascinante di tutte le stazioni d’Europa, l’unica a dire il vero in cui mi ero mai avventurato prima di allora oltre a Paddington, e sperai che ciò mi concedesse più onore di quanto in realtà sapevo di non meritare. Respirare l’aria caliginosa e umida di quel primo paragrafo della mia nuova vita fu come tornare in superficie dopo anni di muta apnea: non conoscevo nessuno, neanche me stesso, e pensai che non avrei potuto desiderare un inizio migliore di questo.
Rammento con la nitidezza dei ricordi di un bambino l’odore pungente del grasso delle macchine e quello ruvido della fuliggine nelle narici mischiato al costoso profumo delle ragazze dai graziosi cappellini alla ventitré accorse per concedere un ultimo bacio ai loro vagabondi. Se chiudo gli occhi, mi pare ancora di sentire l’eco lontana della scricchiolante e liberatoria sensazione delle suole a contatto con il marmo lucido della stazione insieme al brontolio delle mie poche cose nella valigia, sbatacchiata al ritmo di una felicità di cui, fino a quel momento, avevo letto solo nelle cronache di viaggio o nelle poesie.
Un mondo intero, nuovo e frizzante mi stava aprendo le sue porte, invitandomi a mettermi comodo insieme a tutti quei volti sconosciuti e ad aggiungere alla biblioteca di quella vertiginosa Babele di nomi e storie anche il mio nome, la mia storia. E la cosa più straordinaria di tutte era il squisito sapore della non curanza degli altri libri per quel nuovo acquisto dello scaffale, come se di posto ce ne fosse e ce ne sarebbe per sempre stato.
Era tutto molto diverso dall’Inghilterra e da Londra in particolare, ove qualunque cosa facessi e dicessi percepivo in ogni istante l’estremità della mia fedelissima spada di Damocle pungermi capo e cuore, una pedina costantemente sotto minaccia nella scacchiera sempre uguale di un’esistenza preconfezionata.
Dalla fretta di vedere, di conoscere, di imparare tutto e subito, avrei quasi lasciato il cappello sul treno se non fosse stato per un uomo, vestito di scuro e con una grossa sciarpa di lana tirata fin sotto due occhi di un penetrante azzurro e che, per proteggersi dai fumi della locomotiva e dalla corrente d’aria, si erano ridotti a due fessure d’acciaio fuso.
«Monsieur,» mi chiamò stringendo tra le dita inguantate il mio cappello, «est-ce que c’est à vous?(1)»
Solo quando mi allungò l’oggetto in questione compresi per associazione ciò che mi era stato chiesto.
«Merci bien(2)» risposi, non senza una punta d’imbarazzo per quel mio sciocco tentativo, che è un po’ comune a tutti i viaggiatori, di simulare un accento meno esotico possibile.
La cosa, evidentemente, mi riuscì piuttosto male a giudicare dal sorrisetto genuinamente divertito che ingrassò la sommità degli zigomi dello sconosciuto, facendoglieli spiccare ben oltre il bordo della sciarpa. Lo guardai voltarmi le spalle e dileguarsi nella nebbia con la stessa velocità con cui ne era sbucato, facendo ondeggiare i lembi del lungo cappotto da sparviero.
Sarà stata l’eccitazione del momento o tutto quel calore sprigionato dalle caldaie della locomotiva perché quasi dimenticai di essere ancora mezzo sbottonato e col capo scoperto a Parigi, a novembre, incantato come un bambino smarrito nel bel mezzo di un binario affollato di gente di corsa.
Mi ricomposi in fretta e, preso un bel respiro, mi avventurai un piede davanti all’altro nella ville lumière. Alle spalle mi fissavano l’Inghilterra, i miei genitori, il mare, il treno e, forse, da qualche angolo nascosto della stazione, anche l’uomo misterioso vestito di nero, e tutto ciò che avrebbero visto sarebbe stato finalmente il coraggio di un uomo e il suo futuro davanti a sé, un passo dopo l’altro, pagina dopo pagina.

Ero giovane ma non sprovveduto. Avevo una conoscenza, un vecchio compagno di corso il quale aveva meditato – e si era tormentato – in misura di gran lunga minore alla mia riguardo l’idea di venire a vivere a Parigi una volta ottenuta la laurea. Il suo nome era Mike Stanford, un giovanotto ben piantato dagli occhi allegri, piccoli e neri abbottonati al centro di un faccione tanto sincero che avrebbe ispirato bontà anche al meno ispirato degli esseri umani, qualità questa che all’università gli permise di stare sempre un gradino sopra di me nelle relazioni sociali. A parole riusciva a incantare professori e colleghi con un quarto di facilità di quanta ce ne avrei potuta mettere io in tutta una vita, il che si rifletteva irrimediabilmente anche nelle ben più ardue prove col gentil sesso, campo di battaglia questo di cui adorava citare le proprie innumerevoli conquiste ogni qualvolta se ne presentasse l’occasione.
Ne parlo al passato perché, ora come ora, di lui non so più niente, il che a Parigi equivale a dire che, se non chiede la carità per strada, probabilmente è morto. E comunque in giro non ce lo vedo, non più almeno, dunque posso con certezza accertarne il decesso per la semplice ragione secondo cui io, della strada e della sua gente, ne so abbastanza.
Sono un bugiardo. Uno sporco, cinico bugiardo. Dimenticate. Dimenticate ciò che queste povere dita da scribacchino e medico fallito mi hanno appena estorto, poiché esse sono i miei aguzzini, i miei torturatori, le infide ambasciatrici di un cuore spezzato che non ha più voce neanche per gemere.
Dimenticate, rideteci su, poiché un sorriso non richiede alcun suono. È già musica in sé.
Non si può sapere mai abbastanza della strada, è la strada che sa tutto di te. E di Mike non mi parla da tempo.
Tornando alla condizione antecedente alla nostra attuale realtà di spettri – chi non lo è, tra noi, sia benedetto per la sua sciocca ipocrisia – intercorse tra noi una fitta corrispondenza che ebbe come conseguenza, tra tutte quelle possibili ed improbabili, anche il mio trasferimento.
Il suo fu il primo sorriso amico che incontrai appena varcate le soglie di Montparnasse e – perdonate nuovamente il mio cinismo – probabilmente anche l’ultimo.
«Alla buon ora!» esclamò allargando le sue grandi braccia da orso nelle quali mi tuffai senza pensarci un secondo.
Era dimagrito.
«Temevo che al primo schizzo di fango sui calzoni avessi fatto retro front, bimbo.»
«Anche per me è bello rivederti, panzone.»
Ridemmo entrambi di gusto, stringendoci e battendoci a vicenda i palmi sulle spalle finché il freddo non ebbe la meglio sul calore sprigionato dai nostri giovani cuori e ci costrinse a fermare la prima carrozza disponibile.
Issata la valigia sul tettuccio, ci ficcammo dentro sfregandoci le mani inguantate e sorridendo come due scolari al loro ultimo giorno di scuola prima delle vacanze natalizie.
Il colpo di frusta del vetturino e i primi passi di trotto del suo cavallo risuonarono alle mie orecchie con la stessa soavità del primo tac di una macchina da scrivere, o di un primo bacio… Ma cosa ne potevo sapere io di baci? Dopotutto, non ero mai stato innamorato.
«Com’è stato il viaggio?» chiese il mio amico alitandosi sui palmi, brioso come poche volte l’avevo visto da quando lo conoscevo.
Nonostante un intero anno ci avesse tenuto separati, non era Mike il principale oggetto della mia attenzione: i palazzi eleganti color crema, gli alberi neri dalle lunghe dita rinsecchite e le ampie strade affollate di gente d’ogni genere sfilavano fuori dal finestrino della nostra vettura come tante minuscole marionette di quello spettacolo che è Parigi, ignare di essere le responsabili di quei sospiri che mi stavano rendendo quasi incapace di parlare. Una grande pace pareva volesse invadere ogni cellula del mio essere, contagiandomi di una bellezza così trasparente da far fatica a credere che qualcuno un giorno fosse riuscito a darle una forma.
«Lungo».
«E dimmi: quali notizie dalla diletta, decrepita Londra?»
«Cosa vuoi…»
Mike dovette scambiare la mia commozione per logoramento.
«Devi essere esausto. È meglio che te ne vada subito a casa, anche se non ti nascondo che avrei voluto farti conoscere qualche… autoctono» ammiccò e, aperto il finestrino, comunicò al conducente il nuovo indirizzo di cui compresi solo l’ultima parola: Pigalle.
«Santo Cielo, Mike, non cambi mai!»
«C’est Paris, mon ami(3)» bisbigliò, e smarrì lo sguardo assieme al mio su ciò che ci stava scorrendo di fianco come il più bello dei sogni ad occhi aperti.

Pigalle, Place Pigalle, è l’ombelico di quel pot-pourri piccante e sconvolgente che è il quartiere di Montmartre, l’orfana dimenticata dalle mani sudice e il vestitino logoro che, appollaiata sul ramo più alto della città, ammicca e scopre la caviglia, una civetta che si prepara per la caccia affilando becco e artigli, eccitata dall’odore degli abitanti della notte senza chiedersi se sia moralmente giusto, o onesto, perché è insito nella sua natura di rapace trovare appagamento nell’opalescente oscurità della sua esistenza a metà.
La nostra corsa si arrestò ai confini del crepuscolo davanti a quella che in una delle sue lettere Mike, con fin troppa passione, mi aveva descritto come “un appartamentino centrale, vista incomparabile sulla ville lumière, zona giovane” et cetera che si rivelò poi essere qualcosa di poco meglio di una stamberga a due piani di cui mi sarebbe spettato il sottotetto, vista bordelli.
«Ho convinto la padrona a farti uno sconto» sussurrò Mike strizzandomi l’occhio.
Quando mi affacciai dal finestrino corrugai la fronte e gemetti alla vista di quell’ammasso di assi di legno e mattoni: era proprio brutta. D’altra parte, come base da cui partire, non potevo certo pretendere il Grand Hotel, di fronte al quale probabilmente avrei provato molto più imbarazzo di quanto me ne stava suscitando la mia effettiva sistemazione.
Mike pagò il cocchiere e mi aiutò con la valigia accompagnandomi fino al portone che, alto e lugubre, si stagliava su di noi come la porta dell’Inferno che, al posto di “Lasciate ogni speranza, voi ch’entrate”, riportava una minuscola targa d’ottone ossidato su cui probabilmente una volta c’era inciso un nome.
«Coraggio, amico. Datti una pulita e fatti bello perché stasera ti porto fuori».
«Veramente, non credo sia possibil-»
«Baggianate! Sei a Parigi, tutto è possibile.»
Mi congedò rimontando in carrozza con un sorriso che gli andava da una basetta all’altra. Non l’avevo mai odiato così tanto.
«Alle otto, John!» furono le sue parole urlate nella nebbia prima che vi scomparisse dentro insieme a tutte le mie buone speranze, lasciandomi in compagnia della solitudine più nera.
Infreddolito, affamato, teso come una corda di violino e in tasca il denaro appena sufficiente per pagare la prima settimana di affitto, trovai coraggio per alzare un pugno tremante e bussare.
Dopo una manciata di interminabili secondi passati a dondolarmi nervosamente sul posto e a giocherellare con la maniglia della valigia tanto per mantenere attiva la circolazione, la porta si aprì in un cigolio tanto sinistro quanto l’occhietto grigio e indagatore che ne fece capolino come la testa di una larva dal buco di un frutto, facendomi accapponare la pelle.
«Oui?» gracchiò nella penombra la voce di quella che doveva essere la padrona di casa descrittami dal mio amico, sempre in quella stessa, sciagurata lettera, come la vecchina più dolce di tutta la Francia.
«Bonsoir, madame» azzardai quasi sottovoce, e pensai che mostrarle le poche banconote che mi portavo dietro avrebbe giocato a mio favore. «Je m’appelle Joh-(4)»
Il portone mi venne letteralmente e repentinamente chiuso sul naso lasciandomi vagamente annichilito, con le labbra paralizzate sull’ultima lettera del mio nome e i soldi stretti nel pugno, ma lo sferragliamento del chiavistello all’interno mi fece ben sperare contro l’idea di una notte all’addiaccio.
L’espressione che mi accolse non appena la vecchina riaprì la porta era del tutto mutata: le profonde ma morbide rughe sulla fronte e intorno a due occhi che, a pensarci meglio, non erano proprio grigi ma del colore del cielo in una bella giornata d’inverno, avevano modellato un sorriso deliziosamente guasto ma gentile che su di me agì come il migliore dei calmanti.
Era una donna di misera costituzione, semplice ma unica nel suo genere: i capelli argentei, legati a crocchia dietro una nuca piccola come quella di una scimmietta da compagnia, erano coperti da una cuffietta da notte dello stesso colore – un prugna intenso – dell’enorme vestaglia di lana grezza in cui era avvolta e che le nascondeva i piedi e mani.
Sibilò qualcosa in francese continuando a sorridermi mentre mi faceva segno di accomodarmi, per quanto comodo potesse definirsi l’ambiente: il buio e il silenzio regnavano sovrani insieme a un soffocante odore di chiuso, e se non fosse stato per lo scricchiolio delle assi di legno sotto i nostri piedi mi sarebbe parso di trovarmi in una tomba.
L’anziana accese una candela e me la porse indicandomi con una mano sepolta nella manica della vestaglia le scale. Mi resi conto piuttosto in ritardo del fatto che non si fosse neanche presentata, ma considerai anche che quelli non fossero propriamente né il momento né il luogo più adatti per dar peso a insulsi dettagli come le formalità.
«Ça va, monsieur?(5)» chiese la donna misteriosa allargando quel suo angosciante sorriso sdentato.
«Ça va.»
Non andava bene, proprio per niente, ma cercai di recuperare il coraggio, sepolto dentro di me da qualche parte, e con esso la mia dignità: pagai la signora congedandola con gentilezza e mi avventurai al lume di candela di quello che, più che un appartamento, somigliava a uno di quei castelli dell’orrore di cui si leggono nei libri scritti per spaventare i bambini troppo curiosi, con tanto di ragnatele penzolanti dalla tromba delle scale, la carta da parati strappata e tutto il resto.
Mi trascinai fino all’ultimo piano arrivandoci col fiatone e la cera bollente colata sulle dita, e a quel punto mi dovetti destreggiare brancolando nell’oscurità alla ricerca della mia stanza aguzzando lo sguardo per identificarla nel labirinto di una decina di porte chiuse.
All’improvviso, un tremendo boato fece tremare le pareti e tutte e duecento sei le mie ossa contemporaneamente, facendo seguire uno strillo e un’incontenibile valanga di imprecazioni sbraitate da un piano all’altro del pianerottolo che mi fecero gelare il sangue nelle vene.
Qualcuno doveva essere precipitato o aver fatto cadere qualcosa di pesante dalla tromba delle scale perché, insieme alla furia della padrona, si alzò un così smisurato polverone che mi fece seriamente temere per l’incolumità dell’edificio prima ancora che per quella dei suoi inquilini.
Per quanto allungassi la candela, non riuscii a intravedere che cosa stesse capitando dabbasso.
«Vous êtes des bêtes! Des canailles!» sbraitò la vecchia scatarrando ad ogni parola.
Seguirono dei passi pestati di qualcuno d’indefinito e, senza dubbio, alquanto seccato che si affrettava a salire facendosi strada nella polvere, che intanto aveva raggiunto anche il secondo piano. A definire “bizzarro” il tipo che ne riemerse, trottando come un capretto innervosito, si sarebbe rischiato di scadere nell’eufemismo.
Ora, io mi consideravo piuttosto basso per la media inglese dei giovanotti della mia età, ma alla personcina che mi si presentò davanti, con addosso gli accostamenti cromatici più improbabili e un lungo foulard a pois avvolto intorno alla testa a mo’ di turbante mediorientale, sarei dovuto apparire come un gigante.
«Salope…(6)» sibilò tra sé e sé costui passandomi di fianco quasi fossi stato invisibile.
Ero troppo sconvolto per rimanerne offeso.
«Excusez-moi, monsieur(7)» lo chiamai con una punta di diffidenza schiarendomi la voce.
Niente. Il nanetto brontolava sottovoce, meditabondo, prestandomi la stessa attenzione che evidentemente concedeva di norma al suo senso estetico nel vestire.
Avanzò ancora di un paio di quei suoi passi da formica e, all’ennesimo richiamo, si voltò.
«Qui êtes-vous?(8)» domandò corrugando la fronte e storcendo il minuscolo naso.
Quando ebbi l’occasione di guardarlo meglio in volto, mi accorsi che intorno agli occhi, scurissimi e leggermente lucidi, era disegnata una spessa linea di trucco nero che rendeva quello sguardo, se possibile, ancora più affilato e inquietante.
«Bonsoir. Je m’appelle-»
«Est-ce que vous êtes réel?(9)»
Allora non ricordai di aver mai visto un’espressione più smarrita di quella che siffatto omino portava dipinta addosso in una smorfia terribilmente malinconica, la stessa dei pagliacci del circo ritratti su tele ad olio e poi inchiodati ai muri delle camerette dei bambini. Ne avevo una simile, nella mia… Dovetti bagnare il letto per una settimana intera prima che i miei genitori si decidessero a farla portar via.
«Je m’appelle John» riprovai portandomi una mano al petto.
L’improvvisa risata che gli uscì esplosiva fuori dai polmoni mi fece saltare sul posto da quanto imprevista e fuori luogo mi parve al momento. Cominciò a ridere come una locomotiva – se le locomotive avessero la facoltà di ridere, almeno: a sbuffi e soffi – portandosi le mani avvolte in un paio di guanti senza dita davanti alla bocca, larga come quella di una rana e anch’essa truccata.
In un balzo mi oltrepassò tornando da dov’era comparso, e si precipitò giù dalle scale per metà sghignazzando e per metà esultando come uno scolaretto al parco giochi.
«Audrey! Audrey!» gridava battendo le mani, eccitatissimo.
Sentii un gran trambusto provenire dal primo piano ma questa volta, essendosi la polvere un po’ abbassata, riuscii a sporgermi dalla ringhiera e a distinguere la saltellante figura del nano che chiamava a gran voce una seconda persona decisamente più alta, Audrey, alla quale seguì poi una terza ed infine una quarta in una breve processione di maschere carnevalesche che parevano essere uscite dalla tana del Bianconiglio per contagiare il mondo della loro meraviglia.
Quasi tutti nello stesso istante, i quattro volti si spostarono dal compagno alla mia persona, prendendo a fissarmi silenti con una curiosità quasi invadente per poi tornare a far quadrato e a parlottare sommessamente tra loro.
Stavo considerando la più che ragionevole possibilità di ritirarmi per evitare così, nell’eventualità la padrona fosse salita, di ritrovarmi nel bel mezzo di quell’assurda bagarre e, di conseguenza, nei guai dopo neanche un quarto d’ora dal mio arrivo.
Tuttavia, prima che potessi muovere anche solo un muscolo, uno di loro alzò nuovamente il capo al mio indirizzo, congelandomi con lo sguardo.
« Vous êtes l’anglais, eh?(10)» esclamò scoprendo un incisivo d’oro che luccicò nella penombra come una lucciola al crepuscolo.
Non era francese: oltre alla marcatissima pronuncia della esse, i tratti del viso denotavano senza dubbio origini iberiche o italiane, per non parlare della stravaganza degli abiti. Dunque, non conoscendo né lo spagnolo né l’italiano, e cominciando a fremere di fronte alla prospettiva di intraprendere una conversazione in francese, azzardai qualche parola nella mia lingua.
«Precisamente» risposi, e mi morsi la lingua rimproverandomi per aver scelto proprio “precisamente” per esprimere un’affermazione e non un semplice “sì”. Non volevo rendermi detestabile fin dall’inizio!
«Mi chiamo John Watson, da Londra, e sono onorato di fare la vos… tanto piacere.»
Quasi fossero cerebralmente collegati, mi sorrisero tutti insieme con inaspettato calore e mi invitarono a unirmi a loro per bere qualcosa.
«Oh, mi piacerebbe ma sono davvero molto stanco e credo di aver bisogno di un bagno, ora come ora.»
Dall’occhiata che mi lanciarono in perfetta sincronia compresi che, in fin dei conti, non avrei avuto alternativa, anche perché dall’aspetto dell’appartamento dentro al quale venni letteralmente trascinato capii che il mio vestito sgualcito e l’intera giornata senza l’ombra del sapone non avrebbero dato più di tanto nell’occhio.
Il disordine, insieme a un costante e destabilizzante odore di vecchiume e sudore e a un singolare gusto in fatto di arredamento, regnava sovrano. La posizione dei mobili, come del resto di ogni singola cosa presente, non aveva semplicemente un senso: un paio di letti di ferro battuto, invasi da enormi cumuli di cianfrusaglie e vestiti d’ogni sorta e colore, se ne stavano segregati uno all’angolo opposto dell’altro di uno stanzone fiocamente illuminato che, prima di essere scambiato per un deposito di ogni genere di ciarpame, doveva essere stato alquanto ampio.
Al centro, era stato predisposto quello che, a un primo sguardo, mi parve una sottospecie di atelier-teatro-osteria con tanto di pianoforte e alberi di cartone colorato, un tavolaccio oblungo apparecchiato con un lenzuolo da letto che gli faceva da tovaglia, alcune candele di lunghezza e tinte diverse piantate su candelabri d’argento oscenamente fasulli e infine una sterminata legione di bicchieri, bicchierini, bottiglie e bottigliette quasi vuoti.
In mezzo, marciva un pietoso cesto di frutta smangiucchiata che in seguito intuii essere il modello che qualcuno stava abbozzando su una tela appoggiata ad uno zoppicante cavalletto poco distante.
Non osai chiedere di curiosare nelle altre stanze.
«Sedetevi!» cinguettò il nanetto nel suo caramelloso accento francese indicandomi una seggiola così sgangherata che, per salvaguardare l’incolumità del mio osso sacro, mi fece declinare l’invito.
Intanto l’iberico mi aveva letteralmente strappato di mano la valigia gettandola vicino a un mucchio di altre borse e abiti da rammendare.
«Fate attenzione con quella! C’è una Underwood dentro.»
Fino a quel momento non credevo possibile che un uomo potesse riprodurre così tanti tipi diversi di sguardo ma quando all’improvviso tutti smisero di fare quello che stavano facendo per guardarmi me ne stupii. Restituii a mia volta l’occhiata che, in quel momento, doveva essere molto simile a quella di un colono invitato a desinare nella capanna di un indigeno: sospettoso. Il loro, un ibrido tra la meraviglia e il sollievo.
«Vous… vous êtes écrivain?(11)» domandò timidamente il più smilzo dei quattro, un omino vestito di velluto da capo a piedi, così gracile e curvo che provavo timore solo a guardarlo per paura di incrinarlo.
«Éc… Écrivain?» chiesi a mia volta, poiché ignoravo il significato del termine.
«Scrittore. Scrittore!» esclamò raggiante l’iberico che, come se un’entità invisibile gli avesse spaccato una bottiglia in testa, barcollò per qualche secondo prima di schiantarsi di faccia al suolo dove cominciò a russare con tale passione da far quasi invidia a un verro.
Quell’improvviso silenzio, fino a quel momento rimasto sospeso a mezz’aria insieme ai nostri respiri, si infranse nuovamente deflagrando nel consueto fracasso di oggetti scalciati via e persone impegnate chi ad imprecare, chi a suonare, chi a dipingere e a cantare, ma nessuno a prestare soccorso al compagno.
Non sapendo se essere più infastidito o preoccupato, mi agitai come una stupida matricola alla sua prima autopsia e l’unica cosa che mi venne in mente di fare fu di girare di schiena l’iberico e sollevargli le gambe.
«Excusez-moi! Una mano! Potreste gentilmente darmi una…»
Lo stivaletto che di tacco mi arrivò direttamente in fronte fu la classica goccia che fece traboccare il vaso già precario che erano i miei nervi in quel momento.
Lasciai andare le caviglie del disgraziato che sbatterono al suolo con un tonfo sordo, afferrai a caso uno dei bicchierini sulla tavola, lo riempii fino all’orlo della prima bottiglia che mi capitò sotto mano e mandai giù, in un sol sorso.
Non posso dire con certezza se, quando rinvenni, fosse passata solo una decina di minuti, un’ora o una settimana. Sbattei un paio di volte le palpebre, la testa come immersa nel Flegetonte e intorno una danse macabre di arlecchini che discutevano a gran voce sul da farsi, facendo volare schiaffi e bestemmie.
«Est-ce qu’il est mort?»
«Sans doute!»
«Abrutis! Voilà qu’il revient(12)».
Non feci in tempo a rimettermi seduto che un bicchierino di quella stessa bevanda che mi aveva atterrato mi venne portato alle labbra: se giudicavo forte il Gin, dovetti subito ravvedermi.
«Bentornato tra noi, scrittore!» esclamò l’iberico sfoggiando un gran sorriso sornione.
Raccolsi tutte le mie forze per rimettermi in piedi, scosso da brevi ma potenti colpi di tosse e dal sapore acre che aveva fatto irruzione nella mia bocca squassandomi.
Quattro paia di occhi, uno più allucinato dell’altro, mi fissavano al di sopra di altrettanti sorrisi forse ancor più inquietanti.
«Co-come state?» chiesi al giovane moro ricordandomi tutt’a un tratto del suo spiacevole inconveniente.
«Come dovrei stare? Da Dio, como siempre!» rispose quello come niente fosse successo, e si versò un bicchierino imitato subitamente dai compagni.
«Ma voi… voi…»
«Non ricorda assolutamente nulla, monsieur» intervenne lo smilzo, quasi in un sussurro. «Ha quella cosa, sapete, del sonno. Non riesce a controllarlo! Può mettersi a dormire in qualsiasi momento e ovunque, così, all’improvviso!»
«Ronf ronf!» grugnì in un’onomatopea il nano unendo i palmi e portandosi entrambe le mani giunte su una guancia.
«Ed è per questo che siamo in terribile ritardo con la commedia!» starnazzò Audrey sventolando un plico di fogli scarabocchiati.
«Terribile ritardo, proprio così. À votre santé!(13)» sbraitò il moro sollevando il bicchierino e, senza avere neanche il tempo di svuotarne il contenuto, ricominciò a barcollare per poi rovinare di nuovo a terra, profondamente addormentato.
Avevo studiato qualcosa a riguardo.
«Narcolessia» fu la mia diagnosi, e mi stupii del flemma con cui mi era uscita.
Mi sarei abituato in fretta a quel tipo di mondo, all’indifferenza.
«Che ne sapete, voi?» borbottò Audrey, la cui faccia era deformata da un’eterna smorfia di disappunto.
«Già, che ne sapete?» incalzò il nano.
Lo smilzo, invece, rimase in silenzio a fissarmi nell’ombra, curvo e immobile come un gargoyle in attesa di un mio probabile passo falso.
«Sono un medico.»
Se possibile, questa notizia ebbe ancora più effetto sui miei nuovi, stranissimi amici più di quella riguardo il mio passatempo letterario: non seppi dire al momento se fossero più impressionati o scettici.
«Beh, che fate lì impalato! Aiutatelo» mi sollecitò Audrey, probabilmente più in apprensione per la sua messa in scena che per la salute del compare.
«Veramente non posso fare nulla» risposi imbarazzato, e mi sentii arrossire dalla punta delle orecchie fino alle dita dei piedi – il che non mi dispiacque neanche tanto, dato che in quella stanza si congelava. «È una malattia neurologica incurabile.»
Non mi stavo rendendo utile ad alcunché. Come scrittore non avrei potuto propormi per nulla che esulasse dagli sciocchi sproloqui poetici in cui mi avventuravo ogni tanto su temi di cui non conoscevo un accidenti, come attore per sostituire il narcolettico mi sarei reso quanto meno ridicolo e come medico… In quel momento mi tremavano troppo le mani e, invece di salvaguardare la salute di una persona, avrei quasi certamente finito per strangolarla.
Non trovai così altri argomenti con cui difendermi se non le care, vecchie frasi di circostanza che, almeno nel mio mondo, quello che mi ero lasciato alle spalle, salvavano sempre la reputazione dal dover giustificare l’assenza di una effettiva utilità sociale nella grandissima tragicomica che è la nostra vita su questa Terra.
«Siete attori, quindi.»
«Io no!» esclamò il nano scoprendosi il capo e facendosi un poco più avanti. «Io sono un pittore.»
Di bene in meglio, pensai, e mi morsi la lingua per non rischiare di farmi uscire un commento malevolo alla maniera borghese perbenista, involontario frammento del mio essere.
«Oh. E… cosa dipingete?»
«Puttane» se ne uscì lo smilzo, sempre più curvo: sembrava che parlasse a se stesso, o che stesse per esalare l’ultimo respiro. «Io sono un pianista.»
«Se tu sei un pianista, Erik, io sono Caravaggio!» abbaiò il nano cambiando repentinamente espressione non appena volse di nuovo lo sguardo verso di me. «Perdonate la maleducazione ma non abbiamo il piacere di ricevere ospiti così spesso. Il mio nome è Henri-Marie-Raymond de Toulouse-Lautrec-Montfa!»
Non riuscii a nascondere un mezzo sorriso quando quel lunatico concentrato di assurdità rivestito di pelle umana e stracci concluse la sua presentazione con un profondo inchino che, a causa della debolezza delle gambe e dell’ingente percentuale di alcool nel sangue, lo portò faccia a terra in un batter d’occhio.
«Ecco!» esplose Audrey «Un altro narcoplessico.»
«Narcolettico!» corressi io aiutando il mio piccolo amico a tirarsi su. «E non è narcolettico, è solo…»
«Ivre!» mi precedette Erik mettendosi seduto e cominciando a strimpellare qualcosa al piano.
«Argh! Ci rinuncio!» strillò il commediografo assumendo una preoccupante tonalità bluastra in viso e buttando all’aria tutti i suoi fogli, che ricaddero al suolo leggeri come foglie secche destinate a marcire.
«Ma che pretendete!» feci io prendendo coraggio.
Ne sapevo qualcosa sulle troppe aspettative che certa gente si fa di altra, e mi sentivo umiliato io stesso per quelli che, dopotutto, erano nient’altro che brav’uomini dalle tasche e la testa non troppo integre.
«Non sono professionisti. Sono più capaci in altre discipline, non potete costringerli a recitare.»
Henri mi guardò come se davanti gli fosse apparsa l’allegoria della Francia in persona che, a seno scoperto e il tricolore sguainato, guida la folla verso il proprio destino di libertà, uguaglianza e fratellanza.
L’unica risposta che ottenni fu una porta sbattuta e un solitario applauso dall’iberico, magicamente risorto.
«Era ora che se ne andasse, quel pallone gonfiato!» esclamò entusiasta allargando le braccia nude e muscolose.
Non tutti sembravano pensarla allo stesso modo.
«Bell’affare, ora» mormorò il musicista sfiorando malinconicamente i tasti ingialliti del suo strumento, ridotto al silenzio. «Come facciamo con la commedia?»
«Che se la ingoi!» insorse il pittore guardandomi con una riconoscenza e una dolcezza quasi commoventi. «Abbiamo guadagnato molto più di quel pomposo sputasentenze».
Avrei scoperto molto presto che grande amico avrebbe dato prova di essere quel pittore squattrinato, o almeno che avrebbe potuto essere se avesse messo le persone prima della bottiglia.
Arrossii leggermente spostando il peso da un piede all’altro.
«A ogni modo, temo di non poter esservi di così tanto aiuto…»
«Pas du tout! Ci siete già stato di grande aiuto. Saremo anche gente semplice ma sappiamo quello che vogliamo. E il teatro non fa per noi.»
«Proprio no» convenne Erik riprendendo a suonare.
«Io ballo il tango» intervenne il moro quasi dal nulla cominciando a piroettare qua e là al ritmo del piano e, intanto, a raccontare della sua vita passata: nato e cresciuto a Buenos Aires, aveva attraversato un oceano in compagnia solo della sua grande passione per la danza e…
«Pour les parisiennes!(14)» ridacchiò Henri invitandomi a raggiungerlo accanto all’unica finestra di tutta la stanza.
«Les parissiennes?» ripetei io, e presi posto accanto a lui.
Il pittore rise basso immergendo lo sguardo nella luminosa oscurità di fuori, gli occhi sognanti e appassionati di un innamorato.
«Ah, oui. Belles demoiselles et femmes formeuses.(15)»
Nonostante il vetro che, a quanto pareva, non doveva vedere l’ombra di una spugna dalla rivoluzione, riuscii comunque a scorgere le caleidoscopiche luci della sera che, come tante lucciole impazzite, annunciavano il principio dell’intermittente vita notturna a Montmartre.
Poco distante, al limitare della piazza, quattro grandi pale di mulino, illuminate da decine e decine di lampadine rosso fuoco, ruotavano pigre, e giurai che in quell’abulico vorticare si potessero delineare i tratti del Demonio. O, forse, era solo quell’ennesimo bicchierino pieno fino all’orlo di quello stesso liquore color verde smeraldo per il quale la mia lingua stava pian piano sviluppando il callo e il mio cervello una zona a sé da consacrargli al pari di un altare pagano al quale mi sarei recato ogni giorno dopo il mio battesimo.
«Molto diverso dalla vista della mia camera da letto a Londra» sussurrai strizzando le palpebre fino a sentirle dolere quando buttai giù, un sorriso euforico dipinto sulle labbra che mi pulsavano a ritmo con la testa.
«Bevi, mon ami» disse dolcemente Toulouse accarezzandomi i capelli. «A Parigi non c’è spazio per la nostalgia.»
Ad un tratto, qualcuno bussò alla porta, tre colpi ben assegnati che ci fecero sussultare come fossero stati tre colpi di pistola.
L’iberico andò ad aprire barcollante, sbuffando e brontolando tra sé e sé come una caffettiera.
«À la bonne heure(16)» salutò il ballerino in un singhiozzo, ma in quel tono non riconobbi un quarto dell’allegria riservata a me poco prima.
Si fece avanti un ragazzo che, ad un primo sguardo, avrebbe potuto tranquillamente adombrare tutti i migliori capi in vendita al mercato degli scapoli a Londra: doveva avere su per giù la mia età, un volto tra i più simmetricamente inquietanti che in vita mia ebbi mai occasione di contemplare, non una ruga, non una cicatrice, i capelli focati pettinati elegantemente all’indietro, avvolto in un raffinato completo di raso che, come dipinto dal più abile dei pittori, cadeva a pennello su un corpo nato dallo scalpello del più geniale degli scultori.
Si tolse i guanti di pelle nera gettandoli sul tavolo assieme al cilindro con la boriosa nonchalance di chi sa di potersi permettere tutto a parte l’essere ignorato.
Quando alzò gli occhi, due zaffiri della più pura e dura qualità, puntandoli su di me, ebbi un sussulto.
Ci pensò Toulouse a rompere il ghiaccio.
«John di Londra, Victor di Mosca...»
«San Pietroburgo.»
«… San Pietroburgo» tagliò corto il pittore agitando la bottiglia che teneva saldamente per il collo tra me e il nuovo arrivato, il quale mi si avvicinò senza proferire parola.
Mi sentivo tremendamente a disagio: quell’individuo doveva vivere a Parigi da molto, molto tempo perché, se Henri non avesse avuto la gentilezza di specificare, non avrei minimamente fatto caso alle vocali leggermente prolungate o alla lieve ruvidezza nella pronuncia delle consonanti in quella voce bassa ma decisa.
Egli sarebbe sempre rimasto un enorme enigma per me, oltre che una continua sorpresa, e non solo per il suo ragguardevole poliglottismo e indubbio gusto nel vestire.
«Bel cappello» disse solo in un perfetto inglese, indicandomi il capo con un rapido e posato spostamento degli occhi cerulei.
Mi portai una mano alla testa con più nonchalance possibile, sorridendo impacciato come uno scolaro al suo primo giorno di scuola davanti al maestro, e mi scoprii il capo allungando l’altra mano verso il russo. Tuttavia questi, invece che restituire la cortesia, protese la sua alla bottiglia, custodita gelosamente tra le braccia del nano che, controvoglia, gliela cedette con un grugnito.
«Vi ringrazio» tossicchiai piegando il braccio e portandomelo dietro la nuca. «Non… non vorrei risultare inopportuno ma credo di avervi già visto, da qualche parte».
Il ragazzo sorrise appena sulla bocca della bottiglia mentre beveva a canna, squadrandomi da sotto le sue lunghe ciglia color rame.
Seguii i movimenti ritmici del pomo d’Adamo che s’alzava e s’abbassava ad ogni sorso, e la robustezza del suo stomaco mi impressionò più della sua villania: un bicchiere di quella roba sarebbe stata in grado di stendere il più consumato tra gli ubriaconi e quell’individuo se la stava tracannando con lo stesso ardore che un assetato consacrerebbe a una brocca d’acqua cristallina.
Si staccò solo quando Toulouse protestò strappandogli la bottiglia di mano per portarsela alle labbra, famelico, con una brutalità che mi fece corrugare la fronte.
«Petit(17),» esalò Victor pulendosi quel suo sorriso sghembo tanto perfetto quanto irritante con una manica della lussuosa giacca «non si è mai troppo inopportuni, qui.»









Traduzione (se dovessi aver tralasciato qualche parola sono disponibile a tradurla, eventualmente):
(1) Signore, è vostro?
(2) Grazie molte
(3) E' Parigi, amico mio
(4) Buona sera, signora. Mi chiamo Joh-
(5) Va bene, signore?
(6) Puttana
(7) Mi scusi, signore
(8) Chi siete?
(9) Siete reale?
(10) Siete l'inglese, eh?
(11) Siete... scrittore?
(12) "E' morto?"
       "Senza dubbio"
       "Idioti. Ecco che rinviene"
(13) Alla vostra!
(14) Per le parigine!
(15) Ah, si. Belle signorine e donne formose.
(16) Alla buon ora
(17) Piccolo



Note
Il titolo del capitolo è preso dal titolo omonimo di un romanzo di Céline.




Author's Corner
Non ho molto da dire, in realtà. O forse la realtà è che non ho scuse.
Non aggiorno questa long da quattro lunghi estenuanti mesi e ora che ho finito tutti gli esami insieme alle scuse ho partorito. Mi scuso infinitamente con chi mi segue per la scostanza, cercherò di rimediare come posso e sì, è una minaccia.
Spero che il primo capitolo piaccia e che lasci quel pizzico di curiosità in più che vi permetta di pazientare qualche settimana per il secondo, per il quale ho già pronta qualche bozza.
Un ringraziamento speciale alle due splendide followers a cui questo capitolo è dedicato. Come vedete non vi ho dimenticate.
Un abbraccio,
miss potter.

 
  
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