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Autore: Gogol    21/06/2008    1 recensioni
Postato sesto capitolo, un nuovo personaggio entra in gioco e i fuochi artificiali esplodono!
Genere: Avventura, Azione, Fantasy | Stato: in corso
Tipo di coppia: non specificato | Personaggi: Altro Personaggio, Demyx, Paperino, Pippo, Sora
Note: OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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II.

Un’altra nota e l’acqua si levò, catturando i raggi del sole e rifrangendoli sulla spiaggia, mentre i tratti liquidi si modellavano fino a formare la sagoma appena abbozzata di un volto umano. La melodia si articolò sui vari livelli, trillando armoniosa, facendo fremere l’atmosfera stessa d’aspettativa.

Le dita di Myde danzavano come un’entità viva sul citar, pizzicando con infallibile delicatezza le corde, sfiorandole quasi alla maniera di un amante. Attorno a lui, mentre i flussi di magia manipolatrice si espandevano e si intrecciavano condotte dalla musica, altre figure traslucide sorsero sulla battigia. Il mare cantava assieme al giovane e le loro voci si unirono, l’una leggera e fresca, l’altra profonda ed ancestrale come il tempo stesso. Myde eseguì una scala con velocità inconcepibile, eppure note ed acqua si levarono cristalline e chiaramente percepibili all’udito umano, trillando con energia. Il giovane elevò la sua musica con un virtuosismo incredibile, portandola a sfiorare i cieli, le nubi, il Sole ardente ed i pianeti scintillanti, ruggendo la sua superiorità su tutti loro. Myde raffinò ancora i flussi che si diramavano da lui, manipolando l’acqua con una facilità impressionante mentre questa lo avvolgeva in un involucro scintillante, rilucente fino a sembrare un enorme sfera di luce.

A quel punto, sulla spiaggia non c’era più nessun essere umano vivo.

I flussi così finemente modellati si afflosciarono su sé stessi, crollando l’uno sull’altro come un gigantesco castello di carte, sfasciando il finissimo intrico della manipolazione elementare, facendo rifluire l’acqua sulla sabbia bagnata. Myde ansimò in cerca d’aria, i polmoni in fiamme, il citar già evanescente nelle sue mani. E il cuore che faceva male. Molto male.

Si alzò soffocando un grido di dolore. Alberi abbattuti dalla pura forza delle onde languivano squarciati e strappati dalle loro radici secolari, semi affondati nei crateri che avevano sconvolto l’intero panorama.

Poco lontano la spiaggia distrutta, là dove la foresta tropicale un tempo sbarrava l’accesso al piccolo villaggio di palafitte, piccole pozze d’acqua si scorgono a malapena attraverso l’intrico di rovi e piante carbonizzate, violentate dalla pura rabbia del fuoco. I polmoni di Myde erano trafitti da mille spilli di ghiaccio acuminati. Quella non era stata la parte più faticosa. Quando era al pieno delle sue forze, era facile per lui manipolare i corpi stessi, aumentando il livello di acqua nel corpo fino a farlo sciogliere in minuscole goccioline.

I piedi del giovane affondavano nella sabbia bagnata. Myde procedeva curvo e faticava a reggersi in piedi, ma sarebbe passata. La vista gli si sarebbe snebbiata dopo poco, bastava non farsi vedere in quello stato da Axel. Avanzò lentamente verso il varco aperto fra gli alberi, in mezzo al fumo che si espandeva in larghe volute. Merda, imprecò fra sé. Quella sensazione stava tornando di nuovo a strisciare in lui, piccola e subdola come una delle murene di Ursula. Myde sperava che, una volta pronto, il senso di colpa sarebbe sparito del tutto.

Anche senza saper percepire le aure, tecnica basilare che Myde non aveva ancora imparato, era facile accorgersi che Axel si trovava a poca distanza. L’odore acre del fumo fece lacrimare gli occhi al suonatore; per uno come lui, abituato alla frescura e al refrigerio del mare sterminato, il caldo poteva diventare anche un’arma mortale. Calpestò alcune foglie secche e bruciacchiate, che si sbriciolarono non appena il piede, coperto dalla lunga veste di stoffa nera, le calpestò.

<< Axel? >> Chiamò, esitante. Il fumo stava cominciando a fargli perdere l’orientamento. << Axel! >> Myde si porto una mano coperta dal guanto sulla fronte imperlata di sudore. I capelli biondo rame si erano incollati alla nuca, ed il solito ciuffo ribelle penzolava moscio sulla fronte, coprendogli la visuale. Diede un colpo di tosse, poi un altro.

<< Axel! >>

Quasi impercettibilmente, il fumo cominciò a diradarsi. La gola di Myde bruciava.

<< Axel! >>

Questa volta non fu lui a parlare. Il pirocinetico fendette il fumo verso di lui. Corpo magro, atletico e scattante, Axel reclinò indietro la testa e rise sonoramente in un lampo di denti bianchi. Fiammelle evanescenti guizzavano attorno al suo viso, schizzando tanto rapidamente che a Myde sarebbe venuta la nausea, se li avesse guardati a lungo. Il Numero VIII lo chiamò ancora in falsetto, gli occhi verdi che brillavano divertiti. No, si rese disperatamente conto Myde, questa volta la debolezza non sarebbe passata tanto in fretta. Sentiva l’enorme sforzo occorsogli inaridirlo dentro, prosciugarlo, anche se in teoria il suo elemento avrebbe dovuto essere l’acqua. Il dolore acuto continuava, ma questa volta stava espandendosi. Myde strinse disperatamente i denti, tremando. La voce beffarda di Axel risuonò lontana.

<< Non dovresti sforzarti così, piccolo mezzosangue. >>

L’appellativo lo ferì ancora di più del dolore sordo ed ottundente. La magia di manipolazione lo seccava dentro ogni volta di più. Myde sentiva con devastante i chiarezza i suoi geni umani cercare di ribellarsi, contaminati da una magia incompatibile con loro. E il risultato era sempre dolore.

<< Dà - … >> Stava per chiederglielo. La sua mente era annebbiata, lo sentiva benissimo.

No.

Non lo avrebbe fatto.

Qualsiasi cosa succeda, non avrebbe accettato la pietà di Axel. Si sarebbe rialzato  da solo.

<< Che cosa, bambolo? Non ce la fai più? >> Frustrazione. Crepa, Axel.

E ’stata colpa di quegli idioti dei suoi genitori. No – delle persone che lo hanno fatto nascere. Ariel ed Eric non sarebbero stati mai i suoi veri genitori.

Era nato così, Myde lo sapeva. Mezzosangue. Tritonide ed umano al tempo stesso. Dio, ci aveva provato. Lui, da solo, sarebbe stato in grado di controllare e centuplicare la potenza del Tridente. Avrebbe potuto regnare su terra e mare insieme, ed era più potente di quanto lo stesso Tritone non avrebbe mai potuto sognare. Lo era stato, e lo era diventato ancora di più. Ci aveva provato, ma era difficile farsi accettare come sé stesso – vale a dire come un ibrido – se ti trovi in una società rigida, classista e purista, che spesso e volentieri organizza sposalizi fra cugini per mantenere puro il sangue. Ovviamente è ancora più difficile se sei rinchiuso per metà del giorno in un campo di contenzione, come una bestia pericolosa, e con delle limitazioni magiche programmate per forze molto inferiori – cosa che, lui lo sa, può provocarti un male cane.

Sfortunatamente, questa banale associazione di idee non è mai stata del tutto chiara a sua madre, che comunque avrà visto si è no una manciata di volte in tutto l’arco della sua vita. Logicamente, non poteva importargli che un potere così avrebbe potuto ucciderlo. A chi mai sarebbe importato?

<< Vattene, Axel. >> Myde tentò di rialzarsi. Il dolore andava poco a poco scemando, ma lui era ancora troppo debole. << Vattene! >>

Rialzò lo sguardo. Pian piano sentiva il dolore scemare, ma la debolezza lo invadeva ancora. Si accorse di avere la mascella serrata per la rabbia, rabbia che lo travolgeva.

In più, Axel doveva essersene già andato da un pezzo.

Come la stanchezza ed il dolore, anche il fumo si stava diradando. Appoggiato ad uno dei tronchi, mentre i rumori degli altri membri che ingaggiavano battaglia sul mondo da conquistare arrivavano attutiti, Myde si rimise in piedi. Compì tutto il tragitto inverso, superando di nuovo i crateri, le pozze d’acqua, la spiaggia distrutta e la battigia. Proseguì, immergendo i piedi nel mare, poi il torso. La veste dei neofiti era pesante e bagnata.

Myde tuffò la testa sott’acqua e subito dopo prese un gran respiro. I fondali marini si spalancavano vividamente davanti a lui. Soffocò la rabbia. Come ogni altra cosa, ogni altra dannata battaglia, sarebbe passata. Si strinse il petto con amarezza, più forte, sempre più forte. Come se potesse togliersi il cuore e gettarlo in acqua.

*

Aveva chiuso gli occhi. Come sempre, da quando era bambino, tentava istintivamente di resistere al sonno, di opporsi alla disperata pesantezza delle palpebre. Alla fine però si era rassegnato; come per magia, aveva cominciato a respirare nel tipico modo dei dormienti, e la sua mente fu avvolta nell’incoscienza dopo un ultimo pensiero.

Forse stavolta non verrà.

Ovviamente, venne.

* Come ogni volta, era inconsapevole che si trattasse di un sogno. Sentiva la vaga sensazione di immaterialità, di indefinito propria dei sogni, aleggiare attorno a lui, ma la sua mente semicosciente si rifiutava di fare il collegamento.

Come in molti dei sogni, era piccolo. Quella volta stava seduto a gambe incrociate sull’ampio letto a baldacchino degli appartamenti reali, le gambette che affondavano nel morbido materasso. Indossava un piccolo farsetto verde brillante, riadattato appositamente per le sue forme di bambino florido; dal colletto, che quasi gli sfiorava le guance paffute, un gigantesco foulard dorato erompeva come un fiume in piena che avesse rotto gli argini. Il ragazzino era fastidiosamente consapevole dei bottoni pericolosamente tesi a tenere insieme il voluminoso panciotto che portava al di sopra del farsetto.

Si stava annoiando. Myde sbuffò e si afferrò le ginocchia con le mani, dondolandosi simile ad una palla per qualche minuto. Intanto, la porta verde continuava a rimanere chiusa: nessuno che la aprisse o che entrasse anche solo a dare un’occhiata. Lena, magari, ma non Greta, no ( vecchia arpia pelosa ), Lena era giovane e simpatica e gentile, con un sorriso che illuminava Myde da cima a fondo. Greta invece era adunca, magra come uno stecco, e spesso lo guardava con manifesto disprezzo. La sera prima Myde gli aveva rovesciato addosso la zuppa, dopo che lei aveva ridacchiato ed aveva detto non ricordava più cosa fra sé e sé.  Lei lo aveva fulminato con uno sguardo che avrebbe fatto intimidire suo nonno e aveva borbottato qualcosa sui ragazzini viziati e ibridi, qualsiasi cosa volesse dire. Per un po’ il bambino aveva temuto che lei lo andasse a raccontare a qualcuno, poi si era ricordato di essere un nobiluomo. Come si diceva nel suo caso, nobilbimbo? Aggrottò le sopracciglia perplesso e i suoi occhietti verde mare sembrarono affondare nelle guance. Non lo sapeva.

Dopo un po’ di tempo Myde avrebbe visto volentieri anche Greta, se non altro per rovesciargli addosso altra zuppa ( Andava tutta giù per i capelli!). La camera era silenziosa, come se fosse stata in un altro mondo. Sopra il tripudio di pizzi e coperte del letto a baldacchino, gli arazzi verdi intarsiati d’oro, con il Tridente e le Sirene Gemelle simbolo della Monarchia del mare, frusciavano agitati da una lieve brezza. Una grande finestra di corallo trasparente, che occupava quasi tutta una parete, mostrava l’oceano.

Myde ci andò davanti e vi appiccicò il viso grassoccio, ammirato come sempre. Davanti a lui, centinaia di pesci, granchi, carpe di ogni forma e colore formavano un enorme serpente colorato, prima rosso poi blu poi ( E’ bellissimo! Wow! ) giallo poi verde …

Piccole macchioline stavano ballando negli occhi di Myde. Il ragazzino distolse lo sguardo, leggermente stordito. Quello era solo il traffico minore, quello dei piani più bassi delle altissime torri affusolate. Guardando sotto il davanzale Myde vedeva, attraverso la finestra ed il blu scuro del mare, le pietre lucide della base della costruzione affondare con decisione nella sabbia molle, già assediata dalle alghe. In alto, invece,  la luce cominciava a filtrare maggiormente. Lunghi ponti di cristallo, alti ed affusolati, si inarcavano innumerevoli attraverso le torri sottili, intersecandosi in tutti modi possibili ( Bellissimo!!!! ) ed immaginabili attraverso quella perfetta città, in quelle architetture ardite edificate contro le leggi della fisica e dei Mondi dai Nuovi Tritonidi.

Questa è Atlantica. Bellezza. Purezza. E torri.

Non sembrava un pensiero suo e Myde si chiese da dove fosse uscito, ma era vero. Le torri, oh, le torri! Prive di merli, lisce, affusolate, così sottili che di profilo sarebbero potute scomparire, cilindri con aree quasi inesistenti, protese come dita di una bellissima creatura verso la superficie! Le torri così pure, così belle, spaventosamente prive di imperfezioni, monumento al potere del Popolo del mare!

In realtà, tutti questi pensieri avrebbero potuto essere riassunti, nella testolina di Myde, come un puro e semplice Wow! . Ma il significato era lo stesso. Myde amava – no, adorava – Atlantica, la più bella città del mondo, il fulcro della potenza degli abitatori del mare. Nessuna città sulla terraferma, Myde ne era convinto, la eguagliava.

Ovviamente, erano ancora i primissimi tempi.

Qualcuno bussò alla porta.

**

Si rizzò a sedere sul letto, la camicia appiccicata al petto, la bocca spalancata. Piccoli rivoli di sudore gli colavano dalla fronte, brividi di freddo lo scuotevano. Myde afferrò l’orlo delle lenzuola scomposte, tremando come una foglia.

Calma, adesso. Calma.

Scostò i capelli biondi dal viso, respirando a più riprese. Aveva ricominciato coi sogni, e questo non era affatto un bene.

Scostò i capelli biondi dal viso, respirando a più riprese. Aveva ricominciato coi sogni, e questo non era affatto un bene. A tentoni cercò il lucciglobo vicino alla sponda del letto, lo trovò e vi poggiò sopra una mano. Dopo qualche secondo, la piccola sfera cominciò ad emettere una lieve luce soffusa, che a poco a poco rischiarò la stanza. Il giovane si liberò delle lenzuolo con un gesto infastidito, scuotendo la testa per abituarsi alla luce. Il lucciglobo era quasi giunto alla fine del suo ciclo vitale, si rese conto Myde guardando la sfera le cui onde luminose si facevano più flebili di minuto in minuto. Le pulsazioni vitali che l’oggetto emetteva rischiaravano una stanza in penombra, che aveva come unica mobilia il letto ed un tavolino con qualche sedia. Magliette e pantaloni erano sparsi spiegazzati o appallottolati nel poco spazio rimanente, formando una pila di vestiti pericolosamente in bilico. Avrebbe dovuto decidersi a mettere tutto a posto ( dove, poi? ) ma non sarebbe poi cambiato molto. I vestiti sporchi si sarebbero accumulati nuovamente prima o poi, no? Sbadigliando ancora, Myde aprì gli scuri malandati e lasciò che la luce del giorno filtrasse attraverso la camera.

 Come sempre un’onda di suoni, odori e voci si riversò dalla finestra assieme alla luce; una profusione mescolata di profumo di torte di mele, richiami, suoni fruscii incredibilmente rimbombanti, sprazzi di luce che non provenivano dal sole o dai lucciglobi scassati ai lati delle strade. Nel suo solito modo chiassoso e rimbombante, la Città di Mezzo salutava gioiosamente il risveglio di Myde. Il sole investiva la piazza al di sotto dell’albergo scacciando le poche nubi in cielo, posando i suoi raggi sulla moltitudine di persone di ogni razza, etnia e colore che brulicava per le vie. Bancarelle sgangherate proliferavano come funghi in ogni spazio disponibile, a ridosso delle costruzioni, l’una addossata all’altra, persino in prossimità dei canali di scolo; sostenute con assi di legno, casse, o persino con la merce particolarmente resistente. Da un piccolo gazebo fiori di ogni sorta si avviluppavano indolenti sulla tenda e sui negozi degli altri commercianti, sfiorando le gabbiette appese a travi di legno in cui esserini simili a canarini e topi cinguettavano e squittivano, o trespoli dove grandi uccelli dai becchi adunche e le piume blu rosate scrutavano i passanti con sguardo arcigno. Decine di Moguri strillavano petulanti sopra le loro mercanzie ammassate in ogni pertugio disponibile, piccoli batuffoli rosati che parevano in preda ad un ictus per quanto si agitavano. Una insettoide dal corpo sottile e le ali trasparenti si fece largo fra le bancarelle di legno scostando bruscamente un uomo malmesso, che le imprecò dietro. La sua voce si perse nella cacofonia della piazza, il suono delle campane della torre, gli strilli isterici dei Moguri. A Myde venne in mente il sogno che aveva fatto; se Atlantica era il trionfo della bellezza razionale e cristallina, la Città di Mezzo era dominata dai vicoli, i mercati, il disordine che celava segreti.

Inizialmente, la futura città era composta da non più di quattro case in croce, e neanche si sarebbe potuta chiamare villaggio di frontiera. Per quasi cinquant’anni della sua fondazione era vissuta nel suo polveroso isolamento, rinchiusa dalle barriere dei Mondi. Quei pochi che la abitavano erano ignoranti, rozzi, senza alcuna capacità degna di nota. Il villaggio aveva continuato ad esistere senza fare rumore, e non ne aveva in effetti fatto.

 

Poi era arrivata la rottura delle barriere. Di colpo le Vie delle Stelle si erano riaperte, tracciando nuove rotte di collegamento fra i Mondi; le navi a reattore avevano pian piano tracciato una mappa dei collegamenti fra gli Universi, e come risultato quelle quattro casupole si erano venute a trovare in un crocevia di collegamenti galattici.

Cosa può succedere ad un villaggio che d’improvviso si trova in uno dei punti più importanti delle intere galassie? Potrebbe venire soppiantato rapidamente dalla miscela di usi, etnie e culture diverse che inevitabilmente convergeranno lì nei loro viaggi nel cosmo, alla ricerca di commerci e ricchezze. Oppure, come era successo a quel particolare insediamento, avrebbe potuto trarre vantaggio dalla situazione. Assorbire le caratteristiche di un grande e brutto fungo creato mescolando senza ritegno i costumi più diversi in un calderone in procinto di esplodere da un momento all’altro. Così adesso la Città di Mezzo era diventata potente, e ricca; una disordinata metropoli variopinta di ogni colore ed abitata da ogni razza. La sua apertura quasi totale ai nuovi venuti che potessero permettersi anche solo un soldo di rame aveva fatto sì che centinaia – migliaia – di persone di ogni razza e colore si riversassero là, edificando capanne e case di mattoni con i materiali che trovavano, pronte in tutto e per tutto a ricominciare una nuova vita. Nella città si nascondevano reietti, ribelli, agitatori sociali e qualsiasi ogni altra classe scomoda nelle strutture politiche dei loro mondi. Si nascondevano negli alberghetti sgangherati, per le strade ed i vicoli illuminati fiocamente da lucciglobi, dormivano nelle casse o sulle stesse bancarelle che riuscivano a mettere su. In pochi anni la Città di Mezzo aveva decuplicato le sue dimensioni, e cresceva. Cresceva ancora, inglobando villaggi vicini, occupando terre. E ancora non si era fermata.

Con un sospiro, Myde aprì la porta della pensione stretta fra due grossi edifici di malta e mattoni immergendosi nella folla a spintoni. Spesso, nella Città di Mezzo, era l’unico modo per crearsi una via da percorrere nella calca. Un essere simile ad un rettile lo fissò sospettosamente torcendosi le dita artigliate ed unte, quindi tornò alla sua bancarella con un passo goffo ed ingobbito. Il giovane scostò uno degli invadenti germogli rosa che stringevano l’assedio attorno all’esercizio del loro coltivatore e si diresse a passo veloce verso uno dei vicoli che si irradiavano dalla piazza principale come vene sottili. Una vera e propria cascata di lucciglobi legati fra loro e in quantità tale da coprire quasi tutto lo spazio aereo fra i due marciapiedi della stradina ronzavano intermittenti, a tratti spegnendosi come quello della sua camera. Verso la fine del vicoletto alcuni palazzi fatiscenti proiettavano ombre sinistre sul selciato sterrato. Myde imboccò con sicurezza una svolta dietro l’altra, fino a compiere un largo giro. Molte delle botteghe erano ancora aperte anche quella sera, ma alcune avevano già chiuso i battenti. Un’insegna monca penzolava tristemente da una porta di legno scheggiata.

Si rese conto, d’improvviso, di essere solo nella via. Il buio stava già iniziando a calare, a strisciare lungo i sentieri sterrati o ricoperti di selciato che fossero. Perché era rimasto chiuso in casa? E perché aveva dormito così tanto?

Interrogativi a cui Myde non avrebbe saputo dare una risposta. Continuò a camminare, accelerando il passo. La bottega Struggle non si trovava da nessuna parte. Iniziò ad innervosirsi.

Fortunatamente per lui conosceva abbastanza bene quella parte della città. Presto le squallide bottegucce lasciarono il posto ai lucciglobi ben funzionanti della piazza del mercato, ancora ammassata su sé stessa come un enorme animale. Il negoziante rettile stava cercando di convincere l’essere farfalla di poco prima ed un batuffolo di pelo con grandi orecchie rosate a comprare una sorta di germoglio avvizzito dal quale si sprigionavano esalazioni verdastre. Alcuni Moguri si stavano apprestando a disfare la merce ancora invenduta, stipando cristalli e fialette apparentemente fragili in sacchi di juta più grossi di loro. Vicino le fondamenta della grande torre campanaria di pietra, un orologiaio umano dai capelli paglierini e lo sguardo intristito stava rimettendo, con cura, i suoi strumenti in piccole fodere malmesse. Myde si avvicinò distrattamente. La pensione era proprio là vicino. Alzò una mano per salutare l’uomo e

Un ronzio.

Era un suono appena percettibile, eppure gli esplose in testa con la violenza di un allarme antincendio. Frenetico, si guardò intorno. La donna farfalla emise un gridolino civettuolo e si avviò a grandi passi verso un viottolo laterale, mentre il rettile batteva le zampe squamate sul legno della sua bancarella e le vomitava addosso insulti.

Ed eccolo di nuovo, quel ronzio, appena più persistente di prima. Si modulò attraverso i tetti, i comignoli, le strade. Myde, piano piano …

Lo identificò. Lo fece nello stesso momento in cui la donna farfalla si irrigidiva ed emetteva un gridolino strozzato, nello stesso istante in cui il rettile, spalancando gli occhietti neri per la sorpresa, lasciava cadere la sua pianta e freneticamente si lanciava oltre il bancone, sibilando.

Varchi oscuri aperti nella città.

***

I bicchieri tintinnarono sonoramente, accompagnati da una risata nasale e sguaiata.

Paperino si abbandonò scompostamente sull’ampio divano laccato, affondato letteralmente fra i cuscini e le decorazioni eccessive dei vestiti donatigli. Gli abiti sontuosi ed eleganti costituivano un bizzarro contrappunto alla corporatura tozza e tondeggiante del piccolo palmipede, ma era evidente che lui non se ne preoccupava troppo, inebriato com’era dall’improvvisa fusione delle sue penne e piume con il lusso di cui i signori del palazzo gli avevano fatto dono. Sembrava leggermente avvinazzato.

Pippo brindò con una certa perplessità. A differenza del suo compagno, l’allampanato Capitano dei Cavalieri aveva scelto per la serata la sua solita uniforme verde ricolma di tasche, stirata e pulita quanto bastava. Il suo lungo muso pieghettato si agitò esprimendo buffamente il suo disagio. Non doveva essere del semplice succo di fragole quello che stavano bevendo? Per sicurezza, non toccò il bicchiere. Paperino lo scrutò perplesso per un attimo da dietro il piumaggio arruffato, alzandosi per osservare il volto di Pippo che lo superava di quasi tutto il busto. Con una scrollata di spalle mandò giù l’intero contenuto del bicchiere, il pomo d’Adamo che si alzava e si abbassava.

<< Paperino … >> tentò Pippo con poca convinzione. L’ex- Mago di Corte appoggiò il bicchiere sul tavolino della Sala degli Ospiti e sorrise. << Goditi la vita una volta tanto! Quando ci ricapiterà un’occasione del genere? Una mano si agitò eloquentemente nell’aria sbucando dalle maniche larghe a sbuffo. Vedendo che il compagno non smetteva di fissarlo serio, aggrottò la fronte.

<< E’ solo per due giorni, no? Due giorni e poi ce ne ritorniamo alle battaglie ed ai combattimenti. Tu con il tuo scudo, io con il mio scettro. E Sora con il suo Keyblade. Atlantica è un mondo isolato dal resto delle connessioni spaziotemporali, no? Di cosa ti preoccupi! Un qualche Heartless di frontiera ed avrà risolto tutto. >>

Pippo annuì, di nuovo. Non l’avrebbe ammesso neppure con sé stesso, ma era preoccupato. Erano arrivati al punto di abbandonare Sora per due bicchieri dal dubbio contenuto? Preoccupato, e in colpa.

La promessa che li legava a doppio vincolo al Custode, però non c’era più. Era svanita assieme con Re Topolino, l’ultimo sovrano del Trono Bianco, Sua Maestà. Vincolati dal giuramento, i due più fedeli servitori della Monarchia Augusta avevano combattuto Heartless e Nessuno, salvato la vita a Sora innumerevoli volte … almeno quanto lui l’aveva salvata a loro. Ricordò Larxene che troneggiava su Sora, un sorriso crudele sul volto perfetto, i pugnali che le danzavano fra le dita affusolate. Si era lanciato all’attacco, lo scudo alzato, contro la malvagia figlia del fulmine pur di salvare il Custode, mentre la luce verde dell’incantesimo curante di Paperino lampeggiava su di lui steso a terra.

Marluxia. Ricordò la sua falce arcuata sibilare verso Sora e la Copia di Riku, ed il suo scudo segnato dalle tacche che la intercettava con le forze rimaste.

Poi si era anche preso quella brutta botta in testa, alla battaglia per la Fortezza Oscura che in seguito sarebbe stata chiamata col nome di Giardino Radioso, l’antico paradiso decaduto che Ansem il Saggio aveva costruito e che era stato distrutto e profanato dai suoi sei allievi traditori che avevano poi fondato l’Organizzazione XIII. Pippo aveva affrontato quello e molto di più.

La verità era che si sentiva stanco. L’età per certe cose non l’aveva quasi più, e la mancanza della promessa svanita assieme al Castello Reale rendeva la tentazione di riposarsi ogni giorno più forte. Quando l’occasione si era presentata, Paperino non aveva esitato, e lui lo aveva seguito. C’era solo un piccolissimo difetto.

Sora aveva due giorni di ritardo.

<< Non è nulla >> aveva minimizzato Paperino all’inizio. Sora era sopravvissuto a centinaia di combattimenti, uno o due giorni non facevano la differenza. Ora che, all’imbrunire, non si era ancora ripresentato, Pippo cominciava a nutrire seri dubbi sulla sua incolumità.

<< Oh, e va bene! >> Esplose Paperino, innervosito. Sbatté il bicchiere sul tavolino corrugando la fronte e balzò a terra sulle zampe palmate arancioni. << Vuoi cercare quel marmocchio? >>

Il Capitano annuì serio.

  
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