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Autore: vannagio    24/02/2014    7 recensioni
Quella era davvero una giornata del cazzo. E JD ne aveva le palle gonfie, di quella merda. Dieci farfalline in un giorno erano troppe per fino per il Santo Protettore Dei Tatuatori. Che forse non esisteva affatto, vista e considerata la ragazzina che era appena entrata nel suo negozio di tatuaggi. C’era solo un tipo di ragazza che JD detestava più della solita Barbie Voglio Una Farfalla Sull’Inguine, ovvero la classica Bellezza Dark.
Genere: Azione, Commedia, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: Lemon | Avvertimenti: Violenza | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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- Questa storia fa parte della serie 'Una storia di metallo e inchiostro'
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Capitolo 4




Marie Louise aveva appena lasciato un cliente soddisfatto nel bagno del Goldfinger (per una volta era lei a uscirne per prima) e aveva deciso di essersi meritata una sigaretta.
Questa volta è davvero l’ultima, da domani smetto sul serio.
Aprendo la porta sul retro, venne investita dall’odore dolciastro di marciume e decomposizione che proveniva dai cassonetti. Poco male, aveva avuto a che fare con odori di gran lunga più sgradevoli. Il gradino ghiacciato contro le chiappe invece non era una bella sensazione, ma la voglia di fumare era tanta, perciò intimò alle sue chiappe di pazientare, mentre tirava fuori dalla pochette di perline tabacco e cartine. A Marie Louise non piaceva comprare le sigarette già pronte. Primo, perché costavano un occhio della testa, era molto più conveniente comprare il tabacco sfuso. Secondo, perché lei preferiva i preliminari all’atto vero e proprio, anche quando si trattava di fumare una semplice sigaretta.
«Marie Louise?».
Una sagoma scura si stagliava contro il lampione.
«Chi è là?».
«Sono io».
La sagoma si mosse e, togliendosi da davanti alla luce, a poco a poco assunse le sembianze di una ragazza dai capelli biondo miele, che indossava un chiodo di pelle nera e un paio di anfibi.
«Honey? Che ci fai qui? Tuo zio ti sta cercando in lungo e largo!».
Honey si sedette accanto a lei, sul gradino.
«Ti prego, non dirgli che sono qui. Ho solo bisogno di parlare un po’ con te».
«D’accordo, tesoro. Ma come facevi a sapere che ero qui?».
Honey sorrise.
«Scherzi? Vieni qui a fumare la tua ultima sigaretta ogni sera alla stessa ora».
Marie Louise lanciò un’occhiata sconsolata al pacchetto di tabacco che teneva ancora in mano. Con un sospirone, lo ripose nella pochette insieme alle cartine.
«Cos’è questa storia che mio zio mi sta cercando?».
«Tuo padre ha saputo che gli hai raccontato una frottola e ha messo l’intera squadra sulle tue tracce».
«Cazzo. Ci mancava solo questa. Vorrei tanto sapere come ha fatto a… Nah, non ha importanza, tanto lo scoprirò non appena tornerò a casa».
Marie Louise le diede un buffetto sui capelli.
«Non credo che verranno a cercarti qui, per il momento. Che ti è successo, piuttosto? Sembri sconvolta».
Honey si coprì il viso con le mani.
«Sono uscita con quel ragazzo di cui ti ho parlato, ricordi?».
«È andata male?».
«No, anzi! Sono stata benissimo con lui, stava andando tutto alla grande. Poi però… l’atmosfera si è scaldata e mi sono fatta prendere dal panico».
Marie Louise aggrottò la fronte.
«Ha cercato di forzarti, per caso?».
«No, no. Appena mi sono tirata indietro, lui si è fermato. Solo che… non gliel’ho detto. Che non l’ho mai fatto, intendo».
«Be’, questa è stata una mossa molto stupida».
«Lo so, ma avevo paura che…».
«…che ti considerasse una bambina?».
Honey prese a massaggiarsi il polso destro, e annuì.
«E di deludere le sue aspettative. Non ho nessuna esperienza, mentre lui ha avuto già un sacco di storie».
Marie Louise la prese sotto braccio.
«Prima di tutto ti consiglio di parlarne con lui».
«Non posso, mi vergogno troppo».
«Tesoro, devi dirglielo. E da come reagirà, capirai se è davvero così speciale come pensi».
Honey sbuffò.
«È tutta colpa di quella troia di Darla!».
Marie Louise la lasciò andare, come scottata.
«Prego?».
Lei sgranò gli occhi, rendendosi conto della gaffe appena commessa.
«Oh, cazzo. Scusa, non volevo dire che… Darla lavora con JD e mi odia a morte. Se avessi sentito cosa mi ha detto, stasera…».
«Mi meraviglio di te». Honey si ammutolì, sotto lo sguardo severo di Marie Louise. «Troia e puttana sono i tipici appellativi che usano gli uomini per insultare le donne e col mestiere che faccio ormai non mi stupisco più di quanto possano essere meschini e ipocriti. Ma una donna che chiama in quel modo un’altra donna? No, questo non finirà mai di stupirmi. Le donne dovrebbero sostenersi a vicenda, fare fronte comune, non comportarsi come oche in un recinto».
Honey si stava fissando le punte degli anfibi, adesso. L’espressione contrita e colpevole sul suo viso addolcì subito l’umore di Marie Louise.
«Vai a casa, adesso. Prima che tuo padre chiami l’esercito. E rifletti su quello che ti ho detto».



Isa stava fissando Zachariasz in silenzio, appoggiata allo stipite della porta. Si era avvolta nella vestaglia di seta nera, quella delle grandi occasioni. Forse sperava di convincerlo ad abbandonare la causa giocando sporco, ma aveva fatto male i suoi conti.
Lui, invece, era seduto sul letto di Honey e si rigirava tra le mani il vecchio gattino di peluche che le aveva regalato in occasione del suo quarto compleanno. Miss Kitty Fantastica, lo aveva chiamato. Da quel giorno non se n’era più separata.
«Tesoro, andiamo a dormire. Le parleremo domani».
«Mi ha mentito».
Isa incrociò le braccia sotto al seno.
«Lo so, anch’io sono molto delusa. Però, probabilmente, c’è un motivo ben preciso se non ci ha detto la verità».
«E quale sarebbe?».
«Davvero non riesci a intuirlo da solo?».
Il rombo di una motocicletta interruppe la loro conversazione. I vetri della finestra lampeggiarono, illuminati dai fari della Ducati di Honey. Zachariasz raddrizzò la schiena e irrigidì le spalle, pronto a tutto. Isa invece si limitò a sospirare profondamente.
«Per favore, cercate di non urlare. Non vorrei che i vicini si svegliassero e chiamassero la polizia».



Quella notte JD non era riuscito a dormire un granché. Così, piuttosto che rimanere nel letto a rimuginare, aveva preferito alzarsi e aprire il negozio con un’ora di anticipo. Quarantacinque minuti più tardi era arrivata anche Darla, che passando davanti al bancone gli aveva lanciato un’occhiata di sbieco. Senza fare commenti, per fortuna. La mattinata era proseguita lenta e noiosa, non si era fatto vivo nessuno. E forse era meglio così, perché JD aveva la testa altrove, non riusciva a concentrarsi, Darla gli chiedeva qualcosa e lui doveva farsi ripetere la domanda tre volte, prima di afferrare il significato delle parole ed elaborare una risposta sensata.
Lo sguardo atterrito di Honey compariva di continuo davanti ai suoi occhi, perseguitandolo. Il dubbio (anzi, la convinzione) di aver sbagliato qualcosa, o esagerato, o osato troppo, o interpretato male i segnali lo tormentava. Per quale altro motivo, altrimenti, Honey sarebbe scappata in quel modo?
«Cazzo, JD! Mi dai retta un secondo, per favore?».
«Uhm?».
Darla gli stava di fronte e reggeva uno scatolone tra le braccia.
«Dove devo metterlo?».
«Ah, ehm… dunque…».
Un sospiro. Poi lo scatolone cadde per terra con tonfo sordo. Darla afferrò JD per un braccio e lo trascinò fino al divano. Quando si ritrovò con una Marlboro in bocca, JD si rese conto che Darla si era seduta di fronte a lui, sul tavolino, che aveva accesso la sigaretta, le aveva dato un tiro, gliela aveva offerta e lui l’aveva accettata automaticamente, senza accorgersene. Cazzo, era proprio messo male!
Lei intanto lo stava scrutando con un’espressione serissima.
«Senti, non voglio farmi i cazzi tuoi, ma se da quella porta entra un cliente e tu lo tatui in questo stato, finisce in carneficina. Quindi dimmi cosa è successo ieri sera con la stronzetta e facciamola finita. Tanto lo so che il problema è lei».
JD le restituì la sigaretta e si tirò indietro i capelli.
«Non lo so. Stava andando tutto bene. E poi all’improvviso lei è scappata. Credo di averla spaventata. Forse si è sentita forzata. Forse ero talmente su di giri da non accorgermi che lei non era sulla mia stessa lunghezza d’onda. Cristo, deve essere per forza andata così. Mi sono comportato da maiale e lei è scappata via terrorizzata».
Darla non parlò subito. Diede un altro tiro alla sigaretta e poi con un abile colpetto di dita fece cadere la cenere nel posacenere.
«JD, dimentichi una cosa».
«Cosa?».
«Che io ho scopato con te una volta. E maiale è l’ultima parola che userei per definirti, ripensando a quella sera. Sei stato passionale e impetuoso, ma anche delicato e attento. Perciò, credimi, sono sicura al cento per cento che non hai nulla da rimproverarti».
«E quale sarebbe il problema, allora?».
«Che lei è vergine!».
Una secchiata di acqua ghiacciata in faccia lo avrebbe gelato di meno.
«Non è possibile. Cosa te lo fa credere?».
Darla roteò gli occhi.
«Uomini, avete gli occhi in culo, proprio. Tutto me lo fa credere. È lampante, JD. Ce lo ha scritto sulla fronte. Non ho mai visto un cazzo in vita mia. Siccome è un’idiota, si vergognava come una ladra e non te l’ha detto. Ieri sera si sarà resa conto della cazzata che ha fatto e si è spaventata, per questo è scappata».
JD si mise le mani tra i capelli.
«Cristo santo! Come cazzo ho fatto a non accorgermene?».
In realtà il sospetto gli era venuto all’inizio, ma con Honey non si era mai sicuri di niente, sembrava una cosa e invece veniva fuori sempre che era tutt’altro. Cazzo, normale che fosse scappata a gambe levate, le era praticamente saltato addosso! Non lo aveva previsto, non l’aveva portata nel suo appartamento con l’intenzione di andarci a letto, ma di nuovo lei lo aveva colto alla sprovvista. Aveva tirato fuori una delicatezza e una maturità disarmanti nell'affrontare l'argomento Juno, che lui non si era minimamente aspettato. E poi non ci aveva capito più un cazzo, l'unica cosa che ricordava chiaramente erano la bocca di Honey e quei dannati vestiti che lo tenevano lontano dalla sua pelle. Cazzo, cazzo, cazzo.
«JD, non è colpa tua. La scelta di non dirtelo è stata sua. Quella stronzetta è maggiorenne e vaccinata, anche se a volte si comporta come una demente. Chiamala e chiarite».
«Ho già provato a chiamarla, non mi risponde».
«Aspetta qualche altra ora e riprova. E per favore, smettila di tormentarti. Non sei un pervertito, okay? Se ogni donna avesse un JD personale, il mondo sarebbe un posto migliore».



Entrare in ufficio e trovarci dentro il Detective Martìnez era un pessimo modo per cominciare il turno di lavoro. Benedetta non si preoccupò di celare l’irritazione, tanto i poliziotti erano abituati a essere trattati come una scocciatura dalla gente. Rimase accanto alla porta, a braccia conserte.
«Dovremmo smetterla di incontrarci così, Detective».
«Starà mica pensando di invitarmi a cena?».
«No, solo che sarebbe carino se si annunciasse, prima di comparire nel mio ufficio quando le pare e piace».
Martìnez abbozzò un sorriso e si spostò di lato, togliendosi da davanti alla scrivania. Benedetta aggrottò le sopracciglia. Qualcuno aveva poggiato, tra il portapenne e il tagliacarte, una minuscola piantina d’edera. Aveva foglie appuntite, quasi cuoriformi, di un bel verde scuro e attraversate da venature sottili. Bella, ma senza fronzoli. Proprio nel suo stile.
«E quella da dove arriva?».
«È un regalo. Per lei. O per il suo ufficio».
«Gliel’ho detto, non ci so fare con le cose vive».
«Sono sicuro che con un po’ di impegno potrebbe imparare».
Benedetta lo guardò come se fosse pazzo. Poi assottigliò lo sguardo, squadrandolo dalla testa ai piedi. Il Detective doveva aver assunto una governante, perché il suo aspetto era nettamente migliorato. La cravatta era annodata bene, la camicia era pulita e stirata. Il completo era ancora lo stesso delle ultime due volte, ma era stato portato in lavanderia di recente. Peccato per le occhiaie, che a quanto pareva non volevano saperne di sparire.
«Detective, è venuto qui solo per dare un tocco femminile al mio ufficio o c’è dell'altro?».
Martìnez si sedette davanti alla scrivania, appoggiò i gomiti sui braccioli di acciaio inossidabile della sedia e unì le punte delle dita.
«C’è stato un altro morto».
«Sa, questa sua premura nel tenermi aggiornata su fatti che non mi riguardano mi commuove».
Martìnez ignorò la frecciatina.
«Apparteneva alla banda dei Coyote, questa volta. Sono stati i Polacchi a farlo fuori. Un regolamento di conti, probabilmente».
Ed ecco svelato il mistero della morte di Nowak e Mazur. I Coyote non avevano una grande simpatia per gli spacciatori. Una volta un gruppo di messicani aveva cercato di spacciare davanti a una scuola sul territorio dei Coyote. Poco tempo dopo i loro cadaveri erano stati trovati sparpagliati per la città, con lo stomaco imbottito di meth, la stessa che avevano cercato di spacciare davanti alla scuola. Benedetta soppesò l’idea di rendere partecipe il Detective della sua intuizione, ma la scartò quasi subito. Martìnez era abbastanza in gamba da fare due più due da solo.
«Deduco che non è venuto qui per accusare ingiustamente me o il mio capo, questa volta».
«Deduce bene. Sono venuto soltanto a metterla in guardia. Le cose si stanno facendo serie, lì fuori. Non è escluso che dopo aver risolto con i Coyote, i Polacchi decidano di rivolgere le loro attenzioni a questo locale. Non solo per la droga. Il cognato del suo capo, quello che chissà come è uscito dalla banda incolume, rappresenta un pericolo per loro».
Il Detective non aveva torto. Zachariasz aveva potuto lasciare la banda solo grazie ai soldi che il Cardinale aveva sborsato. Ma se adesso i Polacchi decidevano che Zachariasz era un rischio che non potevano correre… be’, quello sì che era un cazzo di problema.
«Apprezzo il suo interessamento, Detective. Ma sappiamo badare a noi stessi».
«Non ne dubito. Infatti non la stavo mettendo in guardia dai Polacchi, ma da me. Se il suo capo deciderà di prendere parte a questa guerra, non esiterò a sbatterlo in galera, insieme a lei e al resto della combriccola. È una promessa».
Benedetta aprì la porta, senza togliergli gli occhi di dosso.
«Grazie per la piantina, Detective».
Lui capì l’antifona e si alzò. Passandole accanto, sorrise.
«Mi raccomando, si ricordi di innaffiarla regolarmente».



«Sei un grandissimo pezzo di merda!».
Il pugno arrivò troppo velocemente per essere evitato. E gli fece un male cane. Del resto, cosa poteva aspettarsi dalla figlia del proprietario di una palestra di boxe? Honey stava ancora imprecando. Più per il dolore alla mano che per l’incazzatura, a giudicare da come si stava massaggiando le nocche. Connor si tastò il mento, per fortuna non c’era traccia di sangue.
«L’ho fatto solo per il tuo bene. Quel tipo non mi piace».
«PER IL MIO BENE?». Honey tentò di scagliarsi di nuovo contro di lui, ma Ben e Jonathan riuscirono a trattenerla. «Non sono cazzi tuoi con chi esco, stronzo!».
«Adesso calmati, Honey».
«Chiudi la bocca, Ben! E tu lasciami, Jonathan! Sono incazzata a morte anche con voi, cosa credete? Dove eravate mentre quel coglione faceva la spia, eh? È una fortuna che mio padre non mi abbia murata viva in casa. Se non era per mia madre, adesso non sarei nemmeno qui a dirvene quattro».
La notizia non piacque per niente a Connor.
«Be’, allora di che cazzo ti lamenti, scusa!».
Ben e Jonathan aumentarono nuovamente la presa sulle braccia di Honey.
«Mi lamento del fatto che un vero amico non dovrebbe fare la spia!».
«Se è per questo, un vero amico non dovrebbe dare pacco ai suoi amici!».
«Ma di che…».
Honey sgranò gli occhi e smise improvvisamente di dimenarsi, tanto che Ben e Jonathan ritennero sicuro allentare la presa sulle sue braccia.
Ah, ecco. Si è ricordata finalmente.
«Non sono fiero di quello che ho fatto, ma almeno io ho la decenza di sentirmi in colpa».
«Connor, non è la stessa cosa. Io non ti ho dato buca di proposito!».
«Certo, ti è solo passato di mente, perché evidentemente avevi di meglio da fare. Be’, eccoti la notizia del secolo. Se pretendi qualcosa da qualcuno, prima devi renditi meritevole di quel qualcosa. Altrimenti sei solo un egoista del cazzo, che prende senza dare nulla in cambio».
L’espressione di Honey era ferita, adesso. «Vai a farti fottere, Connor», disse. E uscì dal garage di Ben senza voltarsi indietro.
«Bella mossa, amico!», commentò Jonathan, dandogli una pacca sulla spalla. «E adesso dove la rimediamo un’altra cantante per l’esibizione di sabato?».



Questa è davvero l’ultima, lo giuro.
Diede il primo tiro e sospirò di soddisfazione. Il tabacco poteva anche uccidere, ma non c’era niente di meglio di una sigaretta rollata a mano, soprattutto dopo essere uscita dall’auto di un cliente talmente grasso da non riuscire a vedergli il pene. Lui gli aveva chiesto un pompino, ma si era rivelato meccanicamente impossibile prenderglielo in bocca. Marie Louise si era quasi convinta a restituirgli i soldi (lei si faceva pagare sempre in anticipo) e andarsene, quando lui l’aveva guardata con occhi da cucciolo bastonato. Non aveva avuto il coraggio di aprire la portiera, così lo aveva baciato sulla bocca e nel frattempo lo aveva masturbato con la mano. Alla fine non le era andata nemmeno tanto male, visto che il tizio si era rivelato un discreto baciatore.
Un sottilissimo filo di fumo si alzava dalla punta rossa di quello che ormai era solo un mozzicone tra le sue dita. Marie Louise spense la cicca sul gradino e la buttò nel cassonetto, pronta a riprendere servizio. All’improvviso, però, il rumore metallico di qualcosa che veniva scalciato la fece voltare. Una vecchia lattina di Coca-Cola rotolò fuori dall’ombra e si fermò proprio accanto ai tacchi delle sue décolletté. Forse era caduta dal cassonetto.
Be’, di sicuro non rimarrò qui ad accertarmene.
Aveva già la mano sulla maniglia, quando venne afferrata per i capelli e tirata indietro. Mise il piede in fallo, perse l'equilibrio già abbastanza precario sulle décolletté, la caviglia si piegò malamente e cadde a terra, gemendo di dolore. Due uomini incombevano su di lei. Uno alto e magro, l’altro basso e massiccio. Non riuscì a vederli in faccia, si erano messi strategicamente controluce.
«Tu lavori per il Cardinale, dico bene?», disse quello alto. Aveva una voce acuta, sembrava sul punto di scoppiare a ridere.
Marie Louise non si preoccupò di rispondere. Alzò un braccio per parare gli occhi dalla luce e mettere a fuoco i lineamenti dei due individui. Non fu un’idea geniale, la sua. Le costò un calcio nello stomaco. I conati di dolore le tolsero il fiato per un tempo infinito, mentre si contorceva come un verme infilzato nell’amo.
«Al mio amico non piacciono le puttane. È stata una puttana a staccargli la lingua a morsi. Ti conviene rispondere alla mia domanda», disse sempre quello alto.
«Sì. I-Io… sì».
«Sì, cosa?».
«Lavoro per il Cardinale».
«Allora non ti dispiacerà portargli un messaggio da parte nostra», proseguì quello alto, di nuovo sul punto di sghignazzare.
«Che messaggio?».
Ma si pentì immediatamente di averlo chiesto.



«E quindi, a quando le nozze?».
Benedetta lo fulminò con un’occhiataccia.
«Ancora un’altra parola, Thresh, e giuro che ti tappo la bocca col tuo uccello».
«Andiamo, ti ha regalato perfino la piantina! Sai cosa significa, questo? Che pensa a te continuamente!».
«Vai a farti fottere».
Thresh scoppiò a ridere. Suo fratello Liam invece si limitò ad abbozzare un sorriso. Stava facendo saltare gli spaghetti nella padella, insieme a un filo d’olio, peperoncino tritato e due spicchi d’aglio schiacciati. All’una, la notte era ancora giovane al Goldfinger, così Benedetta e i due Mori si concedevano sempre uno spuntino. Certo, il fatto che Liam fosse un ottimo cuoco non guastava. A volte, quando era di buon umore, anche Carlisle si univa al gruppo.
«Adesso devi ricambiare, però. Altrimenti lo sbirro ci resta male».
Ma Benedetta non replicò.
Era troppo impegnata ad assistere alla scena più surreale cui avesse mai assistito: Liam che lasciava cadere la padella e gli spaghetti per terra e non si curava di spegnere il fornello, prima di sfrecciare verso la porta. Lo seguì con lo sguardo e sgranò gli occhi.
«Cristo, Marie Louise!».
«Sto bene, non è così grave».
Nonostante ciò si aggrappò al braccio che Liam gli stava offrendo. Aveva un occhio nero, un brutto taglio sullo zigomo, parecchi lividi disseminati sulle braccia e una caviglia gonfia.
«Chiama il Cardinale», disse Benedetta.
Thresh non se lo fece ripetere due volte.
«Chi è stato? Un cliente?», chiese poi a Marie Louise.
Lei scosse la testa e sempre appoggiandosi al braccio di Liam, zoppicò fino a una sedia.
«Due della banda dei Polacchi».
«Merda! Li hai visti in faccia?».
«No, ero troppo impegnata a pararmi la faccia dai calci».
La porta di metallo si spalancò all’improvviso, andando a sbattere contro la parete adiacente e producendo un baccano infernale. Il Cardinale era in piedi sulla soglia della cucina, l'ombra scura sul suo viso non prometteva nulla di buono. E nemmeno l'andamento incespicante dovuto al bastone e alla gamba zoppa riusciva a renderlo meno spaventoso o pericoloso. Porse il bastone a Thresh, si inginocchiò davanti a Marie Louise, le tolse delicatamente la scarpa e prese a esaminarle la caviglia, toccandola come se fosse fatta di cristallo. Marie Louise storse la bocca in una smorfia, ma non fiatò.
«Non sembra rotta, ma Liam ti accompagnerà al Pronto Soccorso, tanto per stare tranquilli». La guardò dritto negli occhi. «Ti prometto che non la passeranno liscia».
Lei scosse la testa.
«No, Cardinale. Lascia perdere. I Polacchi hanno scoperto che hai mandato Thresh e Liam a indagare in giro. Se la sono presi con me per colpire te».
«Come se avessero bisogno di un pretesto!». Carlisle si rivolse a Benedetta. «Il Detective Martìnez ci ha visto giusto. Finite le scaramucce con i Coyote, passeranno a noi. Stanno solo preparando il terreno».
Benedetta annuì.
«Quindi che si fa?».
Thresh fece scroccare i pugni.
«Mi sembra ovvio. Li cerchiamo e li facciamo neri».
Carlisle fece di no con la testa.
«No, una reazione impulsiva è quello che si aspettano. Anche se non mi piace l’idea, dobbiamo aspettare. La prima cosa che farò domani mattina sarà parlare con Zachariasz. Le sue conoscenze possono esserci utili».
Liam sbuffò e Thresh annuì.
«Liam ha ragione. Se quello che abbiamo scoperto è vero, e l’episodio di stasera lo conferma, la banda dei Polacchi ha un nuovo capo. Per questo c’è stato quest’improvviso cambio di rotta. Non è detto che quello che Zachariasz sa della banda valga ancora».
«Ma è meglio di niente». Carlisle si rimise in piedi e Thresh gli restituì subito il bastone. «Marie Louise, mi spiace non poterti accompagnare di persona all’ospedale…».
«Non dirlo neanche per scherzo, Cardinale».
Liam prese Marie Louise in braccio, per impedirle di mettere sotto sforzo la caviglia gonfia, e si avviò verso l’uscita. Da dietro la spalla del Moro, lei rivolse un ultimo sorriso a Carlisle, che la seguì con lo sguardo, fin quando non fu sparita oltre la porta.
«E che mi dici di Martìnez?», chiese poi Benedetta. «Quello fiuta guai a chilometri di distanza. Ed è stato molto chiaro, durante la sua ultima visita».
Carlisle la scrutò a lungo, per poi sfoderare il suo tipico sorriso da squalo.
«Oh, sono sicuro che troverai un modo per tenerlo occupato».
Thresh trattenne a stento le risate e Benedetta li mandò entrambi a cagare.



Ogni volta che Big D prenotava un appuntamento per un tatuaggio, il giorno della seduta JD adibiva un angolino del suo laboratorio a quello che ormai tutti chiamavano L’angolino di Patti. Stendeva sul pavimento una vecchia coperta patchwork, insieme a qualche cuscino, uno scatolone capovolto a mo’ di tavolino, fogli di carta e mille pennarelli colorati. Così, mentre JD disegnava sulla pelle di Big D, Patti tatuava col pennarello il suo peluche di pezza. Le pareti de L’angolino di Patti erano tappezzate di disegni, che riportavano tutti in calce una grossa P rosa.
«Dov’è Honey? A quest’ora del pomeriggio non dovrebbe già gironzolare per il negozio e tempestarmi di domande sui miei tatuaggi?», chiese Big D sdraiato a pancia in giù sulla poltroncina dei clienti. «Non mi dire che ti ha già scaricato!».
JD smise per un attimo di tatuargli la schiena.
«Perché pensi che sia stata lei a scaricare me e non il contrario?».
«E mi chiedi pure perché, cazzo?». Si interruppe un attimo per assicurarsi che Patti, impegnata a disegnare nel suo angolino personale, avesse indossato le cuffie. Poi riprese il discorso a voce leggermente più bassa. «Saresti un folle a scaricare una figa del genere! Anzi, io ti avverto. Se scopro che l’hai davvero scaricata, ti ripudio come amico. Tatuatore avvisato, mezzo salvato».
JD non rispose subito. Stava colorando di verde una squama sull’ala del drago. Era un tatuaggio enorme, quello richiesto da Patti per il padre, che lo stava tenendo impegnato ormai da diverse settimane.
«Non l’ho scaricata e non ho intenzione di farlo».
«Ecco, bravo».
«O almeno, una parte di me non ha intenzione di farlo».
«Che?».
«D, sono troppo grande per lei».
«Ti prego, non di nuovo con ‘ste minchiate!».
«Ed è vergine».
Per un po’, il ronzio dell’ago accompagnò il canticchiare di Patti. Big D guardava fisso di fronte a sé, a labbra serrate.
«Non dici niente adesso, eh?», chiese JD.
«Stavo solo cercando di trattenermi dall'imprecare, cazzo! Tutte le fortune a te, e hai anche il coraggio di lamentarti!».
JD spense l’ago.
«Stai scherzando, vero?».
Big D si mise seduto. «Non scherzo no, maledizione!». L’espressione sul suo viso era seria come la morte. «Senti, amico, Tiffany è Tiffany, ed io la amo da impazzire, mi butterei da un ponte per lei, ma… come dire... ecco, non credo che sia mai stata vergine. Invece, tu! Pensa, è tutta tua! Una figa così, vergine, tutta per te!». Tornò a sdraiarsi, sbuffando. «Ma cosa ti parlo a fare, che non capisci un cazzo!».
JD riaccese l’ago e nel poggiarlo sulla pelle di Big D premette un po’ più forte del dovuto.
«Ahia, cazzo! Non fare lo stronzo, tanto lo sai che ho ragione».
«Honey non è un pezzo di carne, D. É una persona, con dei sentimenti».
«Lo so, dannazione. Honey è una persona. Una persona meravigliosa che ha scelto te. Capisci? Te! E tu che fai? Stai lì a farti mille seghe del cazzo sul fatto che è troppo giovane e vergine, quando invece dovresti baciare la terra sulla quale cammina e ringraziare il Creatore che te l’ha mandata. Sai che ti dico, JD? Vaffanculo. Sei un ingrato del cazzo. Se esistesse la giustizia divina, saresti già diventato impotente da un secolo. Invece no, maledizione!».
Non si rivolsero la parola per tutto il resto della seduta. Big D era troppo di malumore, JD troppo impegnato a rimuginare sulle parole del suo amico.



L’ufficio di Zachariasz era solo un cubicolo di quattro metri quadrati, con pareti di cartongesso, situato nell'angolo più interno della palestra. Ciononostante era il luogo ideale in cui discutere di affari importanti. Gli schiamazzi dei pugili e i tonfi sordi dei guantoni contro i sacchi da boxe proteggevano le loro conversazioni dalle orecchie indiscrete.
«Non so come aiutarti, Carlisle. Sono passati quasi vent’anni, ormai».
«Avrai pure mantenuto i contatti con qualcuno della banda… un vecchio amico, magari».
Zachariasz lo fissò in silenzio, per un minuto intero. Carlisle non aveva paura di niente, tanto meno di suo cognato. Eppure c’erano momenti, momenti come quello, in cui scrutare dentro quegli occhi di pece gli faceva venire la pelle d’oca, perché era come cercare di scorgere il fondo di un pozzo profondissimo.
«Quando tua sorella è rimasta incinta, tu sei stato molto chiaro con me. Ricordi?».
Carlisle annuì.
«Certo. Ti avrei strangolato con le mie mani, se avessi fatto soffrire Isa».
«Esatto. Sono in debito con te e dato che non sarò mai in grado di restituirti i quattrini che hai sborsato per farmi uscire dalla banda, il minimo che posso fare è mantenere la promessa che ti ho fatto. Perciò se dico che ho tagliato i ponti con la mia vecchia vita, vuol dire che l’ho fatto definitivamente e incondizionatamente. Non c’è vecchio amico che tenga».
Carlisle si lasciò andare contro lo schienale della sedia, sospirando.
«Non sai quanto avrei preferito che non l’avessi fatto, ora come ora».
«È davvero tanto brutta la situazione?».
«Tu che dici? Lo sbirro mi alita sul collo e ha anche fiutato qualcosa sul tuo passato. I tuoi vecchi compagni di brigata mi hanno fatto capire molto chiaramente che hanno intenzione di espandersi nel mio campo di specializzazione. E per via del suddetto sbirro, non posso permettermi di spaccare la faccia ai due pezzi di merda che hanno picchiato una delle mie ragazze».
Zachariasz si sedette sulla scrivania.
«Provare a trovare un accordo pacifico con i Polacchi?».
«Ci ho già pensato e credo anche che sia l’unica soluzione. L’idea di fargliela passare liscia non mi piace, ma se rispondo alla violenza con la violenza, ho più io da perdere che loro. Mi metterò in contatto con il loro nuovo capo, anche se non ho molte speranze di ottenere una risposta positiva. Quel tipo sembra disposto a fare la pelle a tutti, pur di raggiungere il suo obbiettivo».
«Deve essere molto giovane. Ai miei tempi i Polacchi preferivano gli accordi, specialmente se fruttavano molti quattrini. Però i metodi di persuasione sono rimasti gli stessi. Chissà se Stanlio e Ollio sono ancora attivi».
Carlisle assottigliò lo sguardo.
«A proposito di gente molto giovane, come va con Honey?».
Zachariasz sbuffò di frustrazione.
«Lasciamo perdere. Non sono riuscito a farmi dire chi è il ragazzo con cui è uscita l’altra sera».
«Uno della band?».
«No, è escluso. Quelli sono tipi a posto, non avrebbe avuto motivo di tenermelo nascosto. Deve essere qualcuno che sa che non approverei. E non hai idea quanto la cosa mi faccia impazzire».
Carlisle scoppiò a ridere.
«Ce l’ho eccome, invece. Mia sorella ha sposato un assassino, ricordi?».
Zachariasz lo fulminò con un’occhiataccia.
«Non perdi mai occasione per rinfacciarmelo, vero? Eppure sai bene quanto quello che ho fatto mi tormenti, giorno e notte».
Carlisle alzò le mani in segno di resa.
«Ehi, stai parlando con un pappone che spaccia droga nel suo stesso locale. Figurati se mi permetto di giudicarti».
Zachariasz prese a camminare avanti e indietro, nervoso come un toro dentro al recinto prima del rodeo.
«Credo che sia cominciato tutto quando si è fatta fare quei maledetti tatuaggi. La storia di Honey con questo ragazzo, intendo. Più ci penso, più mi convinco che deve essere andata così».
La parola tatuaggi fece scattare qualcosa nel cervello di Carlisle, ma non seppe dire cosa. «Be’, potremmo scoprire in quale negozio è andata e chiedere in giro». Sfoderò il suo sorriso da squalo. «Sempre che non si tratti del… cazzo!».
Zachariasz si voltò di scatto verso di lui, con un sopracciglio inarcato. Carlisle invece aveva sgranato gli occhi, mentre la voce di Thresh gli rimbombava nella testa.
C’era un tizio che chiedeva di lei. Sulla trentina, tutto tatuato. Ha tenuto a precisare che era solo un amico. Ha detto di chiamarsi JD.
Idiota, come diavolo aveva fatto a dimenticarsene?
«Carlisle, che diavolo ti prende?».
«So chi è. Il ragazzo di tua figlia. So chi è. E non ti piacerà».



Aveva perso il conto, ormai, di tutte le volte che aveva preso un respiro profondo, prima di varcare la soglia del negozio di JD. Quel giorno, invece, i suoi polmoni non volevano saperne di gonfiarsi e i suoi piedi sembravano aver messo radici nel marciapiede, tanta era la fifa.
Devi solo dirgli che sei vergine. Il peggio che può succedere è che ti scarichi.
Appunto.
Certo, perché evitandolo continuamente e non rispondendo alle sue chiamate avrai molte più chance di frequentarlo, giusto?
Anche questo è vero.

«Ciao, Darla. Lavati la faccia, c'è dello sperma che ti cola dal mento».
«Fossi in te mi preoccuperei dei tuoi baffi da latte. JD è in laboratorio».
«Gentilissima, come sempre».
Scostare la tenda fu più difficile del previsto, ma trovarsi faccia faccia con JD fu tutto un altro paio di maniche, tanto che un tremore alle ginocchia minacciò di farla cascare per terra come una pera cotta. Non posso farcela, si disse. Per fortuna JD era da solo nel laboratorio. Stava riordinando L’angolino di Patti. Probabilmente Big D era andato via da poco.
«Honey!».
Per la sorpresa, JD aveva fatto cadere tutti i pennarelli. Lei prese subito a massaggiarsi il polso destro.
«Ciao, JD».
«Come stai?».
«Bene. Ho avuto un po’ di grane con mio padre, ma adesso è tutto a posto».
Si scrutarono in silenzio. «Dobbiamo parlare», dissero poi contemporaneamente.
Risero entrambi, anche se brevemente e in modo nervoso. JD si lasciò cadere a gambe incrociate sulla coperta patchwork di Patti e assestando una pacca al cuscino, invitò Honey a fare altrettanto. Lei esitò, non era sicura che standogli così vicina avrebbe trovato il coraggio di dirgli la verità.
Non fare la cretina, vuoi essere trattata da adulta? Allora comportati da adulta!
Prese posto accanto a lui, mentre il cuore cercava di sfondarle la cassa toracica. «Comincia tu», disse JD.
Avanti, Honey. Tutto di un fiato, come strappare un cerotto.
«Ecco, innanzi tutto devo chiederti scusa per non aver risposto alle tue chiamate e per essere scappata via in quel modo l’altra sera…».
«No, non devi».
«…e poi devo spiegarti cosa è successo».
«Honey, aspetta un secondo».
«No, aspetta tu, d’accordo? Fammi parlare, prima che cambi idea. Non puoi capire l’imbarazzo che…».
«Lo so già», disse lui.
La mandibola di Honey sfiorava la coperta, tanto era spalancata.
«Co-come? Come hai…».
JD abbozzò un sorriso, tirandosi i capelli indietro.
«Diciamo che qualcuno mi ha tolto le fette di prosciutto dagli occhi appena in tempo».
«E…?».
«E... cosa?».
«Non sei arrabbiato?».
L’espressione genuinamente perplessa di JD la fece sospirare di sollievo.
«Perché dovrei esserlo?».
Serrò le dita intorno al polso ancora più forte di prima. «Perché non ti ho detto la verità. Perché non sono…». Le nocche sbiancarono. «...quello che ti aspettavi».
JD le sollevò il viso con due dita sotto il mento. Lei dovette mordersi la lingua per non dire qualcosa di stupido.
«Honey, a me piace da matti che tu non sia quello che mi aspetto. Non hai bisogno di fingere con me, non devi sforzarti di essere qualcos’altro. Mi piaci esattamente come sei».
Okay, calma. Cervello non andare in tilt. Non ancora.
«Anche se non l’ho mai fatto?».
Honey trattenne il fiato…
«Sì».
…e si sgonfiò come un palloncino bucato.
«Bugiardo».
JD scosse la testa.
«Non sto mentendo. A me non interessa con quanti uomini sei stata. O se sei vergine. La mia unica preoccupazione è che non sia… giusto per te frequentare me».
Honey sbuffò e roteò gli occhi.
«Mio padre ha fatto cose che… lasciamo perdere. Mio zio Carlisle gestisce un giro di prostituzione nel suo locale. Ma sono entrambi brave persone ed io non potrei immaginare la mia vita senza di loro. Quindi, per favore, definisci giusto».
«Dovresti fare l’avvocato del diavolo». La mano di JD passò dal suo mento alla sua guancia. «Voglio solo essere sicuro che tu sia convinta di quello che fai. Che non ti senta mai forzata. Posso aspettare tutto il tempo che vuoi, non c’è alcuna fretta».
Da come reagirà, capirai se è davvero così speciale come pensi.
Honey sorrise. «Ecco, questo è giusto».
Anche prendere l’iniziativa e baciarlo era giusto. Giustissimo. E JD doveva essere d’accordo con lei, perché rispose al bacio senza farsi pregare. Cristo, quanto le era mancato l’odore d’inchiostro tra i suoi capelli! Affondò le dita in quella massa setosa, per poi chiuderle intorno a una ciocca e tirare. JD non parve dispiaciuto. Anzi, reagì afferrando Honey per la vita e stringendosela addosso. Stava giusto complimentandosi con se stessa, per l’audacia e il coraggio, quando un ehm ehm la fece ritrarre di scatto, spaventata. Darla era apparsa accanto alla tenda, si era portata i capelli dietro alle orecchie e lanciava continuamente occhiate nervose alle sue spalle.
«Mi spiace interrompere l’idillio… ma, ehm, Honey, di là c’è qualcuno per te».
«ESCI SUBITO DA LI’, RAGAZZINA!».
Quella. Voce.
Il sangue le si ghiacciò nelle vene.







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Note autore:
Solito problema di connessione, giuro che non me lo sto inventando, deve esserci qualcosa nel lunedì che non va. Oppure è il destino che mi sta inviando dei segnali, forse mi sta suggerendo che non è il caso di proseguire con la pubblicazione della long. XD Per fortuna adesso ho una internet key di emergenza, perciò pubblico ora e non se ne parla più.
Anche qui, nella scena in cui Martìnez parla con Benedetta, ci sono alcune battute prese dal libro Lover Avenged di J. R. Ward, della saga La Confraternita del Pugnale Nero.
Come sempre ringrazio le mie beta e tutte le persone che seguono/ricordano/preferiscono/recensiscono o anche solo leggono questa storia.
A lunedì!
   
 
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