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Autore: MegTachema    24/02/2014    0 recensioni
Elektra e la Profezia è il primo libro di una Trilogia FanFiction basata sulla celeberrima e amatissima Saga di Harry Potter.
La Trilogia di Elektra è un sequel non ufficiale, ed è stato scritto perché, purtroppo, al cuore e alle mani non si comanda: Elektra è figlia del profondo amore e della sconfinata ammirazione per il lavoro di J.K. Rowling. Senza la sua grande penna, quest’opera non sarebbe mai stata nemmeno concepita. È per questo che ogni riga di questo sofferto lavoro è dedicata a Lei, e SOLO A LEI.
 
I riferimenti diretti e indiretti al mondo creato dalla Rowling sono coperti dal suo copyright.
Gli altri contenuti di questo libro sono stati creati dall’autrice.
 
Non è permessa alcuna riproduzione né diffusione a scopo di lucro.
Vietati plagi e scopiazzature; testo protetto da marca temporale.
Le uniche riproduzioni e diffusioni consentite sono quelle in modalità assolutamente gratuita con obbligo di citazione.
 
Meg Tachema è un acronimo.
Genere: Avventura, Fantasy, Sentimentale | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het | Personaggi: Un po' tutti | Coppie: Ron/Hermione
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Nuova generazione
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CAPITOLO 1
LA CHIAVE

 
 

«Baldoria? Ma che dici, Jack, quale baldoria?... Senti, sono una persona responsabile, mi comporto bene e sto magnificamente, quindi smettila di preoccuparti per me... D’accordo, ma non puoi chiamarmi a quest’ora, lo sai che sto lavorando e... sì, mangio... siii... nooo... cavolo! Anche tua madre me lo diceva sempre, NO che non mi caccio nei guai!... Non urlo!... Sono calma!... Bene, grazie... sì, Jack, ho capito. An-anche tu stammi bene e salutami Michelle e i ragazzi; verrò a trovarvi presto. Nooo che non lo dico tanto per dire... Jack, ti prego, mi farai licenziare... sì, va bene, a presto, ciao!»
Elektra riagganciò nervosa il vecchio ricevitore e sospirò.
Cavolo, Jack, la tua apprensione è carina ma sei uno stress! Si diede un’occhiata furtiva attorno. Meno male che funiculì non era nei paraggi, constatò sollevata. Pensa se avesse scoperto che gli ho scroccato in segreto una chiamata urbana... poteva venirgli un infart...
Non finì la frase che una figura tozza e sgraziata, incorniciata dalla soglia della porta della cucina, sbottò con malagrazia: «Eh mammamia, Power, sempre al telefono shtai? E io paaago!»
«Sta-stavo chiamando col mio skypephone, signor Cardillo. Non mi permetterei mai di fare chiamate...»
«O’ shchipechè? Como tell’aggià ddi’, chillo, o scellulare, l’ha’ da tenere shpento acca’, hai capi’?»
«Signor Cardillo, mi scus...» ma già l’uomo, tarchiato e panciuto, le voltava le spalle per tornarsene dietro la cassa del suo ristorante, in preda a quel frenetico gesto maniacale di portarsi indietro la frangia lunga, nera e untuosa, imprecando il suo detto preferito, che risuonava ormai come un vero grido di battaglia: Diavolacceu shcurnacchiateu!
Che vitaccia!, meditò Elektra, nella cucina di quel locale italiano: il signor Cardillo era un uomo insopportabile, maleducato, presuntuoso, arrogante, avaro, pettegolo, superstizioso e perennemente in lotta col progresso. Siamo circondati dalla tecnologia e quel pidocchioso non solo vorrebbe separarmi dal cellulare, ma non vuole neanche spendere un soldo per un condizionatore. Anzi, tra qualche giorno ci presenterà pure il conto per la sauna che facciamo in questo forno di cucina. Se si permette di nuovo di parlarmi così, giuro che lo pianto ‘sto lavoro!, considerava Elektra, riempiendo di piatti unticci una lavastoviglie così vecchia che per far partire il programma di lavaggio bisognava infilare uno stecchino nel pulsante di avvio, e per farla fermare si doveva staccare la spina dalla presa.
Era stata un’estate terribilmente afosa: “...Stime ministeriali sono approdate a un’oscura sentenza: la siccità di quest’anno è direttamente imputabile al processo irreversibile di cambiamento climatico, causato dall’innalzamento della temperatura del pianeta...” erano le parole pronunciate con toni apocalittici dai giornalisti di tutti i Tg nazionali, e chiaramente il signor Cardillo non se ne perdeva uno. «San Gennaro! O’ shcorno me perseguita!» commentava sempre, riferendosi al fatto che trasferendosi a Londra aveva sperato di poter sfuggire al caldo equatoriale, alla desertificazione, ai terremoti, ai maremoti, agli uragani, alle locuste, alle pandemie, alle carestie, alle catastrofi nucleari, persino allo schianto di un asteroide.
Il caldo insopportabile di quella notte aveva reso incandescente la stazione della Metro, dalla quale Elektra prendeva lo Spin-Tube Ealing, un treno a idrogeno ad alta velocità che, dal quartiere di Soho, la portava dritta a casa. Le sagome di oggetti e persone venivano distorte dalla calura invisibile, e gli schermi smart-flat trasmettevano le interviste ai giocatori della Nazionale di calcio, dando l’impressione che da un momento all’altro quei visi si allungassero per colare fuori dal video. Ma ovviamente era solo una sensazione, come quella di essere perennemente seguita per strada.
Londra era sempre stata una città piena di sorprese, però Elektra non si stupiva più di nulla. La canicola in estate, il freddo polare in inverno, c’era sempre qualcosa che dava alla testa un po’ a tutti; lei lo sapeva bene, per questo motivo aveva preso lezioni di arti marziali, e per lo stesso motivo camminava per le strade della sua caotica metropoli con uno spray al peperoncino come portachiavi, guardandosi attentamente in giro. La sua non era paranoia: avrebbe compiuto diciott’anni di lì a poco e di gente sciroccata ne aveva incontrata già un bel po’.
Che nottata infernale! Non vedo l’ora di fare una doccia, fu il piccolo pensiero piacevole con il quale si accarezzò l’anima mentre si fermava ad Alperton.

«Buongiorno, Elektra!» esclamò uno dei suoi coinquilini entrando in cucina la mattina dopo.
«Buongiorno, Charlie» borbottò lei davanti a una tazza fumante di caffellatte.
«Nottataccia?» La smorfia con la quale rispose alla domanda la diceva lunga. Sorridente, lui le augurò con un tono rassicurante: «Dai, sarà una buona giornata.»
Normalmente poco propensa ai convenevoli per via del suo carattere diffidente, Elektra annuì sforzando un sorriso riconoscente: Charlie era un ragazzo carino e affabile, sempre gentile e premuroso con lei, e non meritava di subire i suoi malumori nei loro incontri sporadici. Lo aveva conosciuto grazie a un annuncio di locazione su Facebook e, nonostante ci fossero altre persone in lizza, quando era andata a vedere la stanza lui le aveva subito fatto versare la caparra, scatenando le invidie degli altri coinquilini, molto meno simpatici di Charlie. Per fortuna lei incontrava raramente gli altri: benché fosse così giovane, era l’unica in quella casa, al 25 di Eagle Road, che usciva all’ora del tè e rientrava dieci minuti prima del coprifuoco anti-etnic gangs, e durante il suo giorno libero stava rinchiusa in camera davanti al suo PC-Globe, un computer tridimensionale di ultima generazione, avuto a metà prezzo grazie al lavoro di Charlie.
Anche quella mattina, com’era solito a quell’ora in casa, qualcuno sulle scale sorprese Charlie mentre andava a lavoro, commentando: «Ma come fai a conversare così sciolto con lei? Le auguri perfino buona giornata.»
Il ragazzo sbuffò paziente. «Senti, Genna, sta solo sulle sue ma non c’è nulla di male.»
«È svitata, altro che sulle sue. Lo sai che l’altra notte, mentre andavo a prendermi un po’ d’acqua, la sentivo parlare nel sonno in una lingua strana? Sembrava latino: una cosa inquietante!»
Dal mezzanino del secondo piano, una testa rossa si affacciò bisbigliando: «L’ho sentita anch’io!»
Charlie sventolò una mano a Mindy e raccolse valigetta e chiavi di casa, brontolando in sordina a Genna: «Tu e gli altri siete esagerati. Sono ormai sette mesi che vive qui e non siete riusciti neanche a scambiare più di due parole con lei.»
Genna si mise la borsa a tracolla e gli diede una pacca sulla spalla. «In compenso, l’hai fatto tu per tutti.» Arcuò un sopracciglio, maliziosa.
«Cosa vuoi insinuare?» protestò lui. «È una ragazza molto bella ma ti ricordo che ha diciassette anni.»
«E fa sicuramente parte di qualche baby-gang, se non ne è il capo!»
«Ma come fai a dire certe cose?»
«Senti, Charlie, quella ragazza non ci piace. Si comporta da teppista, frequenta gente poco raccomandabile, come quel tizio dall’aria losca che viene a trovarla di rado fortunatamente; ed è pure fuori di testa.»
Charlie aprì la porta di casa. «Non è fuori di testa, è solo bizzarra e sì, non sarà una santa, ma non è pericolosa. Senti, sto andando in centro, vuoi un passaggio?» tagliò corto lui.
Genna accettò di buon grado. Lei e Charlie presero la macchina e si avviarono per andare al lavoro. Charlie, in effetti, era l’unico che le rivolgeva la parola di tanto in tanto. Nonostante le critiche dei coinquilini, che se la facevano volentieri alla larga da lei, lui vedeva un po’ più al di là del suo naso, uno dei tanti motivi per il quale a Elektra Charlie non dispiaceva affatto.
«Guarda che lei non è sempre stata così» esordì lui di punto in bianco, prima di svoltare per Ealing Road. Non voleva parlarne, avrebbe tenuto tutto per sé, ma l’atteggiamento di Genna non gli andava proprio giù; così, essendo l’unico ad aver incontrato un parente di Elektra il giorno in cui era venuto a vedere come si era sistemata a Eagle Road, si sentì in dovere di darle giustizia, raccontando la sua storia: «Power, si chiamava Jack Power. Lei quel giorno non c’era, così, mentre aspettavamo che rientrasse, abbiamo fatto due chiacchiere.»
«Svitato come lei?»
«Lei non è svitata, e comunque il signor Power è davvero una gran brava persona.»
«Ma come ha fatto quella a venire su così?»
«Guarda che da ragazzina era vivace, gentile e affettuosa, una bambina adorabile.»
«Accidenti, che l’è preso poi? Ha perso la memoria?»
«Spiritosa! All’età di undici anni perse la nonna. Lei l’aveva cresciuta, anche se non era proprio sua nonna: Elektra è stata adottata, perché i suoi genitori sono scomparsi quando era ancora molto piccola. Sua nonna era la madre del signor Power, e lui mi disse che lei amava così tanto quella bambina, al punto che con sua moglie Michelle presero a cuore la sua situazione e la accolsero in casa come una figlia.»
«Non lo sapevo, mi dispiace, ma tutto ciò non giustifica le sue stranezze.»
«Forse no, ma resta il fatto che questa dolorosa separazione dalla nonna ha scatenato un trauma in una ragazzina così giovane, con un ciclo interminabile di incubi. Il signor Power mi ha raccontato che i suoi sogni strani erano talmente forti da sembrare reali.»
«Che vuoi dire? Che aveva, le visioni?»
«No! Elektra parlava nel sonno, era sonnambula e, da sveglia, dava descrizioni così inquietanti dei suoi sogni che decisero di portarla in analisi.»
«A quanto pare ce ne voleva uno bravo!»
«Già, non solo i sogni continuarono, ma questo processo, sebbene discontinuo, divenne ossessionante e modificò ampiamente il suo carattere, rendendola solitaria, scontrosa e poco avvezza a stringere legami. Forse è una sorta di autodifesa quella di tenere tutti a distanza, per la paura di subire nuovamente il trauma di un forte distacco.»
«Certo, prima la morte dei suoi genitori, poi la pseudo-nonna.»
«I suoi genitori non sono morti.»
«Ma non hai detto che erano scomparsi?»
«Appunto, letteralmente scomparsi; si sono perse completamente le loro tracce... ma che fai, piangi?»
«Le storie sugli abbandoni mi fanno sempre quest’effetto... è così triste!»
«Già, ma il signor Power non la pensava così.»
«Allora hai visto che è svitato pure lui?»
«Ma la pianti! Jack Power mi assicurò che i genitori di Elektra furono costretti a darla in affidamento, e lo fecero a malincuore.»
«E perché?»
«Nemmeno lui ne conosceva il motivo e non fece in tempo a farselo rivelare da sua madre.»
«Quindi nessuno lo sa, nemmeno Elektra?»
«Esatto, figurati che lei ha sempre saputo che i suoi erano morti, fino a quando il signor Power non le disse la verità.»
«E lei come reagì?»
«Come Jack Power non poteva prevedere: molto male. Vedi, Genna, il signor Power pensava che rivelare a Elektra che i suoi genitori fossero vivi potesse accendere in lei una speranza positiva, come l’idea che un giorno avrebbe potuto incontrarli di nuovo.»
«E invece cosa successe?»
«Elektra non accettò l’idea che i suoi l’avessero data via perché, a suo avviso, nulla avrebbe potuto giustificare una tale scelta.»
«Decisa la ragazza! E quanti anni aveva quando glielo disse?»
«È successo l’anno scorso, dopo il capodanno, difatti è un anno e mezzo che Elektra vive per conto suo.»
«Cosa? Ha lasciato la sua famiglia perché il padre adottivo le ha detto la verità?»
«No, Genna, ha lasciato la sua famiglia perché non ha sopportato che lui le avesse nascosto la verità.»
«Ma quell’uomo come ha potuto lasciarla andare via di casa? Aveva solo sedici anni!»
«Non ha avuto molta scelta: Elektra è scappata diverse volte e, in una delle sue rocambolesche fughe, ha pure fatto venire un colpo alla loro vicina, perché si è intrufolata in casa sua, saltando dalla finestra della sua camera, al secondo piano, fin dentro la sua stanza da letto, fracassando il vetro. Questo mentre lei e suo marito, una coppia di anziani, dormivano beatamente.»
«Chissà che spavento! Te l’avevo detto che è pazza.»
«Era ed è solo un’adolescente irruenta e difficile a causa della mancanza di una figura di riferimento stabile.»
«Mhum,» borbottò lei, «e quei due poveri vecchietti? L’avranno denunciata, ovviamente.»
«Sì, ma la cosa non ebbe conseguenze: all’arrivo della polizia i vicini erano già stati rabboniti dal signor Power. Loro, che conoscevano bene la situazione di Elektra, decisero di chiudere un occhio, ma il signor Power si sentì responsabile e...»
«E?»
«La lasciò libera d’andare via definitivamente. Lei abbandonò la scuola, si trasferì da sola nel cuore di Londra e, rifiutando qualsiasi aiuto economico, iniziò a lavorare per mantenersi, e ti assicuro che per una ragazza della sua età deve essere stata dura.»
«Sì, lo penso anch’io... davvero ammirevole!»
«Hai cambiato idea su di lei, adesso?»
«Beh sì, maaa...»
«Che fai col telefono in mano? Chi chiami?»
«Il fabbro: voglio che venga a blindare la serratura della mia stanza.»
«Ho sprecato il mio fiato!» esalò contrariato il ragazzo.

«Che schifo di lavoro!» brontolava malmostosa Elektra, ancora seduta al tavolo della piccola cucina, davanti alla sua tazza di caffellatte ormai fredda.
Come rimpiango i tempi del Planet Web, lì sì che mi divertivo da matti!, pensò, rimpiangendo ardentemente le mansioni di barman dietro al bancone del Caffè multimediale dove aveva conosciuto più della metà dei suoi clienti più affezionati. Là sì che si facevano affari d’oro; è un peccato che mi abbiano licenziata, e poi solo perché avevo infettato tutte le postazioni. Mica l’ho fatto apposta: quella sera ero solo più ciucca del solito.
A Elektra scappò un sorriso compiaciuto. La sua grande passione per l’informatica le aveva dato grandi soddisfazioni: aveva creato, insieme a un suo amico, una piccola attività, illecita ma fruttifera, che l’aveva introdotta a pieno titolo nell’Olimpo degli hackers, e come sede aveva proprio quel webcafè, dove i due si erano conosciuti.
La sua invenzione geniale era stata il Phoenix-Wizard, un virus invisibile alle normali difese dei sistemi informatici tradizionali, ma che, una volta scovato e distrutto, riusciva a ricrearsi dal nulla, come dalle sue stesse ceneri. Dyn, il suo socio in affari, non smetteva di adularla: «Tu c’hai messo della magia in questa piccola creaturina diabolica!» le disse il giorno in cui Elektra gli mostrò di cosa era capace la sua Fenice. Dyn era entrato volentieri in affari con lei perché aveva un grande fiuto, quello dei soldi, e in effetti dopo che ne erano entrati a palate non la perse più di vista.
Dyn... si ripeté Elektra, stringendo a sé la tazza. Credo che stia per Dynomite, nick astrofisico davvero, ma sarei curiosa di sapere come si chiama, anche se rischio seri guai a chiedergli il suo vero nome. Anch’io, del resto, avrei dovuto sceglierne uno un po’ più originale. Kitty... fece una smorfia schifata, come tutte le mie password. Se lo avessi fatto, avrei potuto continuare a fare magie indisturbata!, concluse piccata.
Il lavoro come lavapiatti nel ristorante italiano era iniziato difatti come copertura, ma si rivelò ben presto irrinunciabile: craccare, masterizzare per rivendere programmi o piazzare il Phoenix-Wizard per infastidire le banche dati o i sistemi aziendali in concorrenza coi suoi clienti, era diventato pericoloso ed Elektra non poteva più esporsi. Esisteva da qualche anno una commissione investigativa di controllo per crimini informatici, la D.I.S.I. (Dipartimento Inquinamento Sistemi Informatici di Scotland Yard) che stava addosso ai pirati più incalliti. Per non fare mosse false, aveva ritenuto prudente prendersi un periodo di pausa per far perdere le tracce della sua doppia vita, anche se ciò comportò serie rinunce economiche. Detestava riconoscere che quel lavoro fosse per lei indispensabile, ma ancor più dover sopportare la maleducazione del signor Cardillo, che aveva, a suo avviso, solo un’abilità straordinaria, quasi sovrannaturale: sorprenderla sempre e solo quando prendeva una breve e sporadica pausa o quando, raramente, le squillava lo smartphone.
Dopo aver inseguito i suoi pensieri sopra la tazza di caffellatte, andò nella sua stanza. Prese dei vestiti dall’armadio e li dispose sul letto.
Accidenti, devo fare il bucato.
Si tolse la maglia del pigiama davanti allo specchio e i lunghi capelli nerissimi, morbidi e lucenti come seta, le si scompigliarono sulle nude spalle. Presa dal comodino la sua pinza preferita, li raccolse, legandoli in su, mentre i suoi occhi color miele, screziati di pagliuzze dorate, esaminavano in lungo e in largo le armoniose curve del suo corpo, soffermandosi sul ventre piatto.
«Ero proprio ubriaca quella sera!» disse tra sé a voce alta, guardando sullo specchio il riflesso del tatuaggio che si era fatta fare due mesi prima, durante una notte brava, per festeggiare uno dei suoi proficui affari andati in porto. Quel ricordo la fece sorridere, ma subito dopo ritenne che quella saetta, che cominciava all’altezza del suo ombelico per poi spingersi giù in direzione dell’inguine, fosse stata proprio una scelta astrofisica.
Dopo l’ossequio al suo tatuaggio, era arrivata l’ora di riempire il cesto da portare in lavanderia: tolse i pantaloni del pigiama, si vestì con quello che aveva tirato fuori dall’armadio e notò che sulla maglia c’era una vecchia macchia. Stizzita per non essersene accorta prima, lanciò anche quella nel grosso cesto e si avventò nuovamente su ciò che restava del suo guardaroba. Rovistando tra le poche t-shirt rimaste, toccò un oggetto duro e legnoso: si ricordò del cofanetto intarsiato con strani motivi arzigogolati che lei stessa aveva nascosto gelosamente in quell’angolo. Ripensando al contenuto che custodiva, lo tirò fuori. Andò a sedersi sul letto e se lo mise sulle gambe, rimuginando: Devo restituire a Dyn i soldi che mi ha prestato. Lo aprì. Dentro c’era una grossa chiave d’oro massiccio, con strani ghirigori sulla larga impugnatura.
Sarà davvero parecchio antica. Deve valere un mucchio di soldi... calcolò spicciamente, ma scosse subito la testa come se quel brutto pensiero fosse stato un fastidioso moscone. Ma che dico, la chiave della nonna! Come posso pensare di dare via l’unico oggetto che mi è rimasto in suo ricordo. E poi lei me lo ha affidato poco prima di morire, dicendomi di averne cura. No, Dyn aspetterà ancora qualche giorno per riavere indietro i suoi soldi.

  
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