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Autore: Blackbird_    25/02/2014    3 recensioni
Emma è una ragazza di Liverpool amante dei Beatles. Semplice, introversa, chiusa in se stessa, segue un solo mantra nella vita: ‘Mi innamorerò solo quando troverò qualcuno che sia bello, talentuoso e divertente come John, Paul, George e Ringo messi insieme’. Una richiesta assurda. Non più tanto impossibile, però, quando incontra Jay, un ragazzo che, all’apparenza, è il mix perfetto dei Fab Four. Ma la perfezione, si sa, non esiste, e Jay non è di certo un’eccezione.
La storia di Emma è accompagnata dalle parole e dalle melodie del suo gruppo preferito, colonna sonora perfetta per ogni situazione che vive.
Genere: Fluff, Introspettivo, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Contesto generale/vago
Capitoli:
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I feel fine

La musica si faceva sempre più ovattata ad ogni scalino che salivamo. Quando raggiungemmo finalmente il quarto pianerottolo, quello vicino all’uscita, non si sentiva più nulla dell’esibizione del cowboy sul palco. Peccato, mi piaceva davvero il modo in cui suonava.
Jay lasciò che le sue dita si intrecciassero nuovamente con le mie, proprio come mentre ballavamo, in una frazione di secondo. Mi incantai a guardare la mia mano stretta in quel modo da quella di un ragazzo: erano passanti tanti anni dall’ultima volta che mi era accaduta una cosa simile. E sorrisi, stupidamente, come un’adolescente alle prime armi con una cotta estiva. La musica del tipo che stava suonando nel locale mi piaceva, certo, ma mai quanto quelle sensazioni.
“Vogliamo sederci lì?” mi chiese, schiarendosi la voce e indicandomi la panchina di ferro battuto appoggiata sulla parete di fronte al locale.
Annuii leggermente, seguendolo. Quando arrivammo sul bordo della panchina, ci guardammo per qualche secondo, incerti entrambi sul da farsi. Il silenzio era assolutamente troppo imbarazzante, e mi sarei volentieri sotterrata, se solo avessi potuto. Ma poi, come per qualsiasi cosa quella sera, il ragazzo prese l’iniziativa e si sedette, gettandosi di peso sulla seduta. Allargò le braccia e le gambe, assumendo una posizione a stella marina decisamente poco elegante, ma sicuramente comoda. Lo fissai per qualche secondo: era ubriaco, molto ubriaco, e decisamente poco di classe in quelle condizioni ma, diamine, era comunque bellissimo. Mi sedetti al suo fianco, incrociando le gambe e voltandomi verso di lui. Ero decisamente poco femminile, in quel modo, ma sicuramente ci avrebbe fatto poco caso.
Nel lungo silenzio che seguì, iniziai a scorrere con lo sguardo tutte le frasi scritte sul muro su cui la panchina era appoggiata. I mattoncini rossi, un aspetto caratteristico di ogni città inglese ma di Liverpool in particolar modo, erano stati tinteggiati di un rosa acceso, vivace, allegro, vivo. Era il colore perfetto per una via giovane e variegata come quella. Il fatto che si trovasse proprio di fronte all’entrata del Cavern Club, poi, era un’ulteriore attrazione per tutti i turisti beatlesiani che si trovassero da quelle parti. I fan dei Beatles erano sempre alla ricerca di un modo per lasciare un segno in un qualsiasi posto che riguardasse il quartetto e, sicuramente, nulla era più allettante di un muro coloratissimo, senza segni del tempo e lontano dai controlli dei severi poliziotti inglesi. Su ogni singolo mattoncino, su ogni centimetro di stucco, in ogni minimo spazio disponibile, si potevano leggere i messaggi di amore e di gratitudine per i fan verso la propria band preferita. Alcuni messaggi erano lì da sempre, per quanto ricordassi, altri spuntavano magicamente giorno dopo giorno, rendendo quel semplice muro rosa una piccola opera d’arte. Con gli anni, nonostante non fossi una turista, anch’io avevo lasciato qualche frase, per amore, per ribellione, per ricordo.
E in quel momento, sovrastata dal silenzio fastidiosamente imbarazzante, avrei volentieri accettato un pennarello indelebile nero e avrei scritto qualcosa nel primo spazio vuoto che mi fosse capitato a tiro. Qualcosa di simbolico, qualcosa in grado di descrivere quel momento, una frase di una canzone dei Beatles che poteva adeguarsi a quella serata così stranamente piacevole. Arricciai il naso, indecisa sulla frase che avrei potuto scegliere se solo ne avessi avuto l’opportunità, e lasciai stare l’ardua scelta.
“Mi dispiace per Mic” pronunciò infine, rompendo quel silenzio e attirando la mia attenzione.
Lo guardai confusa, non cogliendo l’allusione della sua affermazione.
“Cioè… mi dispiace che abbia rimorchiato così in fretta la tua amica. Ora ti toccherà stare sola per il resto della serata. Mi dispiace, davvero” sbrodolò in un millesimo di secondo, guardandosi intorno confuso. Sembrava stesse perdendo tutta la sua sicurezza, lasciando spazio all’impaccio. E tutto ciò mi fece sorridere, di nuovo.
“Non preoccuparti, Allie fa sempre così. Ci sono abituata” lo tranquillizzai, alzando le spalle. “E poi ora sei solo anche tu” continuai, indicandolo. “Siamo soli insieme” azzardai.
Mi morsi un labbro, pentendomi immediatamente delle parole appena pronunciate. Il filtro tra la bocca e il pensiero era stato probabilmente abbattuto da tutto l’alcool ingerito quella sera, e ancora una volta mi detestai per aver bevuto troppo.
Siamo soli insieme.
Ero stata una sciocca a non contenermi, ma più ripetevo nella mia mente quelle tre semplici parole più mi sembravano maledettamente belle. Suonavano strane, ma era uno strano bello.
Quello annuì lentamente, per poi abbassare lo sguardo, piombando di nuovo in un abisso di silenzio.
Stupida, stupida, stupida. Non avrei dovuto dire nulla, sarei dovuta rimanere zitta e basta. Lo avevo messo a disagio, e mi sentii terribilmente in colpa.
“Ehm, scusa, non volevo dire…” cercai di rimediare, ma con un “No, hai ragione” mi zittì, tornando a guardarmi negli occhi.
Fingendo di stiracchiarsi, allungò maggiormente il braccio nella mia direzione e, con una discreta nonchalance, poggiò la mano sulla mia spalla. Iniziò ad accarezzarla lentamente, mentre con gli occhi sorrideva alla vista della mia faccia scioccata.
“Sai, un po’ lo invidio. È bravissimo a conquistare le ragazze. Io invece sono terribile, forse perché mi interesso raramente” iniziò a spiegarmi, gesticolando con la mano libera.
Guardai di sfuggita, con la coda dell’occhio, il suo modo ambiguo di sfiorarmi la spalla, con quei gesti lenti e delicati. Si reputava terribile, e questo mi faceva ridere. Avrei potuto tranquillizzarlo senza problemi dicendogli che era riuscito a conquistarmi prima ancora di pronunciare parola, prima ancora di scendere dal palco sul quale si era esibito. Ma non ero certa che quello fosse lo scopo della conversazione: probabilmente stava semplicemente straparlando per colpa dell’alcool in circolo nel sangue. Non potevo dare per scontato nulla.
“Ti capisco” mi limitai a dire, annuendo. Mi sembrava sciocco parlargli per filo e per segno di tutte le innumerevoli serate in cui mi ero limitata a fare da carta da parati mentre la mia amica si dava alla pazza gioia col primo ragazzo carino che le capitava a tiro. Come mi sembrava altrettanto sciocco quell’argomento: perché si parlava di conquiste? E’ quasi peggio di parlare di ex, soprattutto se si sostiene di non conquistare affatto.
Di nuovo avvolta dal silenzio e dall’imbarazzo, iniziai a scorrere lo sguardo fra tutti i ragazzi e le ragazze che si trovavano a passeggiare da quelle parti. C’erano persone ubriache che cantavano e sbarellavano ed altre in stato comatoso trascinate dagli amici, c’erano ragazze in tiro che si spostavano velocemente tra un pub e l’altro alla ricerca di nuove prede, c’erano ragazzi che parlavano dell’ultima partita del Liverpool bevendo una bottiglia di birra, c’erano gruppetti di amici che passeggiavano a passo svelto, c’erano turisti che fotografavano ogni lato della via nonostante fosse buio pesto, c’erano coppiette che passeggiavano mano nella mano. E poi c’eravamo noi, due idioti seduti su una panchina troppo impacciati e goffi per parlare come due persone normali.
“E adesso che facciamo?” domandai innocentemente, cercando una qualsiasi scusa pur di porre fine a quel mutismo.
Jay alzò le spalle, noncurante. Lasciò scivolare lentamente la mano dalla mia spalla fino al fianco, per poi percorrere la coscia fino a giungere al ginocchio, dove si fermò, stringendolo leggermente. Ed io, dal canto mio, mi sentivo andare a fuoco per quel contatto flebile e delicato. Non ero assolutamente abituata a tutte quelle ambigue attenzioni.
“Abbiamo ballato, siamo usciti dal locale, ci siamo seduti su una panchina appartata…” cominciò con la sua lista. Non mi permisi di interromperlo per fargli notare che quella panchina era tutto fuorché appartata. Ero spaventata, più che altro, dalla strana piega che stavano prendendo gli eventi, raccontati dalla sua bocca. “… direi che se fossi Mic a quest’ora ti avrei già limonata pesantemente” concluse, rude. E scoppiò a ridere, divertito dalla mia espressione improvvisamente sconvolta.
Non ero assolutamente abituata a tutte quelle ambigue attenzioni, non avrei mai smesso di crederci.
Fortunatamente la luce rosata dovuta ai mattoncini colorati che ci circondavano riuscivano a nascondere il mio palesissimo imbarazzo, evidenziato da un’accesa tinta purpurea che mi colorava l’intero viso. Iniziai a balbettare cose senza senso, paralizzata sia fisicamente che mentalmente.
Mi avrebbe limonata pesantemente? Era serio o si stava semplicemente prendendo gioco di me?
“Ehy, sto scherzando. Stai tranquilla” mi distolse dalla trance, passandomi una mano davanti gli occhi ancora sgranati.
“A me piace conoscere le persone prima di passare ai livelli successivi” sostenne, fiero di sé, incrociando le braccia al petto.
Tirai un sospiro di sollievo, leggermente sollevata da quella nuova rivelazione. Perché sebbene fossi incredibilmente attratta da quel ragazzo, non mi sentivo ancora abbastanza pronta per ‘passare ai livelli successivi’. I miei muri, quelli che tenevano ben alla larga ogni genere di ragazzo ed ogni qualsivoglia relazione, erano ancora troppo solidi per essere distrutti da lui.
Ci voleva ben altro di un ragazzo carino, carismatico, ottimo cantante e ottimo musicista, divertente, spigliato e apparentemente interessato per abbattere il mio muro invalicabile. Ci voleva ben altro del mix perfetto dei Beatles per farmi cedere.
Ci voleva… no, d’accordo, forse un minimo era riuscito a tirar fuori. Una minuscola infiltrazione, un’apparente invisibile crepa era riuscito a crearla. Nessun altro era mai riuscito a farmi ballare e a portarmi fuori dal Cavern in quel modo…
“Devo dirlo, però, un po’ ti conosco già” sostenne, distogliendomi ancora una volta dai miei pensieri.
Lo guardai alzando un sopracciglio, incredula e curiosa. “Come fai a conoscermi? Ci siamo presentati nemmeno mezz’ora fa” lo imbeccai, sfidandolo tacitamente a mostrarmi quanto mi conoscesse. Alzò di nuovo le spalle. “Sono un ottimo osservatore” si giustificò.
“Allora sentiamo, cosa sai di me?” insistetti, sinceramente curiosa di sapere cosa avessi lasciato trapelare di me in quel breve lasso di tempo in cui eravamo stati soli insieme.
“Sei una persona molto timida ed impacciata, e molto insicura di te.”
Timida, impacciata, insicura. Fin qui ci aveva preso alla grande.
“Per questo sostieni di non saper ballare quando in realtà ti muovi molto bene, forse inconsapevolmente.”
Non mi risultava di sapermi muovere molto bene, nessuno me lo aveva mai detto. Non avevo mai nemmeno provato a ballare in pubblico, in realtà. Le attenzioni su di me m’infastidivo, ed ero sempre stata convinta di fare una pessima figura davanti a tutti. Per questo gli concessi di avere ragione anche su questo.
“Ti danno fastidio le coppiette appiccicose, tipo Mic e la tua amica poco prima. E ti infastidisce il fatto di restare sola ogni volta che lei rimorchia qualcuno e ti lascia sola.”
Nonostante non potesse valere come punto a suo favore, considerando che ne avevamo parlato poco prima, aveva ragione ancora una volta.
“Sei una grande fan dei Beatles, e conosci tutte le loro canzoni a memoria.”
Su questo non era stato molto scaltro: non era difficile capirlo, dopotutto.
“E alcune loro canzoni ti emozionano particolarmente, come Something o Hey Jude. Il perché non mi è dato saperlo, sono un bravo osservatore, non un veggente.”
Un leggero sorriso arricciò le mie labbra mentre, silenziosamente, gli davo ragione ancora una volta.
That’s all, credo. Se mi viene altro in mente ti faccio sapere. Come sono andato?” mi chiese con una faccia spavalda e chiaramente soddisfatta.
Lo applaudii piano, piacevolmente sorpresa. Era riuscito a capire quei piccoli aspetti di me che poche persone conoscevano. Era sbalorditivo. Crick: un’altra crepa.
“Punteggio perfetto, stellina d’oro” mi complimentai ancora, sorridendogli. E sembrava davvero pieno di sé, più di quanto non lo fosse già. Il suo lato impacciato era nuovamente svanito nei meandri della sua testa.
“Ora tocca a te” mi sfidò, poggiando nuovamente la mano sul mio ginocchio. Lo guardai perplessa per un po’, ma poi annuii senza dire nulla. Sebbene non fossi capace di studiare le persone tanto quanto lo fosse lui, avevo improvvisamente voglia di mettermi in gioco.
“Sei il cantante e il chitarrista di un gruppo musicale, e spesso fate cover dei Beatles.”
Ero terribilmente ovvia, ma quella era la cosa più intuitiva di lui che mi venisse in mente. Il fatto che quella caratteristica fosse proprio quella che più mi aveva attirata verso di lui era un dettaglio irrilevante che avrei fatto bene a tenere nascosto.
“Ti ispiri a John Lennon.”
Questo era più un azzardo, ma vedendolo muoversi in quel modo sul palco, poco prima, non poteva che farmi credere una cosa simile. Ed era grandioso trovare qualcuno che si ispirasse ad una persona come John.
Non replicò, il che mi lasciò intuire che avessi ragione. Continuava a guardarmi con quello sguardo incredibilmente curioso e adorabile e ad ascoltarmi come se pendesse dalle mie labbra. Cercai in tutti i modi di non incantarmi sul suo viso angelico e tornai ad elencare le mie osservazioni, distogliendo lo sguardo e puntandolo verso la sua mano poggiata sulla mia gamba.
“Alterni momenti di puro egocentrismo e di massima autostima ad attimi di imbarazzo e di insicurezza.”
Era pieno e sicuro di sé mentre suonava su quel palco, mentre ballavamo insieme, mentre mi trascinava su per le scalinate del locale. Lo sembrava anche in quel momento, così sorridente, evidentemente soddisfatto per le mie supposizioni. Eppure era sembrato così impacciato, poco prima, mentre provava a convincermi a scendere in pista, quando mi rivelava di essere poco fortunato con le ragazze. Probabilmente era strano, ma anche questo strano bipolarismo era in grado di incuriosirmi e di attirarmi.
“E sei molto, molto ubriaco.”
Una sua ulteriore risata confermò quest’ultima ipotesi.
“Te lo concedo, sei una brava osservatrice anche tu” ridacchiò, avvicinandosi un poco.
Istintivamente indietreggiai di quale millimetro, cercando di dare nell’occhio il meno possibile.
“Io so anche un’altra cosa di te” pronunciò tornando improvvisamente serio, ma stirando le labbra in un sorrisetto furbo.
Lo intimai a parlare con un gesto della mano, curiosa. Cos’altro c’era da capire di me che già non avesse elencato? Era impossibile che avesse colto altro di me in così poco tempo.
“Io ti piaccio.”
Crack.
La sua faccia era a pochi millimetri dalla mia. Talmente pochi che i nostri nasi si sfiorarono, per un momento. Talmente pochi che riuscivo nitidamente a sentire il suo respiro all’aroma di birra scontrarsi caldo contro la mia pelle. Mi incantai, con gli occhi sgranati, sulle sue labbra. Erano fine, belle e pericolosamente vicine alle mie. Leggermente dischiuse, non facevano altro che gridarmi contro di toccarle, di baciarle…
Ma no. In uno scatto, poco reattivo a dirla tutta, mi allontanai dalla tentazione. Il mio muro stava iniziando a cedere in un modo così rapido da sorprendere anche me stessa, ma la mia convinzione era più forte di qualsiasi impulso. Per quel momento. Non sapevo, in realtà, quanto ancora sarei stata in grado di resistere. Quel ragazzo era davvero bravo a confondermi.
“Ribadisco il concetto: sei ubriaco” lo ammonii, cercando un metodo efficace per sminuire tutte quelle attenzioni.
Quello scoccò la lingua, interdetto. “Lo so” pronunciò con tono infastidito, incrociando le braccia al petto. “Sono talmente ubriaco che potrei anche iniziare a cantarti una canzone” blaterò, assurdamente convinto.
Si avvicinò di nuovo, stavolta poggiando una mano sulla mia spalla per impedirmi di indietreggiare ulteriormente. Con l’altra mano mi prese il mento, costringendomi a non voltarmi.
Le sue labbra erano di nuovo terribilmente vicine ed altrettanto invitanti. Le guardai, tentata, per qualche millesimo di secondo, per poi distogliere lo sguardo. Lo fissai negli occhi, e lessi in quelle allegre iridi grigie un guizzo di lucida pazzia e di qualcosa simile al… desiderio. Possibile? Sorrise, di nuovo, soddisfatto dell’ulteriore strana reazione che aveva provocato.
 
Close your eyes and I’ll kiss you”
 
Il cuore iniziò a battere talmente tanto veloce che non riuscii più a sentirlo. Senza saperlo, Jay stava intonando una delle mie canzoni preferite. Non riuscivo più a tenere il conto delle volte in cui avevo sognato che qualcuno me la dedicasse. Ed ora i miei sogni si stavano materializzando davanti ai miei occhi increduli. Tanta, troppa era la tentazione di seguire quei versi.
Crack. Ancora un’altra crepa.
 
Tomorrow I’ll miss you
 
Quella era un’ulteriore paura: cosa sarebbe accaduto l’indomani? Avremmo potuto dimenticare tutto entrambi, anche se in cuor mio sapevo che non sarebbe accaduto. Avremmo lasciato correre la cosa, passando il resto della serata insieme e poi intraprendendo nuovamente le nostre strade separate. Saremmo semplicemente tornati alla realtà, e questo mi spaventava. Mi ero quasi affezionata all’atmosfera da sogno di quella sera.
 
Remember I’ll always be true
 
Storsi la bocca. Quanto poteva dire il vero un ragazzo quasi sconosciuto, ubriaco, che cantava canzoni dei Beatles pur di fare colpo?
 
And then while I’m away, I’ll write home everyday
 
Fece una pausa. Lasciò sfiorare i nostri nasi in modo delicato, mentre le sue labbra erano di nuovo arcuate in un meraviglioso sorriso.
Sembrava il momento perfetto. Era il momento perfetto.
Assaporai ogni istante, ingorda di tutte quelle belle sensazioni che mi stava facendo provare, e sorrisi a mia volta. I suoi occhi si illuminarono di una luce mai vista fino a quel momento.
 
And I’ll send all my loving…
 
In uno schianto, il muro si sgretolò in mille pezzi.
 
… to you
 
Non dovetti aspettare molto per sentire finalmente quelle belle labbra sulle mie. Erano proprio come avevo immaginato nelle mie brevi fantasie. No, probabilmente erano anche meglio. E quando, dopo pochi istanti, le dischiuse per poter finalmente concludere la sua missione già bella che riuscita, riuscii finalmente a gustarne ogni sfumatura. Mi inebriai di quel sapore di birra, limone e Jack Daniel’s per un tempo indefinito. Troppo, ma troppo poco.
Quando riaprii gli occhi, ancora un po’ frastornata dalle mille emozioni e dal cuore che batteva così forte da rimbombare anche nella mia testa, realizzai che non era affatto stato lui a spingermi contro di sé. Avevo le mani poggiate sulla sua gamba, ed ero ancora tesa in avanti, verso di lui. Mi ero lasciata trasportare a tal punto da prendere io stessa l’iniziativa, e la cosa era sconvolgente. Persino la polvere ed i calcinacci del mio muro erano stati spazzati via da quell’ondata di… sensazioni. Non riuscivo quasi a descriverle.
“Posso aggiungere alla lista un’altra canzone che ti fa impazzire, a quanto vedo” mi canzonò Jay, sorridendo beffardo. Sembrava soddisfatto, orgoglioso e quasi felice.
Mi morsi il labbro sorridendo, colta in fallo. “Ne hai scelta una perfetta” mi giustificai, cercando di addossargli la colpa. O più ringraziandolo.
Si avvicinò di nuovo e lasciò schioccare un altro bacio a fior di labbra. Mi sentii quasi girare la testa, non ero decisamente abituata a tutto ciò.
“In realtà ero indeciso fra due canzoni, ma evidentemente ho scelto quella giusta” mi sorrise.
“E qual’era l’altra?” chiesi, curiosa, spostandomi una ciocca di capelli dietro l’orecchio. E con una mossa veloce la rimisi al suo posto.
Baby say yeah yeah yeah, yeah yeah. And let me kiss you
Il suo viso si mosse di nuovo velocemente verso il mio ma “Sul serio, Jay?” lo bloccai, poggiando entrambe le mani sul suo petto per tenerlo a debita distanza. “Il tuo dubbio era fra i Beatles e gli One Direction?” domandai, irrigidita da quel pessimo paragone. Come anche solo pensare di potermi conquistare con una canzonetta da boyband, mentre lui era l'incarnazione moderna dei quattro Beatles?
“Cosa c'è? Gli One Direction sono forti e le loro parole sono convincenti” si discolpò, alzando gli occhi al cielo, esasperato.
“Saranno anche forti” spiegai “ma non puoi porti il dubbio se cantare loro o i Beatles! Dai, non c'è storia!”
“Sapevo che avresti reagito così” sorrise infine, sornione. Lo guardai perplessa. Non riuscivo quasi più a seguirlo, forse per la mente annebbiata, forse per la sua incomprensibile retorica. “È per questo che ho preferito All My Loving” proseguì, rendendo ovvi i suoi pensieri.
“Sei un gran paraculo” fu tutto ciò che riuscii a dire, prima che si avventasse di nuovo su di me per un altro lungo bacio.
“E lo sottoscrivo” ripresi, non appena trovai la forza di staccarmi da quelle labbra da cui, improvvisamente, provavo una certa dipendenza.
Quello scoppiò a ridere, ancora una volta. Era bello sentire la sua voce bassa e nasale trasformarsi in una risata acuta e cristallina. Quando rideva era un'altra persona. Una persona dannatamente adorabile. Dio mio, stavo già iniziando a dare i numeri. La dolcezza con cui lo vedevo e lo descrivevo nella mia mente stonavano terribilmente col mio cinismo e antiromanticismo.
“Sai che altra canzone ci starebbe bene adesso?” tornò quasi serio, nonostante un enorme sorriso continuasse a dipingere il volto. “Un'altra? Ma sei un jukebox o una persona?” gli chiesi ridacchiando. Finse di mettere il broncio, che però durò pochi istanti prima che “Sono un artista, ho l'incredibile capacità di trovare una colonna sonora ad ogni momento della mia vita” mi spiegò.
“Mi avevi convinto già al 'sono un artista” gli sorrisi, affabile, avvicinandomi spontaneamente.
Era buffo: avevo sempre detestato le coppiette melense e i loro gesti d’affetto in pubblico, i loro baci, le loro carezze, le loro parole incomprensibili sussurrate ad un orecchio. Eppure, in quel momento, io stessa rientravo in quella insopportabile categoria ma, per la prima volta, non m’importava. Vedevo la gente guardarci in modo perplesso, persone che commentavano fra di loro la strana coppia che eravamo, gente disgustata dai nostri baci spesso troppo lunghi. Ma nessuno di loro era in grado di infastidirmi, di mettermi in soggezione. Era forse colpa dell’adrenalina che avevo addosso, o forse era tutto grazie a quella semplice e genuina felicità che mi riempiva il corpo. Era bello essere lì, quasi abbracciati, mentre lentamente conoscevamo sempre più l’uno dell’altra, mentre lasciavamo poco spazio alle parole e tanto ai fatti, mentre eravamo sempre più contenti di essere soli insieme.
Quando si staccò nuovamente dalle mie labbra, mi guardò con fare serio. Restituii lo sguardo, domandandomi tacitamente da cosa fosse dovuta una tale serietà. Con una mano mi strinse la mano che tenevo saldamente sulla sua gamba, spostandola sulla seduta di ferro della panchina sulla quale eravamo ancora seduti, e si alzò, sistemandosi la camicia.
“Dove vai?” gli domandai, insoddisfatta. Ma non ricevetti risposta.
Lo seguii con lo sguardo, mentre si avvicinava a Robert. I due parlarono un poco, finché il buttafuori non svanì oltre la prima rampa di scale, lasciando Jay da solo di fronte all’ingresso del locale. Non ci volle molto, però, affinché tornasse, con qualcosa in mano che gli consegnò in un attimo. Non ero riuscita a capire di cosa si trattasse, ma non appena ebbe ricevuto quel ‘dono’, Jay ringraziò Robert e si avvicinò nuovamente alla panchina.
Si sedette nuovamente nel posto accanto al mio che aveva lasciato vuoto, e sorrise quando notò il mio sguardo curioso e leggermente perplesso. Mi mostrò quindi ciò che gli era appena stato consegnato dal bodyguard: un pennarello nero.
“E cosa ci devi fare?” domandai, non riuscendo a trattenere la curiosità.
“Tu non mi fai cantare la canzone perfetta, e quindi la scrivo sul muro. Cosa pensi che ci debba fare con un pennarello, secondo te?” replicò, ovvio, e leggermente divertito.
“Oh” fu l’unico suono che uscì dalla mia bocca. Sì, mi aveva leggermente spiazzata.
Ma non feci in tempo a pensare ad altro, che si voltò verso i mattoncini rosa, stappò il pennarello ed iniziò a scrivere. Quando fu soddisfatto, e quando finalmente tolse la mano per permettermi di leggere, rimasi a bocca aperta.
I feel fine.

 



 

Angolo dell'Autrice:
E con mio grande piacere aggiorno nel giorno (uno dei due) del compleanno del piccolo (?) George Harrison. Tanti auguri Georgie boy **
Ma veniamo a noi... Immagino che non vi espettavate un esito simile, eh? Emma è imprevedibile, quasi quanto lo è Jay che, a quanto pare, sa quello che vuole. Questo capitolo, quando lo scrissi, fu davvero un parto perché, boh, mi sembra così dannatamente stupido e scontato... spero di non avervi deluso! Ma forse era anche ora che le cose si smuovessero un po' fra questi due carciofi u.u ma... niente, gustiamoci tutta queste positività :)
La canzone che Jay canta ad Emma per farla finalmente cedere è All My Loving, quella degli One Direction è Kiss You (ma non mi speco nemmeno a linkarvela, ve la risparmio ahah) e la frase che Jay scrive sul muro è il titolo di una bellissima canzone che, per l'appunto, si chiama I Feel Fine.
A martedì prossimo,
Julia
   
 
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