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Autore: Marti Lestrange    26/02/2014    5 recensioni
Alexander e Jordan sono usciti naturalmente dalla mia penna. Forse aspettavano di vedere la luce da tempo.
Dalla storia:
{Incontrò il mio sguardo non appena entrai nel locale insieme ai miei amici. Passò sopra l'addome appesantito di Michael e i suoi occhi assonnati e il suo cipiglio serio; sorvolò l'abbigliamento quanto mai eccentrico e naïf di Dominic, che quella mattina era uscito con un foulard legato intorno al collo; infine superò in tutta fretta la banale normalità di Charles, con la sua camicia a quadri a maniche corte da perfetto figlio di papà in carriera e i suoi pantaloni con la piega. Ci guardammo e dentro di me cominciai a scalpitare. Cazzo, l'avevo trovata.}
Genere: Angst, Introspettivo, Romantico | Stato: completa
Tipo di coppia: Het
Note: nessuna | Avvertimenti: nessuno
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Il fatto è che non se ne andò. E nemmeno io.
 
 
 
 
“- Dobbiamo andare e non fermarci finché non siamo arrivati.
- Dove andiamo?
- Non lo so, ma dobbiamo andare.”
- Jack Kerouac
 
 
 
La prima volta che lessi "On the road" avevo diciassette anni. Mi ostinavo a fumare Gitanes troppo forti per me, cosicché ogni volta tossivo come un malato terminale e conciavo camera mia peggio di una camera a gas. Fumavo per essere come gli altri: interessante e pericoloso. Non sapevo di risultare solo una patetica macchietta dell'eroe maledetto, prototipo alla Marlon Brando al quale tutti aspiravamo. Fumavo e indossavo un giubbiotto in pelle "da figo", un vecchio modello di mio padre degli anni '60 che mi stava troppo largo e scivolava sulle mie spalle magre da ragazzo di città. Il trasferimento aveva cambiato tutto. 
 
Trovai "On the road" in biblioteca. Quel giorno pioveva da matti, di una di quelle piogge da film, serrate e pazze, nel mezzo delle quali non vedi ad un palmo dal naso e sotto le quali si aggirano i peggiori maniaci e/o efferati assassini. Decisi di fermarmi a scuola in attesa che smettesse, visto che ero a piedi. Così scoprii la biblioteca e le sue insperate meraviglie. Non che i libri mi interessassero. Li consideravo delle misere perdite di tempo, almeno secondo la mia nuova, maldestra ideologia del cazzo. Un filone di pensiero tutto mio, insomma. Non sapevo di essere solo un illuso: i libri mi avrebbero salvato.
 
Lessi "On the road" in tre giorni esatti, preludio, interludio e conclusione di ciò che mi cambiò la vita. Rimasi steso nel mio letto un intero pomeriggio. Non riuscii nemmeno più a toccare le Gitanes. Tutto quello che mi circondava mi apparve all'improvviso sciocco e insensato, se paragonato alla grandiosità dell'America, delle sue strade, delle sue città e delle sue donne. Forse avevo fantasticato troppo a lungo su qualcosa che non esisteva, cioè un mondo che mi ero costruito attorno fatto di persone interessanti e luoghi avventurosi, di mille prospettive e orizzonti spruzzati dal tramonto. Non c'era niente di bello, nella mia vita. Non ero Dean Moriarty e non lo sarei stato mai, anche se mi ero sforzato di sembrarlo - pur essendone totalmente inconsapevole. 
 
Non avevo nulla di speciale. Ero solo io. Uno stupido Alex qualsiasi in una stupida cittadina del Connecticut qualsiasi. Non sapevo nulla della vita. Non sapevo niente di niente.
 
*
 
Trovai la mia Mary Lou un giorno di tre anni dopo. A differenza della prima volta in cui trovai il libro, quel giorno il sole affogava le strade, bruciando l'asfalto e soffocando i cuori. La incontrai alla tavola calda che ero solito frequentare con gli amici di sempre, quando tornavo a casa dal college per le vacanze. Eravamo sempre noi: io, Michael, Charles e Dominic. Dominic aveva la madre francese, che era morta due anni prima, suicidandosi nella vasca da bagno. Tipica morte francese. Michael e Charles invece erano fratelli. Michael si era da poco laureato in legge a Yale, ma l'ultima cosa che sognava di fare nella vita era proprio l'avvocato. Charles invece studiava con me a Princeton, facoltà di lettere. Principalmente non sapevamo che fare della nostra esistenza, ma eravamo cresciuti nel culto di Francis Scott Fitzgerald e studiare a Princeton ci era sembrato il giusto coronamento della nostra carriera scolastica. E i nostri genitori non avevano opposto resistenza. 
 
Quel giorno a Rocky Hill faceva caldo. La montagna ci osservava come sempre dall'alto e quella mattina la piccola chiesa del reverendo Strokes aveva fatto risuonare le campane per invitare i fedeli a messa, mentre fumavo una Lucky Strike seduto nel mio vecchio letto fedele, a fissare alcuni vecchi posters dei Rolling Stones sbiaditi e la collezione completa dei Beatles in vinile tra l'armadio e la finestra. Mi sembrava tutto piccolo e stupido, proprio come io ero piccolo e stupido, prima
Charles dormiva della grossa sul divano in soggiorno e i miei erano già usciti per andare a messa, così non mi preoccupai di vagare per casa in mutande. Feci uscire Charles dal letto e lo trascinai a fare colazione da "Madge's", la tavola calda più calda di Rocky Hill. Ricordavo ancora bene Dolly, la cameriera, gonna corta e camicetta scollata e sorriso provocante. Dolly aveva l'età di Michael e aveva sempre lavorato da "Madge's" per arrotondare e risparmiare. Il suo sogno era volare a Parigi per proporsi come ballerina al Moulin Rouge, ma scoprimmo che era finita a fare la spogliarellista a Las Vegas. Che ironia.
Dolly non c'era più, ma c'era Jordan. Jordan Becking. La stupenda assonanza di "Becking" con "Becker" me la fece paragonare subito alla Jordan de "The Great Gatsby", ma siccome era tutto tranne che pallida ed eterea, dovetti abbandonare tali fantasticherie. Non era Jordan. Non era Daisy. E non era nemmeno Gloria, o Catherine Barkley o una qualsiasi stupida eroina da romanzo d'appendice. Lei era Mary Lou.
 
Capelli biondi, occhi blu come il cielo e un sorriso imperfetto, con una piccola fessura tra gli incisivi. La gonna era corta come le famose gonne di Dolly, ma la camicia era più chiusa. Beh, non potevo certo aspirare al paradiso in terra tutto insieme. Si muoveva in giro per il locale senza fretta, senza quella baldanza tipica di Dolly e di tutte le cameriere delle tavole calde americane, che sembra che abbiano le ruote ai piedi e che il sorriso si sia loro incastrato sul viso. No, Jordan era schiva, riservata, seria. Ogni tanto inclinava le labbra in un accenno di sorriso, pur essendo sempre gentile e disponibile. Ti versava il caffè e poi, dentro di sé, ti mandava al diavolo. No, probabilmente lo sussurrava anche, senza problemi. 
Incontrò il mio sguardo non appena entrai nel locale insieme ai miei amici. Passò sopra l'addome appesantito di Michael e i suoi occhi assonnati e il suo cipiglio serio; sorvolò l'abbigliamento quanto mai eccentrico e naïf di Dominic, che quella mattina era uscito con un foulard legato intorno al collo; infine superò in tutta fretta la banale normalità di Charles, con la sua camicia a quadri a maniche corte da perfetto figlio di papà in carriera e i suoi pantaloni con la piega. Ci guardammo e dentro di me cominciai a scalpitare. Cazzo, l'avevo trovata.
 
*
 
La prima volta che uscii con Jordan presi in prestito la vecchia Camaro rossa di mio padre, quella con la quale caricava nel 1970. Marchio di fabbrica garantito. Andai a prendere Jordan alla fine del suo turno, alle sei di sera. I grilli cantavano e un tramonto bellissimo occhieggiava nei cieli di Rocky Hill. La vidi uscire da "Madge's" con addosso un leggero vestitino a fiori che svolazzava nel tiepido venticello di giugno e un paio di vecchi stivali in pelle nera. I suoi bellissimi capelli erano sciolti e lucenti. Non era mai stata più bella.
 
Mangiammo pollo arrosto e patatine e marshmallows cotti alla brace in un locale molto carino ai confini della città. Ridemmo come pazzi e non riuscivamo a toglierci gli occhi di dosso. Jordan parlò poco di sé. Io invece le raccontai tutta la mia vita, da quando ero un bambino malaticcio che abitava a Bristol, al nostro trasferimento a Rocky Hill; dalla fase "Gitanes e Marlon Brando", al mio ingresso a Princeton. Passando ovviamente dalla fase letteraria. Jordan ascoltò, seria e compita, annuendo ogni tanto e sgranocchiando il suo pollo. 
- Sei un ragazzo strano, Alexander. 
Ecco. Jordan cominciò ad usare il mio nome di battesimo e non smise mai di farlo. Questa è una delle cose che ho sempre adorato di lei. Lo faceva suonare come la cosa più bella e naturale del mondo, quando io l'avevo sempre detestato e avrei dato di tutto per essere un "Charlie", o un "Johnny" o un "Sam". In quel momento, capii che Jordan avrebbe amato tutto di me. La certezza mi colpì allo stomaco, potente come i fendenti che Tyson "Big Mac" Shelley rifilava a tutti i primini alle scuole medie, come ricordo del loro indimenticabile primo anno. Non avrei dimenticato nemmeno la bocca di Jordan quando scandì per la prima volta il mio nome.
 
Riaccompagnai a casa Jordan che era notte fonda. I grilli avevano smesso di cantare. La lasciai sull’uscio di una piccola casetta traballante poco distante da “Madge’s” e lei mi salutò con un fugace bacio sulle labbra.
- Grazie per la splendida serata, Alexander. Sei strano ma carino.
- Grazie a te, Jordan. Tu invece sei bellissima.
Sorrise.
 
*
 
A quella prima sera ne seguirono tante altre, in quella torrida estate senza fine. Mi sembrava di vivere una magia, uno strano incantesimo o una soprannaturale malia. Jordan divenne ben presto insostituibile, per me. Non riuscivamo a non guardarci tutto il tempo, cercando ognuno gli occhi dell’altra, anche quando lei lavorava e io capitavo alla tavola calda solo per guardarla spostarsi nella sala e parlare e vivere. Quando ci sedevamo alla luce della luna, sul prato verde accanto alla montagna e guardavamo le stelle, Jordan mi prendeva per mano e la teneva stretta fino a quando non ci alzavamo per tornare a casa. Parlava poco, Jordan. Mi parlò però della sua bella infanzia con i genitori in una casetta modesta vicino a Princeton. Mi parlò della sua voglia di indipendenza, del suo rifiuto del college, dei litigi con il padre e della sua decisione di andarsene, direzione Rocky Hill. Aveva un’amica in città che si era trasferita anche lei da Princeton che le aveva presto trovato un posto dove stare e un lavoretto da “Madge’s”. Jordan non chiedeva altro, in quel momento della sua vita. 
 
- E poi sei arrivato tu – mi disse una volta davanti al portico di casa sua.
Quella sera, mi prese per mano e mi condusse all’interno e facemmo l’amore tutta la notte nel suo letto da una piazza e mezzo sotto la finestra e la luna filtrava attraverso le tende e la pelle di Jordan era quasi argentata, perfetta ed eterea creatura d’incanto. Non mi sarei mai stancato di lei e dei suoi baci che sapevano di acqua fresca e di buono, del suo tenue profumo di sapone e delle fossette che le si formavano intorno alla bocca mentre dormiva. La mattina si svegliava e mi portava il caffè e poi la trascinavo di nuovo a letto con me, sotto le lenzuola bianche e candide, fino a quando non scappava via per andare a lavoro e allora me ne stavo disteso ancora un po’, solo per ricordare tutto quanto e sentire ancora il suo profumo, aleggiante nell’aria come un piacevole veleno. Ero ubriaco di lei. Ubriaco fradicio.
 
Dopo l’idillio arrivarono i litigi. Sotto quella patina di bellezza e magia, Jordan nascondeva un animo profondamente irrequieto e scalpitante che avevo imparato a conoscere a mie spese, come quando tornava nervosa dal lavoro e si chiudeva in se stessa, in uno di quei silenzi carichi di attesa che mi mettevano a disagio. E allora la lasciavo stare, da sola sul divano a sorseggiare Diet Coke, fino a quando era lei a venirmi a cercare, mi baciava e tutto il resto spariva. Avrei voluto la smettesse, con “Madge’s” e la storia della tavola calda. Non le faceva bene e la metteva di cattivo umore, soprattutto per colpa di qualche cliente instabile e maleducato. Lei non ascoltava e replicava che non erano affari miei.
- Non ho una famiglia che appoggia le mie scelte, Alexander – mi urlò dietro una volta. – Non lo capisci? Sono sola.
A quel punto, adirato, avevo lasciato casa sua sbattendo la porta. La mattina dopo, l’avevo ritrovata accucciata sulla poltrona del suo piccolo salotto, le lacrime solidificate sulle guance e gli occhi rossi di pianto. L’avevo stretta tra le braccia e tutto era svanito e nemmeno sapevo perché avevamo litigato. Nemmeno sapevo di esistere, fuori di lei. 
 
- Non provare mai più ad andartene via così. Capito? – mi aveva sussurrato lei quella mattina, dopo che avevamo fatto l’amore sul pavimento del salotto, troppo smaniosi e ansiosi per arrivare al letto. Mi aveva carezzato una guancia, come faceva sempre, e mi aveva baciato con passione e dentro di me il mio cuore esplodeva. 
- Non me ne vado, Jordan – avevo replicato passando un dito sul suo fianco morbido. – Resto qui. E tu? – avevo aggiunto guardandola negli occhi.
Lei aveva annuito. – Resto qui.
 
*
 
Posso affermare con tranquillità di essermi profondamente sbagliato, sull’animo di Jordan. Quando la conobbi, ancora ebbro di Kerouac come lo ero stato a diciassette anni, avevo creduto di aver trovato la mia donna maledetta, la Mary Lou che avrebbe sconvolto la mia esistenza. Jordan era quanto di più diverso potesse esserci al mondo. E non se ne sarebbe andata. 
 
Il fatto è che non se ne andò. Mai. E nemmeno io. 
 
*
 
Riposi “On the road” sullo scaffale della mia vecchia camera. Avevo lasciato tutto com’era, compresi i postera e la collezione dei Beatles. Compresi i libri che tanto mi avevano impressionato.
Nello scatolone avevo solo delle vecchie foto con i miei amici e qualche trofeo vinto al college. E la macchina da scrivere. 
Chiusi la porta e scesi le scale. Jordan mi aspettava sul pick up scassato che avevo comprato l’estate prima, l’estate in cui l’avevo conosciuta. La baciai e lei mi sorrise. Aveva un sorriso da morirci.
- Sei pronto? – mi chiese.
Diedi un’ultima occhiata alla casa dei miei e annuii. 
- Sono pronto.
Avevamo trovato una casetta carina accanto al college, dove avremmo potuto vivere insieme, lontano da tutto e tutti. Jordan aveva trovato un posto come commessa in una libreria accanto al campus. Io avrei continuato a studiare e avrei provato a scrivere il mio primo romanzo. 
In fondo, non ero mai stato Dean Moriarty.
 
 
 
NOTE
  • Rocky Hill è una città reale, e si trova appunto nel Connecticut. 
  • Jordan Becker è uno dei personaggi presenti nel libro "The Great Gatsby" di Francis S. Fitzgerald, così come Daisy (Buchanan), la donna della quale Gatsby è innamorato. Gloria (Gilbert) è la coprotagonista de "The Beautiful and Damned", sempre di Fitzgerald, mentre Catherine Barkley è l'infermiera amata da Frederic Henry nel romanzo "Farewell to arms" di Ernest Hemingway.
  • Il mio Alexander è Jeremy Irvine, mentre Jordan è Elizabeth Olsen: li adoro.
   
 
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