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Autore: MaidOfOrleans    28/02/2014    8 recensioni
Siamo nel 1980, e un Sirius ventenne viene informato della morte del fratello Regulus, ucciso dai Mangiamorte suoi compagni. Il dolore si somma a quello che prova ininterrottamente da quando, un paio di mesi prima, Remus l'ha lasciato dopo un litigio. Sirius sa bene che Lunastorta è l'unico che possa salvarlo dalla sua deriva.
"Songfic" (tra virgolette perché é un po' lunga!) ispirata a Tutti i miei sbagli dei Subsonica.
Genere: Angst, Romantico, Song-fic | Stato: completa
Tipo di coppia: Slash | Personaggi: Albus Silente, I Malandrini, Lily Evans, Remus Lupin, Sirius Black | Coppie: Remus/Sirius
Note: Lime | Avvertimenti: nessuno | Contesto: Malandrini/I guerra magica
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Tu sai difendermi e farmi male,
Ammazzarmi e ricominciare
A prendermi vivo.
Sei tutti i miei sbagli.
 
A caduta libera.
Il pugno destro era orribilmente compresso, schiacciato tra le costole e il pavimento di legno. Non avrebbe saputo dire se a fargli male fossero le dita o lo sterno. Non avrebbe saputo identificare la sede del dolore, ma ne avvertiva la pulsazione, ritmica e fonda, come una linea di basso. Non avrebbe saputo ricordare quando si fosse pisciato addosso, ma a giudicare dal calore umido che gli impregnava le cosce doveva averlo fatto.
Con un gemito che risuonò nel corridoio deserto, Sirius rotolò fino a trovarsi supino, gli occhi chiusi. Temeva che, se avesse tentato di aprirli, avrebbe scoperto che le ciglia si erano fuse con gli zigomi, e che non ci sarebbe mai stato modo di ripulire la patina di muco e vomito che gli imbrattava la faccia. Respirare gli dava una sensazione strana, come se i polmoni avessero deciso che espandersi era una fatica insormontabile.
E così, a quanto pare era vivo. La scoperta non lo sorprese più di tanto: negli ultimi due mesi, aveva imparato a proprie spese che morire non era una passeggiata. Qualcosa, dentro di lui (era un’espressione stucchevole, ma anche l’unica che gli venisse in mente), sembrava avere intenzione di resistere, e anche di trascinare un discreto numero di nemici nella tomba. Il vento gelido che la moto gli sputava addosso non provocava sindromi polmonari, le sigarette cui tagliava il filtro con furia autodistruttiva non gli scorticavano labbra e lingua, il whisky ad ogni ora del giorno e della notte- whisky alle sette, subito dopo essersi alzato ed aver sputato catarro e bile nel lavandino, whisky a mezzogiorno, insieme a qualunque cosa offrisse la rosticceria cinese all’angolo, whisky verso le nove di sera, mentre il suo corpo sudato macerava tra le pieghe del divano- non gli provocava nulla che non fosse una sensazione quasi perenne di disgusto per se stesso. Che gli piacesse o no, Sirius Black era difficile da mettere al tappeto.
Eppure ci aveva provato, ci aveva provato davvero. Ci stava provando anche in quel momento, ubriaco come non ricordava di essere mai stato, con ogni genere di fluido corporeo che gli si rapprendeva sulla maglietta e fra i capelli, ridotto a un grumo di ossa contuse sul pavimento di una casa che aveva giurato di abbandonare per sempre.
Grimmauld Place numero 12, rifletté la frazione lucida del cervello di Sirius, era un utero. Un utero appiccicoso, buio, capace di fagocitare frammenti di universo ben più in fretta di quanto non li risputasse. Tre anni e mezzo prima, liberarsi di quelle mura opprimenti era stato come nascere una seconda volta. Che cosa c’era che non andava in lui? La polvere disegnava arabeschi sul pavimento e ora sotto il suo zigomo, irritandogli la pelle con un milione di piccoli aghi.
L’apparire della sagoma di Silente sulla soglia del piccolo appartamento di Earl’s Court aveva interrotto la corsa affaticata del cuore di Sirius per un tempo che, nella caligine dei ricordi, era più di quello che avrebbe richiesto pulire l’intera cucina. Aveva avuto l’impressione che le sue ginocchia si fossero improvvisamente dimenticate tutto quello che avevano appreso in vent’anni.
Lily? James? Il bambino, oh, Dio, il bambino. Oppure…era possibile che…
“Regulus.” Una parola sola nel tono che sempre associava a Silente, fin troppo limpido, ma carico di una profonda simpatia.
La sorpresa era stata tale che Sirius, lasciandosi cadere, aveva quasi mancato la sedia. Ciò che l’aveva fatto sentire orribile, sporco, crudele- ciò che lo aveva trascinato sul pavimento di Grimmauld Place in una desolata notte di inizio aprile-, però, era stata la sensazione tiepida che gli si era diffusa in gola e dietro le orbite. Sollievo. Si era reso conto che, fino a quando non aveva sentito un insieme di lettere al quale non era preparato, aveva trattenuto il respiro. Non lui, ti prego, fai che non sia lui. Continuava a sperare che l’altro uomo avesse frainteso la lacrima stentata che gli era corsa lungo il viso.
“Gli Auror?” aveva mormorato. Silente si era seduto di fronte a lui senza aspettare un invito e aveva sospirato- un sospiro stanco, Sirius si era sorpreso a pensare, il sospiro di un vecchio.
“No.”
“E allora che cosa diavolo è successo? Ha scagliato un Anatema che Uccide per gioco, mentre si guardava allo specchio? Stupido idiota.
La rabbia era più facile del dolore. Sibilare era più facile che sussurrare. Versarsi un bicchiere di whisky di fronte all’uomo che ammirava di più al mondo era più facile che piangere in sua presenza.
Silente si era limitato a guardarlo, le dita sottili giunte a formare una guglia. I suoi occhi azzurri avevano assunto la sfumatura degli ultimi scampoli di notte alle cinque del mattino.
“E’ stato ucciso da alcuni Mangiamorte.”
“Da- lui è…che cosa?” Il ragazzo aveva rischiato di sputare il liquore sul tavolo. Per quanto ne aveva sempre saputo, il suo inutile fratello minore aveva militato tra le fila dello schieramento opposto.
“A quanto pare, non era d’accordo con qualcosa che gli avevano chiesto di fare. Voleva fare un passo indietro, insomma.” Senza preavviso, la mano del preside aveva sfiorato il gomito di Sirius. “Voldemort non concede contratti a termine.”
Odiandosi, Sirius era stato costretto a reprimere il brivido che gli aveva provocato sentire quel nome pronunciato a voce alta, senza spocchia, ma anche senza alcuna paura. Silente se n’era andato poco dopo, dopo avergli assicurato che i suoi genitori erano stati informati e che, per il momento, i Potter non avevano nulla da temere. Non aveva parlato di nessun altro, e il ragazzo si era chiesto solo diverse ore dopo il perché.
Erano passati otto giorni, otto giorni colmi di un’agonia ancora peggiore di quella in cui si era trascinato prima. Non aveva visto Regulus per quasi quattro anni, e dovevano esserne trascorsi almeno sei dall’ultima volta che avevano avuto una conversazione senza urla e porte sbattute; tuttavia, nelle notti odorose di fiori marcescenti e sperma, quelle in cui tenere aperte la finestra equivaleva a soffocare nel tanfo dei tigli e chiuderle in quello della propria deriva, lo avevano tormentato immagini che credeva disperse in qualche anfratto della mente.
Suo fratello senza un dente davanti, mentre correva nel grande salone dalle tende scarlatte, ridendo della faccia contorta di un pixie che aveva trovato nel sottoscala. Ancora più piccolo, un bambino che a malapena riusciva a camminare e lo seguiva caracollando per tutta la casa, Sirius, Sirius, le piccole mani tonde strette all’orlo del suo maglione. Gioca con me. Con una sigaretta tra le belle labbra (quanto detestava quella bellezza, quanto volentieri vi avrebbe rinunciato), Sirius si chiedeva quante volte gli avesse dato ascolto. Non sarebbe stato in grado di rammentarle tutte, ma era certo che fossero state poche.
I suoi genitori non si erano messi in contatto con lui, quando erano stati informati che era rimasto loro un unico figlio. Probabilmente credevano che fosse morto anche Sirius, e non se ne curavano.
Aveva atteso che passasse più di una settimana; abbastanza, sperava, perché chiunque avesse desiderato tornare a Grimmauld Place per recuperare gli effetti personali di Regulus avesse concluso il proprio operato. Ed eccolo lì, senza neppure un perché vero e proprio, con la fronte premuta contro il palissandro sudicio e  del piscio, il suo stesso piscio del cazzo che gli correva lungo le gambe fino quasi a bagnargli i calzini.
In cerca di uno schianto.
La voragine che gli ultimi due mesi gli avevano scavato nello sterno faceva di nuovo male, un dolore insopportabile; era stato come riaprire una ferita quasi invisibile con un colpo di tosse. La ragione per cui si era vomitato addosso nella casa che tanto odiava non risiedeva solamente nella dipartita del fratello che non aveva mai sopportato, il suo povero fratello, povero Regulus ammazzato così, a diciannove anni, povero Regulus che non era mai stato bello, mai stato popolare come lui, povero Regulus morto per sempre.
Erano due mesi che Remus se n’era andato, e due mesi che non accennava a tornare. Se non fosse stato ubriaco così spesso, forse Sirius avrebbe contato i giorni. Remus se n’era andato, e il suo respiro aveva smesso di solleticare il collo di Sirius nelle notti umide e di riempirgli la bocca nei lunghi giorni vuoti, di spingersi dentro i suoi polmoni ed aprirli, convincerli a funzionare.
Ma, fin tanto che sei qui,
Posso dirmi vivo.
Remus se n’era andato, e Sirius aveva passato ore seduto alla finestra, ad aspettare di veder comparire le sue spalle curve in fondo alla strada, a chiedersi chi avesse ragione. A chiedersi a che cosa servisse, in fin dei conti, avere ragione.
Era stato alla fine di gennaio, durante la festa per i sei mesi del piccolo Harry.
I Potter erano costretti a vivere in un paese dimenticato da Dio, con una vicina di casa quasi centenaria, un gatto lunatico e poco altro intorno; costretti dalle misure di sicurezza escogitate da Silente e dall’Ordine a non vedere i propri amici per quelli che parevano secoli. Era chiaro dalle lettere di Lily- era lei a tenere la corrispondenza, e chi altri? Ramoso si stufava dopo quattro secondi, di fronte a una pergamena- che James era pronto a esplodere, e che la deflagrazione non sarebbe stata senza vittime. Dopo quello che Sirius aveva immaginato come un estenuante braccio di ferro con gli altri, primo fra tutti il vecchio Malocchio Moody, avevano ottenuto di celebrare il bambino e il capodanno già trascorso a casa di Peter Minus, dalle parti di Liverpool, in una giornata limpida e fredda come un ricordo doloroso.
Nonostante le proteste di Sirius, Remus aveva insistito per andare in auto. Mesi prima, spinto dalla sensata riflessione che una moto volante non fosse l’ideale per passare inosservati, aveva deciso di prendere la patente di guida Babbana, ed era sempre alla ricerca di occasioni per fare pratica.
A dire il vero, ce ne sarebbero state molte nelle frequenti giornate di inattività, quelle in cui l’Ordine non poteva far altro che attendere le mosse successive del nemico. Quelle che facevano impazzire James e che Sirius segretamente amava, quelle in cui l’appartamento comprato con l’eredità dello zio Abraxas sapeva di sudori mischiati e di sesso. Ce ne sarebbero state, ma nemmeno Remus era così folle da abbandonare il letto sfatto, i biscotti nella dispensa e il calore di un corpo complementare al suo, la saliva di una bocca che sembrava appartenergli.
A volte, Sirius si chiedeva se fosse quella la guerra. Una settimana con l’adrenalina in circolo, la bacchetta sguainata, la morte che ti alitava sul collo, e tre a mangiare schifezze, leccare capezzoli e scopare come un conigli.
A qualche chilometro da Londra, nonostante le proteste iniziali il viaggio in macchina non gli era più sembrato una così cattiva idea. Una voce di donna miagolava alla radio (well, tune in, you might find the love you lost), e la mano di Sirius accarezzava la cucitura interna dei jeans di Remus, che ridacchiava senza spingerlo via. Per un attimo, osservando il proprio respiro che si condensava in sbuffi biancastri- il riscaldamento della Mini usata era rotto-, i ragazzi avevano dimenticato che qualcuno voleva uccidere le persone che più amavano al mondo, che fuori da quell’abitacolo gelido infuriava un conflitto. E non si erano sentiti addosso un giorno di più dei loro vent’anni.
Era successo molto tardi, quando nemmeno James ubriaco che abbracciava tutti con le lacrime agli occhi faceva più ridere ed Harry dormiva già da tempo, la minuscola testa bruna al sicuro nell’incavo del braccio di Remus. Peter aveva già cominciato a riporre i piatti, e Sirius era rientrato da poco da una pausa sigaretta a una temperatura inumana.
“Se vuoi te lo presto per un po’”, aveva riso Lily, intenerita dalla palese venerazione che le mani di Remus avevano per il piccolo corpo di Harry, per i suoi piedi rosati, per i pochi capelli neri che già apparivano indomabili come quelli del padre. “Sul serio, Lunastorta, te lo stai mangiando con gli occhi. E’ ora che anche tu ne sforni uno, no?”
Un silenzio accogliente si era improvvisamente fatto di pietra. Sirius aveva voltato le spalle alla moglie del proprio migliore amico, appena in tempo per moderare la reazione di fronte alla replica di Remus: “Appena avrò trovato la persona giusta.”
Durante il viaggio di ritorno, le mani di entrambi erano rimaste salde al proprio posto, e Donna Summer non si era azzardata ad emettere nemmeno una nota.
Le parole su di noi
Si dissolvono così.
Aveva aspettato di essere a casa prima di scoppiare. La casa che aveva comprato due anni prima, quella che, nonostante ufficialmente Remus abitasse ancora con i genitori a St. Michael’s Mount, aveva cominciato a considerare la loro casa. Quella in cui avevano fatto sesso accanto ai fornelli e sul pavimento, sul tavolo e appoggiati alla porta d’ingresso. Quella in cui giocavano  a marito e moglie, senza gli occhi del mondo sulle spalle.
“E così”, aveva inspirato, sentendo la cattiveria che impregnava ogni singola sillaba “Stai ancora aspettando la persona giusta.”
“Sirius.” La voce di Remus era controllata, come se avesse provato una parte ed ora si stesse limitando a ripeterla. Presumibilmente, aveva pensato a una risposta per tutto il tragitto da Liverpool a Londra, e anche nel tempo passato in coda per l’immissione in città. “Che cosa avrei dovuto dirle, secondo te?”
“No lo so,” Sirius si odiava quando si comportava in quel modo. Una parte di lui desiderava mantenere la discussione su un binario sensato e adulto, ma un’altra, ed era preponderante, dopo essere stata ferita voleva solo colpire a propria volta. Il suo tono grondava sarcasmo, un sarcasmo cattivo. “Per esempio, che hai già trovato la persona giusta, ma che difficilmente ci farai un bambino, finché continui a prenderlo nel culo.”
Remus aveva sussultato, e si era passato una mano sul viso che, nonostante la giovane età, appariva sempre sul punto di sgretolarsi come creta. Gli interventi così espliciti gli davano un fastidio quasi fisico, e Sirius lo sapeva.
“Che idea geniale. Perché non ci ho pensato? Già che c’ero, potevo anche darti un bacio con la lingua davanti a Peter.”
“Perché no?” lo aveva provocato l’altro, facendo un passo avanti. Sirius era dannatamente consapevole della propria bellezza, ma, nonostante la sicurezza apparente, di norma preferiva ignorarla, anziché utilizzarla come arma. A volte si vergognava che il suo viso fosse così attraente e il suo carattere così difficile: gli sembrava disonesto. Le labbra e gli zigomi offrivano un ponte che poi si rivelava difficile da attraversare.
In quel momento, però, un’arroganza sfrontata aveva cominciato a ribollirgli nelle vene. Aveva preso Remus per il mento e gli aveva soffiato sulla bocca con furibonda sensualità “Già, perché no?”
Il ragazzo più magro si era sottratto a quel tocco impudente. “Felpato, non farmi tornare su questo argomento. So che sono i nostri amici, ci amerebbero qualunque cosa succedesse eccetera eccetera, ma davvero pensi che per loro non sarebbe uno shock? James comincerebbe a ripensare alla nostra amicizia dall’inizio, si dannerebbe per non aver intuito nulla prima, si sentirebbe in colpa per non averci potuto supportare come avrebbe voluto. Lui e Lily mi sembrano già abbastanza stressati senza dover far fronte a queste stronzate.”
Stronzate?! Fammi capire, quindi noi due saremmo una stronzata?”
“Oh, Dio”, aveva sbottato Remus, esasperato. “Perché vuoi litigare? Perché mi stai rendendo tutto così difficile?”
Sirius non aveva risposto. Era leggermente ubriaco e si sentiva sull’orlo di un precipizio, con l’impulso irrefrenabile di lasciarsi cadere.
“Sei tu che te la stai rendendo difficile. Hai paura, Remus, ecco che cos’hai. Ti caghi sotto.” Si era seduto sulle ginocchia del ragazzo, una mano chiusa sul cavallo dei suoi jeans. “Remus Lupin, studente modello, membro dell’Ordine della Fenice, mai meno di O in Difesa Contro le Arti Oscure, Prefetto, Caposcuola. Remus Lupin che, nei tempi morti della guerra, lo piglia nel culo. E ne chiede ancora.”
Sezionare la notte e il cuore
Per sentirmi vivo in tutti i miei sbagli.
Remus se n’era andato sbattendo la porta, le lacrime che gli sferzavano le guance scavate. Sirius si era sentito vuoto, superficiale, e il mattino dopo nauseato, idiota e orribile.
Gli aveva scritto miglia e miglia di pergamene senza mai neanche preoccuparsi di trovare un gufo. Aveva pianto, poco e con vergogna, stringendo contro il viso una delle sue magliette. Aveva urlato da sbronzo in piena notte, e si era masturbato nella vasca da bagno vuota pensando alla sua bocca, il sudore che gli stillava lentamente dalle tempie.
Durante la prima settimana, l’angoscia era stata in qualche modo stemperata dalla speranza. Altre volte erano arrivati a gridare e rompere bicchieri, e quasi sempre era stato Sirius a cominciare; altre volte Lunastorta era ricomparso alle quattro del mattino, con un’espressione mortalmente seria sul viso più vecchio dei suoi anni, deciso a “discutere la faccenda una volta per tutte”. Altre volte si erano addormentati l’uno nelle braccia dell’altro sul divano sfondato, perché dopo tante parole e il tentativo di conciliare punti di vista opposti sentivano ogni volta una strana stanchezza, un senso di vuoto che solo il contatto fisico poteva placare.
Eppure, erano trascorsi i giorni, e poi un mese. Sirius si era chiesto come si sentisse Remus, che cosa stesse facendo, se anche lui trovasse difficile prendere sonno nella stanza del cottage a St. Michael’s Mount. Si era chiesto se, alla fine, avesse esagerato fino in fondo, se avesse raggiunto il punto di rottura. Se il suo amore (non lo chiamava mai così, se non nella propria testa, e dopo un paio di bicchieri) sarebbe mai ricomparso nel salotto di Earl’s Court. Se lo avrebbe seguito, casomai lui, Sirius, l’orgoglio incarnato,  colui che non chiedeva mai scusa, fosse andato a riprenderselo dai suoi genitori. Sempre, ovviamente, che si trovasse a casa loro, e non con qualcun altro.
Le lettere di Lily- gli arrivavano con la posta tradizionale, puntuali, ogni sabato mattina- ostentavano sull’argomento un silenzio sospetto. Sirius sapeva che, se non avesse ricevuto notizie di Remus per più di tre settimane, la moglie del suo migliore amico gli avrebbe scritto parole ansiose, soprattutto in un periodo come quello. Eppure, in quasi due mesi la donna non gli aveva domandato una volta dell’altro ragazzo, non aveva accennato a lui neppure in un PS. Questo significava- ne era certo- che Lily era in contatto con Remus, e che sapeva, senza dubbio da lui, che al momento i rapporti tra loro due non erano “proprio distesi”. Riusciva ad immaginarlo mentre pronunciava una frase del genere. Riusciva a vedere le sopracciglia chiare di Lily che svanivano sotto la frangetta rossa, in un’espressione di stupore che non faceva sforzi per camuffarsi.
Nei lunghi giorni di ozio (nemmeno l’Ordine pareva aver bisogno di lui), Sirius si era stupito di quanto sentisse la mancanza di Lily. La nostalgia per i giorni passati gomito a gomito con James non lo sorprendeva affatto: si trattava di una costante, di un rumore di fondo che sporcava la sua vita da quando si erano diplomati da Hogwarts. Eppure, mentre mangiava ravioli al vapore o si struggeva genericamente, disteso sul pavimento, a vagargli nella mente più spesso dopo quello di Remus era stato il viso dolce e lentigginoso della signora Potter. Lily non perdeva mai la testa. Lily aveva sempre una risposta per tutto. Se avesse potuto allontanarsi a proprio piacimento dalla casa di Godric’s Hollow, Lily sarebbe quasi di sicuro piombata nel suo appartamento da un giorno all’altro, avrebbe strillato di fronte al totale degrado dell’ambiente e della sua esistenza e avrebbe pulito, cucinato, dato ordini, aperto finestre. Lily non gli avrebbe chiesto nulla; si sarebbe limitata a rimetterlo all’onore del mondo con i suoi modi bruschi ma efficaci. E, soprattutto, Sirius sentiva che, se mai le avesse raccontato tutta la verità, a differenza di quanto pensava Lunastorta Lily avrebbe capito.
Forse, aveva riflettuto in diverse occasioni, Lily aveva capito. Avrebbe ricordato per sempre quella domenica sulle rive del lago, secoli prima, mentre James si affannava ad acchiappare il boccino da allenamento e Remus dormiva un sonno agitato, ancora prostrato dalla recente luna piena. Le amiche di Lily erano corse chissà dove, e così erano rimasti loro due, con i piedi a bagno nell’acqua limpida e fredda. Era il tramonto, e Hogwarts respirava a singhiozzi, come un animale ferito.
Lily lo aveva guardato a lungo, gli occhi verdi socchiusi contro il sole in declino.
“Esci ancora con Hannah?”
Lui si era riscosso dalle proprie usuali fantasticherie. “Più o meno” aveva confessato. “In effetti, sono alla ricerca di una scusa per scaricarla.”
Lei aveva riso. “Come mai non mi stupisce? Oh, Felpato.” Da pochissimo, aveva cominciato anche lei a fare uso dei soprannomi che loro si erano dati due anni prima. “Prima o poi anche tu troverai qualcuno che ti dia filo da torcere.”
Sirius aveva strappato un filo d’erba e cominciato a giocarci. “Già, me lo dice sempre anche Remus.”
Con un sospiro soddisfatto, Lily si era stiracchiata all’indietro, i capelli che accarezzavano il prato. “Vorrei che Remus mi apprezzasse la metà di quanto apprezza te. So che gli piaccio, ma sono gelosa…si vede che sei tu il suo preferito.”
Sirius dubitava che l’attuale signora Potter lo sapesse, ma era probabile che, se quel dialogo non fosse mai avvenuto, molti fatti si sarebbero svolti in maniera diversa. Senza un vero perché, infatti, la frase che lei aveva pronunciato si era stampata nel cervello del ragazzo, e lui aveva cominciato a fare caso al comportamento di Remus nei suoi confronti. Non ci aveva messo molto ad accorgersi che Lily non aveva torto. Gli occhi castani dell’amico sembravano seguirlo ovunque andasse, in Sala Comune, a lezione e perfino nei dormitori. Determinato ad andare fino in fondo, Sirius si era spogliato di proposito davanti a lui in un paio di occasioni, e si era reso conto che, nello sguardo di Lunastorta, si agitava qualcosa in grado di fargli paura. Forse…desiderio?
Per un paio di mesi, la consapevolezza che Remus nutriva un interesse particolare verso di lui gli era parsa irreale, e aveva creduto che fosse frutto della sua immaginazione notoriamente ipertrofica. Aveva scaricato Hannah ed era passato a una Tassorosso del sesto anno, Macey, che aveva i capelli color cannella e un modo adorabile di sollevare il sopracciglio sinistro. Una notte, sull’erba dietro le serre, l’aveva spogliata e le aveva accarezzato i grandi seni. Mentre scivolava dentro di lei, tuttavia, il pensiero che gli si era affacciato alla mente senza invito era stato quello delle spalle magre di Remus.
Aveva cominciato a spaventarsi sul serio.
Negli abissi della paranoia, aveva cercato ogni tipo di scusa per non rimanere solo con  l’amico, il quale, se anche si era sentito ferito, non si era mai fatto avanti per dirgli nulla. Liquidata Macey, si era trovato non ricordava come ad alzare la gonna a una Grifondoro ben più giovane di quanto avesse creduto, e di nuovo non era riuscito a toccarla senza che istantanee del corpo di Remus gli balzassero davanti agli occhi. Ogni volta che Ramoso raccontava loro con dovizia di particolari che cosa avesse combinato il giorno prima con Lily, un frammento di Sirius moriva, perché il desiderio che sentiva scorrere lungo le gambe non era derivato dalle storie di James, ma dalla persona che le ascoltava con un filo di imbarazzo, seduta all’altro capo del tavolo.
Due mesi di struggimento erano stati spazzati via in venti secondi quando, nonostante tutte le cautele di Sirius, lui e Remus si erano trovati soli in Guferia una sera di maggio. Mancava ancora una settimana alla luna piena, e il giovane licantropo era nel fiore delle sue poche forze, meno pallido del solito, con gli occhi più dorati che castani. I loro corpi si erano trovati vicini, pericolosamente vicini, e Sirius, con un impulso che gli sarebbe costato la settimana peggiore della sua vita, aveva premuto di scatto le labbra contro quelle di Lunastorta.
Il bacio era stato brevissimo, impetuoso e senza alcun dubbio corrisposto. Remus si era aggrappato alla sua bocca come se fosse stata un Incantesimo Testabolla su un pianeta dall’atmosfera tossica.
Tu, affogando per respirare.
Sirius si era dato il tempo solo di avvertire la morbidezza inaspettata della lingua dell’altro, il profumo di garofano del suo fiato, le mani così assurdamente simili alle sue che gli cingevano i fianchi, prima di fare un balzo all’indietro, sconvolto da se stesso.
“Io non sono così”, aveva mormorato freneticamente, per poi fuggire a rotta di collo, senza guardare dove andasse, che cosa stesse facendo.
Nei sette giorni seguenti, Remus lo aveva lasciato in pace. A posteriori, Felpato si era reso conto che, probabilmente, aveva trovato una scusa e detto a James e Peter di fare altrettanto; nessuno era venuto a pretendere di parlare con lui mentre stava sprofondato nel letto, fingendo di dormire. Le immagini di quei pochi momenti l’avevano torturato per ore, cancellando la fame e la sete e portando con sé la febbre. Che cosa cazzo gli stava succedendo? Era o non era Sirius Black il seduttore, il playboy, quello con schiere di ragazze ai piedi? Lui non era così. E allora perché quel bacio di neppure un minuto era stato l’unico nel corso dei suoi diciassette anni di vita durante il quale non si era preoccupato di dove mettere le braccia, di variare il ritmo per non apparire meccanico, di aprire un occhio di soppiatto per rendersi conto della reazione della persona in questione? Perché era stato l’unico durante il quale si fosse sentito a posto?
Allo scadere della settimana, Remus aveva scostato le tende del baldacchino e si era seduto ai piedi del suo letto. Doveva essere il tramonto, e tutti gli altri probabilmente si trovavano in sala comune, a ridere, mangiare o discutere della guerra imminente. Che, allora, sembrava così ridicolmente lontana.
L’amico era serio, emaciato. La luna piena era trascorsa da quattro giorni, e Sirius era rimasto nel castello con la gola riarsa e la temperatura corporea alterata mentre due Animagi e un licantropo scorrazzavano nella Foresta Proibita.
“Sirius”, gli aveva detto Remus, con una tale tenerezza che Felpato aveva avvertito un argine crollare dentro il proprio petto. “Io sono così solo per te.”
I baci che erano seguiti erano stati meno famelici, più lenti, ognuno così intenso che Sirius aveva sentito la febbre rialzarsi. Era stata l’occasione in cui aveva capito che non era poi tanto male essere così. E, soprattutto, quella in cui aveva imparato ad arrendersi.
Nella sua memoria, i mesi successivi avrebbero assunto contorni irreali, sfumati, come il ricordo di un lungo sogno. In qualche modo, grazie anche al pugno di ferro con cui Lily li spronava a studiare, perfino lui e James avevano passato dignitosamente i M.A.G.O.. C’era stata una grande festa di fine anno a casa di qualcuno, e lui e Remus si erano baciati per ore su una terrazza, con le mani dappertutto e il punch corretto con il Whisky Incendiario che correva loro nelle vene. James e Lily avevano annunciato il proprio fidanzamento in una notte calda e limpida, alla presenza degli odiosi parenti Babbani di lei e dei genitori di James. Lo zio Abraxas era morto, facendo piangere al nipote lacrime colpevoli: Sirius non andava a trovarlo da tempo, eppure aveva ricevuto in eredità una somma discreta. I signori Black si erano trasferiti dalla casa londinese di Grimmauld Place alla loro piccola tenuta di campagna, portando con sé Kreacher, l’elfo domestico che Felpato tanto odiava. Era nato l’Ordine della Fenice, e tutti loro erano entrati a farne parte, seguendo lo scintillio esagitato degli occhi di James.
Con il denaro appena acquisito, Sirius aveva comprato il piccolo appartamento di Earl’s Court, abbandonando la casa dei signori Potter, che lo avevano ospitato nelle ultime due estati. A poco a poco, Remus si era trasferito da lui, tornando sempre più raramente a St. Michael’s Mount ed alla soffocante tenerezza della madre.
In quelle tre stanze, al riparo degli occhi del mondo, loro due avevano vissuto innumerevoli, sciocche prime volte. La prima volta che si erano addormentati in salotto tenendosi per mano. La prima volta che avevano bevuto il caffè insieme al mattino, in boxer e con il sonno sul viso, la radio che cantava and here’s to you, mrs. Robinson, Jesus loves you more than you will know. La prima volta che avevano cucinato il cibo comprato insieme.
E, ultima ma mai ultima, la prima volta che avevano fatto l’amore.
Sirius detestava l’espressione “fare l’amore”. Gli era sempre sembrata viscida e ipocrita: lui non era tipo da sottintesi, diceva senza battere ciglio “scopare”, o “fottere”, forse volgare, ma sempre sincero.
Eppure, quando si era trovato a stringere tra le braccia il corpo magro e tremante di Remus sul letto troppo piccolo, terrorizzato dall’idea di fargli del male, impacciato come un quindicenne, si era reso conto che, in quell’occasione, la parola “amore” non conteneva una bugia. Aveva posato le labbra su quelle dell’altro ragazzo, più che un bacio un contatto per comunicargli tutto quello che non sarebbe riuscito a dire senza sentirsi peggio che idiota. Remus si era tuffato in quella bocca, l’aveva morso, e il sale delle loro lacrime si era mischiato alla saliva mentre il dolore diventava piacere. Un’ora dopo, quando tutto era finito da un pezzo, Sirius si era leccato il labbro inferiore, trovandolo gonfio e avvertendo un sapore di ruggine. Un altro uomo gli aveva provocato una lesione, e tutto quello che desiderava era stringere a sé il suo corpo scarno ancora più forte di quanto stesse già facendo.
Imparando anche a sanguinare.
Il sesso era diventato facile, come tutto diventa facile con l’esercizio. Si erano dedicati al soddisfacimento reciproco in molti modi, ma Sirius non avrebbe mai dimenticato quei primi venti minuti, la paura, il senso di colpa, l’esplosione finale.
Adesso, un anno e mezzo dopo, Remus se n’era andato, e con lui ciò che teneva Felpato saldamente ancorato al mondo dei vivi. Ogni tanto, sfatto dall’alcol e dall’insonnia perenne, Sirius si era chiesto che senso avesse possedere un corpo, ora che Lunastorta non lo toccava più. Se ci fosse, in lui, qualcosa di vero, ora che nessuno era accanto a lui per condividerlo.
Nel giorno che sfugge,
Il tempo reale sei tu.
Chissà in che stato era il corpo di suo fratello. Se aveva sofferto molto. Se era stato un Anatema che Uccide, veloce e pulito, o una lenta tortura. Aveva passato quattro ore vagando per la casa vuota e sinistra nella quale si era rivelato sorprendentemente facile entrare, bevendo, fumando, bevendo ancora, piangendo a modo proprio Regulus Arcturus Black, diciannove anni, morto per sempre.
Ora che quasi tutto il whisky gli imbrattava la faccia e i vestiti, Sirius iniziava a domandarsi come avrebbe fatto a tornare a casa. Si era Materializzato davanti al numero dodici, ma era certo di non essere nelle condizioni di tentare un incantesimo avanzato. Magari, si sarebbe addormentato e sarebbe schiodato lì, soffocato dal proprio vomito. Avrebbero trovato il suo cadavere solo parecchi mesi più tardi. Una risata sardonica gli spinse del rigurgito su per la gola. Un modo nobile di andarsene.
In lontananza avvertiva delle urla, particolarmente sgradevoli perché si trattava di una voce conosciuta. Il ritratto di sua madre appeso nell’ingresso sembrava aver preso l’abitudine di ululare insulti non appena il suo sonno veniva disturbato da qualche rumore, fosse stato un intruso o il volo di un pipistrello. Doveva trattarsi della seconda opzione. Sirius si sarebbe volentieri staccato le orecchie.
Lentamente, le grida si affievolirono fin quasi a spegnersi. Il silenzio non gli era mai piaciuto. In quel momento, però, non chiedeva altro che quello, la testa attraversata da periodiche saette di dolore.
Passi.
Per un attimo, si convinse che si trattasse di un’eco della sua mente, ma no, non poteva essere; erano proprio passi, leggeri ma avvertibili su per la scala scricchiolante. La bacchetta. Dove cazzo si era cacciata la bacchetta? Dovevano essere Mangiamorte, venuti a cercare gli ultimi brandelli dell’esistenza di Regulus. Sarebbe davvero morto così, bocconi al suolo, con una chiazza di piscio sul cavallo dei jeans. Si coprì alla meglio la testa, per non vedere il volto del proprio assassino.
“Oh, diavolo.
La voce gli giunse ovattata, irreale, attraverso le dita premute sulle orecchie e il groviglio dei capelli sporchi. Non che importasse; l’avrebbe riconosciuta immediatamente ovunque, anche su una frequenza radio disturbata, anche attraverso uno di quegli infernali telefoni. Incredulo, abbassò lentamente le braccia, svelando il viso tumefatto e lurido.
Non sembrava cambiato dall’ultima volta che l’aveva visto. Forse appena più magro, più fragile. D’altronde, Sirius non aveva smesso di contare le lune piene, e doveva essercene stata una circa tre giorni prima. Di certo, l’espressione che gli corrugava i tratti sottili- un misto di tenerezza e rabbia- era la solita, quella che compariva ogni volta che Felpato andava contro i più elementari principi di autoconservazione.
“Ma che cosa hai fatto?”
Remus si inginocchiò accanto a lui, e per un istante la rabbia parve prevalere sulla simpatia. Sirius non rispose. Era consapevole di sembrare un cumulo di stracci in una stazione della metropolitana.
“Cristo. Cristo. E’ possibile che senza di me tu non sia in grado di tenerti in vita?”
Il ragazzo cercò di girarsi su un fianco, per guardare meglio Remus. Dio, com’era bello. E pulito. I suoi vestiti dovevano essere stati lavati non più tardi del giorno prima. Nessuna delle cose che gli venivano in mente da dire avrebbe avuto senso in un contesto simile.
“Come hai fatto a trovarmi?” gracchiò, e si vergognò del suono della propria voce.
Remus gli si sedette accanto. Nemmeno lui sembrava troppo fiero di se stesso.
“Silente è venuto a casa dei miei e mi ha detto di Regulus. Ho lasciato passare un po’ di tempo, perché…” come sempre quando la situazione si faceva pesante, si passò la mano sulla faccia, quasi a voler sfregare via le complicazioni. “Perché ero arrabbiato. Ero incazzato nero, e tu sei così dannatamente testardo. Nemmeno una lettera.”
“Io…”
“Sì, lo so che sei fatto così. E’ per quello che alla fine mi sono reso conto che dovevo venire a cercarti.”
Anche se avesse avuto le parole per esprimere la propria gratitudine, Sirius non l’avrebbe fatto. Non ancora. La voce di Lunastorta era come balsamo sulle ferite brucianti, e non voleva che smettesse di risuonargli dentro.
“Sono andato ad Earl’s Court, ma non c’eri. Ho capito subito dove eri finito. Ed eccoti qui. Lasciati dire che sei un disastro.”
Sirius gemette, il dolore al cervello trasformato in un ronzio. Nulla che già non sapesse. Sussultò, in preda a un sentimento senza nome, quando Remus gli accarezzò la guancia, incurante del vomito e del muco.
“Oh, Felpato…”
La sofferenza, la nausea, il disgusto per se stesso; tutto parve dissolversi come l’odore dell’asfalto bagnato dopo la pioggia. Remus gli aveva preso la testa pulsante in grembo, e le sue dita sottili gli districavano i capelli lerci. Il calore delle sue mani era ovunque, sulla fronte contratta, sugli zigomi, nell’anima di Sirius, che finalmente sembrava aver smesso di combattere una guerra senza vincitori contro un nemico invisibile. Il ragazzo non riusciva a preoccuparsi nemmeno che Remus potesse vedere che si era pisciato addosso. Ora che sentiva l’addome incavato dell’altro contro la nuca, che percepiva un respiro breve, così diverso e così uguale al suo, nuovamente vicino a sé, non c’era niente altro che gli importasse al mondo.
“Mi dispiace per Regulus”, sussurrò Lunastorta, senza smettere di accarezzargli la fronte.
“A me dispiace…per tutto.”
L’altro si chinò e, nonostante il sudore ghiacciato che ricopriva Sirius, gli baciò una clavicola che emergeva dal colletto slabbrato della maglia. “Ne riparliamo a casa.”
Casa. La loro casa.
Sirius si lasciò sostenere da Remus, così magro eppure così forte, che lo adagiò sul sedile anteriore della Mini, senza alcun riguardo per la tappezzeria crema. Si lasciò trascinare su per le scale dell’appartamento di Earl’s Court, spogliare dei vestiti incrostati di vomito, lavare con una spugna che non ricordava neppure che possedessero. E finalmente, in quel letto sempre troppo angusto, troppo duro, troppo piccolo, il viso gonfio appoggiato al petto di Remus, Sirius si lasciò cullare fino ad addormentarsi.
Tu, il mio orgoglio che può aspettare;
E, anche quando c’è più dolore,
Non trovo un rimpianto;
Non riesco ad arrendermi
A tutti i miei sbagli.

 
Cari fanciulle e fanciulli,
verrà il giorno in cui smetterò di scrivere assurdità angst dando la colpa ai Subsonica. Ma temo abbiate già capito che non è questo il giorno.
La verità è che avevo in testa l'idea di una Wolfstar da davvero molto tempo (il Potterverse è quello in cui mi sento più a casa, e dato che adoro sia Remus, per cui ho un debole, che Sirius, prima o poi sarebbe dovuto accadere), e che appena mi sono liberata degli esami ho buttato giù tutto questo, senza plottare un accidente (qualcuno, tra di voi, sta affilando l'ascia. E so benissimo chi.). Di conseguenza, è probabile che in quanto sopra non abbiate riscontrato nulla di più che i vaneggiamenti di una mente instabile. In ogni caso, sareste moolto, moolto carini se lasciaste una recensioncina <3
Questa fanfiction è dedicata a Leylamal, la mia cuginetta ufficiosa, che ben DIECI ANNI FA- dieci!- mi ha introdotto al mondo delle fanfiction. So che le coppie non canon ti fanno storcere il naso, e che preferisci quando mi attengo più scrupolosamente a ciò che ci ha detto la Zia Ro, ma spero che apprezzerai almeno il pensiero xD Ti voglio bene, e sono contenta, vent'anni fa, di averti trovato ad aspettarmi in questo mondo <3
Un bacio a june93 e Imp, che presto o tardi se le daranno di santa ragione (ognuna rivendica il diritto assoluto su Sirius) e un saluto speciale a I get a little bit bigger, che ha fortissimamente voluto questa storia. Alla prossima! 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 
 

 
 
 
 
 
  
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