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Autore: angelinbluejeanz    01/03/2014    0 recensioni
Quando quegli occhi verdi incrociarono i miei, nel cuore provai un moto di profonda tenerezza e comprensione, perché capivo bene che aveva bisogno di aiuto, che aveva bisogno di parlare, che aveva bisogno di qualcuno che lo aiutasse a trovare la via, non solo per l'appartamento, ma per la sua vita in generale. Ovviamente questo posso dirlo solo adesso, guardandomi indietro e ripensando a tutto quello che è successo a partire da quel giorno. Allora non sapevo, non ancora. Non sapevo che accettando di aiutarlo gli avevo appena dato pieno accesso alla mia casa, alla mia vita, al mio cuore. Che tutto avrei perso e che tutto avrei guadagnato. Questo non potevo saperlo. Non ancora.
Genere: Fluff, Romantico, Slice of life | Stato: in corso
Tipo di coppia: Het, Crack Pairing | Personaggi: Grant Gustin, Nuovo personaggio
Note: AU, OOC, What if? | Avvertimenti: nessuno
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II

Il teatro degli illusi



Il resto della giornata passò velocemente. Lo aiutai ad orientarsi nel quartiere in quello che mi sembrò essere un battito di ciglia, mentre in realtà era passata un’ora e mezza. Grant era di grande compagnia, credo la persona più socievole e chiacchierona che avessi mai incontrato sino ad allora. Era una di quelle persone così solari da cui fatichi a separarti, ma era passata da un pezzo l’ora di pranzo, ed io dovevo davvero tornare a casa… anche perché la mia tesi non si sarebbe scritta da sola! Fu a quel punto, quando lo salutai augurandogli nuovamente buona fortuna nella sua avventura solitaria, che lo vidi esitare e, per la seconda volta, sorprendermi:

– Do you feel like going out tonight? –

– Excuse-me? –

– I…I was thinking, since you were so nice to me this morning I should do something in return… besides that I’ve been on my own for a while, it’ll be nice to have company for once – ammise.-

Pensai che fosse pazzo, che era una persona che non avevo mai visto prima e che voleva uscire con me per ricambiare il mio aiuto. Per quanto ne sapevo dalle (troppe) puntate di CSI che avevo visto, poteva trattarsi di un serial killer dal viso gentile… Certo, un serial killer molto attraente, dallo sguardo dolce e con il cane più tenero e vivace dell’universo al seguito… Stavo per declinare l’invito, in fondo avevamo passato qualche ora insieme e c’eravamo trovati bene a parlare e scherzare su nonesense, ma uscire a tu per tu sarebbe forse risultato imbarazzante, per quanto a mio agio mi fossi potuta sentire quella mattina mentre lo guidavo per la città. Poi pensai a Nicola… “Hey, niente, volevo dirti che stasera non ci sono… sai Luigi…”

– Sure! It’ll be fun! – risposi di getto

–You sure? – mi chiese dubbioso. Forse ero stata a pensarci troppo, come mio solito.

– You can count on me… I’ll be meeting you at your's, okay? I just don’t want you to get lost again because of me – aggiunsi. Lui rise ed annuì…


…aveva un sorriso bellissimo, di quelli che ti scaldano il cuore… ma io non dovevo avere quei pensieri. Erano pericolosi e non avrebbero portato a nulla di buono. Era con tali pensieri che mi frullavano per la mente che mi preparavo per andargli incontro. Salutai con un vago ‘Esco!’ le mie coinquiline, Maura e la Giada, e mi chiusi la porta alle spalle. Uscii furtivamente, quasi fossi una ladra che non vorrebbe essere notata. Non avevo detto nulla del mio incontro a Maura, nonostante avessimo un bellissimo rapporto. Di parlarne alla Giada, poi, neanche a pagarmi… dovete sapere che la Giada è la classica CdM che si trova in tutte le case di studenti universitari: quella per cui ogni pretesto è buono per litigare e quella per cui la convivenza diventa una potenziale fonte di esaurimenti nervosi cronici. Non parlai dell’americano neanche a Ludo, la mia migliore amica. Lei era capace di leggermi con lo sguardo e, per la prima volta, ero sollevata dal fatto che non potesse vedermi, che non potesse con il suo sguardo indagatore scorgere il turbinio di confuse emozioni che si agitavano in me. Lei al momento si trovava in Spagna, a Siviglia. Era partita per l'erasmus già da 6 mesi e mi mancava ogni giorno. Quella sera, tuttavia ero sollevata che non fosse qui, perché avrebbe capito subito che c’era qualcosa di strano. A dirla tutta, non sapevo neanche io cosa mi stesse succedendo. Non sapevo se tutta questa segretezza era dovuta ai sensi di colpa, anche se in fondo non stavo facendo nulla di male, o dalla poca importanza che dicevo di dare a tutta la faccenda… forse avevo paura di essere giudicata per via di Nicola, non saprei… fatto sta che tutte le mie perplessità sparirono neanche 30 secondi dopo aver incontrato Grant. Per mio disappunto non aveva con sé il suo cagnolino, Jett; troppa confusione mi disse, non era abituato.

Dal momento che mi aveva accennato al suo amore per il teatro, lo portai in un locale particolarissimo, in stile america degli anni ’20: il ‘teatrino degli illusi’. Si tratta un posto né troppo intimo né troppo affollato che ero sicura avrebbe fatto al caso nostro. Devo ammettere che le mie paure di trovarmi a disagio erano state totalmente infondate. Paranoie mentali tipiche della mia persona. Ci conoscevamo da meno di 24 ore e mi sembrava di parlare con lui come se lo facessi da una vita. Era da un’infinità di tempo che non passavo una bella serata con qualcuno. Ultimamente mi ero chiusa in me stessa, non vedevo spesso neanche la mia cara amica Elisa, anche lei laureanda in lettere a Bologna, ma pendolare da Parma. Quelle volte che uscivo ero con Nicola, o molto più spesso con lui ed i suoi amici, un gruppetto non molto simpatico di ragazzi ventenni sulla carta, ma nella pratica eterni adolescenti. Quelle serate raramente si chiudevano bene, in quanto io e Nico finivamo spessissimo a litigare per un motivo o per un altro.
Non ero felice ed il peggio era che la colpa era mia, perché non permettevo a me stessa di essere felice. Forse per rassegnazione, forse per mancanza di coraggio…forse tutt’e due le cose insieme.

Eppure quella sera ero lì: spensierata, allegra come non lo ero mai stata, in compagnia di un perfetto sconosciuto che, in realtà, mi sembrava di conoscere perfettamente. Era una sera di giugno particolarmente bella, calda ma ventilata – una rarità insomma. Per questo decidemmo, usciti dal locale, di fare una lunga passeggiata…volevamo approfittare del tempo, della compagnia, della serata il più possibile, perché presto ci saremmo salutati, la serata sarebbe finita e ognuno sarebbe ritornato alla propria vita, nel proprio mondo, dai propri problemi. Rimanemmo sui muretti di piazza delle sette chiese a lungo, era il mio luogo preferito di tutta Bologna, dove andavo per svuotarmi la mente, per rilassarmi, per evadere… semplicemente per essere, come non mancai di dirgli perché potesse approfittare anche lui di questo angolo di quiete nel turbinio delle esistenze che conducevamo. Non avevo mai condiviso con nessuno quel luogo, e sopratutto non avevo mai condiviso il motivo per cui mi ci recavo spesso: l’effetto calmante che sembrava avere su di me. Non so quanto tempo passò, oramai non facevo più caso all’orologio. Ci scambiammo qualche parola solo ogni tanto, immersi com’eravamo ognuno nel profondo dei propri pensieri. Era tuttavia un silenzio confortevole: non esprimeva imbarazzo, ma tranquillità.
Una volta lessi che gli animi sensibili riescono a percepire le sottili differenze fra i momenti di silenzio fra le persone. Non so se sia vero, ma me ne convinsi così tanto che nulla potrebbe più smuovermi dalla convinzione che un silenzio sia carico di tensione o di paura oppure sappia di confortevolezza… Ludo sostiene che io sia pazza, invece io credo fermamente che ogni silenzio abbia la sua intensità. Riesco a sentire quando aleggia tra me e qualcun altro della tensione (vedi Nico), dell'astio (vedi la Giada) o, in questo caso, pura e semplice pace. Finalmente.

Ad un certo punto, per spezzare il filo contorto dei miei pensieri che, se lo lasciassi correre a broglia sciolta, tenderebbe potenzialmente all’infinito, dissi:

– What do you do? – Anche il flusso dei pensieri di Grant fu interrotto bruscamente, a quanto pare, perché mi guardò con aria stralunata ed uno sguardo indecifrabile.

– I mean, for living… I told you I am graduating in Italian and we’ve been talking about me all day, but I never asked about you…well you told me you like to sing and dance but I wanted to know what do you do in your life… study, work? I am sorry if I am being rude… – A quel punto, la confusione con cui mi fissavano quegli occhi verdi e penetranti era assoluta.

– Did I just say something wrong? – gli chiesi. Forse era un argomento delicato e non ne voleva parlare, chi lo sa. Se ne stava lì a guardarmi con la testa inclinata verso destra, mordendosi il labbro inferiore, con uno sguardo non più confuso ma palesemente divertito.

– Nope – mi rispose semplicemente. Io mi limitai a guardarlo con l’espressione in volto di chi non sa cosa gli sta succedendo intorno. Rimase in silenzio ancora un po’, ed io a quel punto stavo cominciando ad innervosirmi. Detestavo non capire cosa stesse accadendo e soprattutto non capire perché mi guardava con quello stesso sguardo indecifrabile di prima, come se stesse facendo un scelta su cosa dire – o se parlare affatto.

– Have you ever watched Glee, the tv show? – mi chiese alla fine.

–Me? No! - risposi immediatamente, quasi indignata. – I don’t like it at all! beside the songs I think it is terrible! –. Visto che le sue labbra assunsero una piega strana, dispiaciuta forse, aggiunsi: – But, my best friend is actually a great fan of that tv show… she loves the songs and especially the ones of the bird group, can’t remember the name though… –

–Warblers – mi venne in aiuto

– yeah, that! ...Why did you ask? Are you a huge fan of the show, too? I didn’t mean to offend you – Non capivo perchè, ma a quel punto del mio flusso casuale di parole lui tratteneva letteralmente le risate.

– Why is it so funny? – chiesi stizzita.

– I mentioned you I sing and dance and act –

– I remember –. Non sapevo dove volesse arrivare, ma il gioco a cui stava giocando mi innervosiva e mi intrigava allo stesso tempo.

– Yes, well I do that for living –

Il mio cervello a quel punto fece due più due, e subì di rimando un black out.

La prima cosa che mi venne in mente, dopo aver riacquisto le facoltà mentali, fu: ‘Ludo mi ucciderà per questo’. Ludo è una fan sfegatata di Glee. Ricordo che mi fece vedere qualche puntata di questo telefilm, ma sinceramente a parte le canzoni il resto dei dialoghi non potevo tolleralo. Mi piaceva molto invece il gruppo degli uccelli, come lo chiamavo io. Secondo me non solo allietavano le orecchie, ma anche la vista… si sa, in fondo anche l’occhio vuole la sua parte! Facendo mente locale… perché sì, ho già detto che sono una persona tremendamente smemorata e distratta, ad un certo punto il mio cervello non solo fece 2+2, ma anche 4X4.

E questa è la storia della più grande figura di merda, che feci nella mia vita.

Mettermi in imbarazzo mi riesce sempre bene.

– Oh. My. Gosh! You... You’re the one with those weird tattoo of a State on his chest! Ohh! - Esclamai e, dopo una pausa, aggiunsi: - My best friend is so in love with you –. Lui non disse niente, ma si mise a ridere - una risata coinvolgente, buffa e fragorosa.

– Have you just insulted my wonderful tattoo? Which by the way is not on my chest, but-

– Grant, no offence, but it’s as if I had a huge map of Bologna on my back… that would be weird, don't you think so? – Replicai sarcastica.

–Thanks for being honest and… blunt – ammise sconfitto.

– I didn’t mean to offend you, I am sure there’s a story behind that – Risposi dolcemente. Non condividevo il suo cattivo gusto in materia, ma ciò non significava che non capissi che ci fosse qualcosa dietro.

A giudicare dal suo sguardo, mi resi conto che probabilmente avevo avuto poco tatto nell'esprimere la mia opinione. "Sono un caso disperato" pensai. Il mio più grande problema è dire sempre quello che penso, anche se non dovrei. Purtroppo a volte non riesco proprio a frenare la lingua e così finisco per mettermi in imbarazzo dopo che comincio a pensare.

E questa è la storia della seconda più grande figura di merda che feci, a quale aggiunse alla già lunga lista con velocità record.

–There is –. Rispose lui dopo un po', con un debole sorriso. Forse non ce l’aveva con me per quello che avevo detto sul suo discutibile gusto in fatto di tatuaggi. Prima che potessi replicare, lui fece un sospiro e disse:

– You know… my family is the most important thing I have, the most valuable bond I’ll ever have… and no matter how much busy or famous or distant I get, I promised to myself I’ll always have time for them… they keep me, me… and I do not want to change… I’ll always be connected to them, to my hometown, to my origins… I want to… and it may sound stupid but this tattoo me and my border both made kind of represent our love, our bond… and it helps me remember who I am. –

Lui parlò dolcemente, a bassa voce, guardando fisso le chiese davanti a noi e le persone che passavano. La sua storia mi aveva colpito, non solo perché come al solito avevo parlato troppo, ma anche perché vedevo la persona davanti a me per quello che era: un ragazzo dolce, solo, profondamente legato alla famiglia e al suo paese d’origine, che viveva nella paura di dimenticarsene, di diventare qualcun altro, di perdersi…

Senza saperlo avevo passato la serata con un conosciuto attore, forse era per questo che inizialmente, quando gli chiesi cosa facesse nella vita sembrava confuso e titubante, stava decidendo se dirmelo oppure no, visto che inaspettatamente non sapevo nulla di lui. Devo dire la verità, se anche mi avesse detto che era uno specializzando in medicina o un aspirante professore di matematica non avrebbe cambiato nulla… sapere che era ‘famoso’ mi aveva scosso, si, ma era sempre la stessa persona che quella mattina si era persa, che mi aveva chiesto indicazioni, che mi aveva permesso di coccolare il suo cane e che mi aveva invitato ad uscire un po’ per sdebitarsi dell’aiuto ricevuto, un po’ perché si sentiva solo. Sapere che qualcuno avrebbe pagato per essere al mio posto, in cui ero finita per caso, non mi faceva sentire speciale perché ci eravamo incontrati, né mi faceva credere che lui fosse ‘speciale’ perché era riconosciuto a livello internazionale per il suo talento.

Era per me il ragazzo strano e divertente che era stato ad ascoltarmi tutto il giorno, mentre gli raccontavo chi ero, o mentre gli parlavo della tipica vita di uno studente bolognese, e che era capitato facesse l’attore di mestiere, non solo per divertimento. Lo ammiravo, questo si, perché avevo davanti agli occhi la prova che non era facile tenere assieme i pezzi. Glielo leggevo apertamente nella stanchezza che ogni tanto, come un flash, comparirà nei suoi occhi.

Per spezzare il silenzio imbarazzante che si era creato, commentai:

-In any case, it remains a big weird tattoo… Do you have the tattoo of the state of California somewhere too? Or the tattoo of a warbler? – .

Lui si mise a ridere di gusto.

– There’s only one way to find out, Ale – insinuò ridendo, con ingenua malizia.

– Stop naming me after a beer, you idiot! – replicai con un finto tono serioso. Lasciai così cadere la sua allusione e spostai invece l’attenzione sul fatto che in tutta la serata non avesse ancora imparato a pronunciare correttamente il mio nome. Dopo svariati tentativi si era arreso e messo in testa di chiamarmi: ‘ale’. Ma non come se lo dicesse un italiano, con la pronuncia americana della parola: ‘ale’, che significa birra. Più io gli mostravo il mio disappunto per la questione, e più si convinceva che fosse il nomignolo giusto con cui chiamarmi.

– You’re even pale! It just suits you! – mi disse con fare convinto.

– Oh, Shut up! – esclamai lanciandogli la mia borsa addosso. Lui me la tirò indietro e aggiunse:

– You just made fun of me and my tattoo! I have every right to make fun of you too! –. Su questo punto gli davo ragione, ma ciò non cambiava il fatto che avrebbe dovuto imparare a pronuciare il mio nome correttamente.

– My name is Alessia, A-L-E-S-S-I-A, Alessia… I’ve been telling you that all night long! – replicai con finta frustrazione.

– I’ll never be able to pronounce that correctly – ammise con tono scherzoso.

–Then we can never speak to each other ever again – scherzai io, con il tono di voce di una bambina di tre anni. Lui si fece pensieroso per un attimo e poi se ne uscì dicendo:

– What about we make a deal and I call you Hales? Like Ale with H –

– Whatever – gli risposi sconfitta, tanto sapevo già che fargli pronunciare il mio nome correttamente sarebbe stata una battaglia persa in partenza.

– So, your friend is in love with me? – mi chiese, cambiando nuovamente argomento.

– Deeply... Well I think it is you, but I am not 100% sure – aggiunsi ridendo.

– I can tell! You didn’t eve recognize me and you did saw me on TV! – replicò, col solito sorriso di chi ne sa una più del diavolo.

– I did! At the end… And, if you are asking, No! I don’t want your autograph on my boobs! - dissi io sarcastica.

– Good to know - rispose, ma prima che potesse aggiungere altro continuai:

– I just don’t care what you do for living. As long as you don’t murder people on a daily basis, we are okay – Volevo chiarire con lui che non cambiava niente il fatto che recitasse o ballasse o cantasse a teatro od in televisione.

– Thanks – mi rispose semplicemente, prima di aggiungere - Would you mind not sharing the news I am here on the internet? I just want to be left alone for a while… I am not talking of you – si corresse subito, vedendo la mia espressione del viso incupirsi confusa. – I am talking in general…

– Why are you here? – mi sentii di chiedere all'improvviso.

– I am on holiday – rispose secco.

– But why are you here? – insitetti. Sapevo che non mi stava dicendo tutta la verità, glielo leggevo negli occhi.

– No reason in particular. Always wanted to visit Italy but never had the chance. Righ now it seemed the right time to do that and have some fun before getting back to work. Just that. – mi rispose. Ma io non me la bevevo. Le persone le sapevo leggere bene.


–Bullshit – Gli replicai decisa, guardandolo negli occhi. Avevo colto in essi una strana luce, appena gli chiesi cosa era venuto a fare qui. Conoscevo quello sguardo troppo bene, perché spesso lo indossavo anche io. Era lo sguardo di chi vorrebbe che gli chiedessi cosa c'è che non va, anche se non lo ammetterebbe mai. L'espressione di chi vorrebbe che insistessi, perché ha davvero bisogno di parlare con qualcuno. Per questo non mi arresi.


– Grant. Why are you here? – chiesi nuovamente. Lui non rispose, abbassò lo sguardo e fece un gran respiro.


–I am here 'cause I needed of a break– ammise. Ma gli leggevo in viso che c'era dell'altro.

–From the show business? Or the crazy fans? – gli venni in contro

– From everything – rispose lui lentamente, in un sussurro, appoggiando la testa contro la colonna dietro di lui, la bocca chiusa in una smorfia e lo sguardo intristito rivolto verso l’alto.

  
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